martedì 16 novembre 2010

Feltri sanzionato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


La Società Pannunzio per la libertà d'informazione, che denunciò il direttore del "Giornale", si dichiara soddisfatta della sanzione inflitta dall'Ordine dei giornalisti a Feltri.

Enzo Marzo
Società Pannunzio per la libertà d'informazione

Se in un guizzo di dignità il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti ha confermato la condanna a Vittorio Feltri per violazione del codice deontologico e ha deciso in via definitiva di sospenderlo dalla professione giornalistica, la Società Pannunzio per la libertà d'informazione, che denunciò il direttore del "Giornale", si dichiara soddisfatta dell'esito della vicenda. Certo, la riduzione quantitativa della sanzione, scaturita peraltro grazie a un tecnicismo formale, appare pilatesca.

    Tuttavia, la Società Pannunzio considera rilevante il riconoscimento conclusivo che nel caso Boffo vi è stata una grave violazione che disonora la professione giornalistica. Il commento a caldo di Feltri dimostra che purtroppo ci sono Direttori che non conoscono la legge sulla stampa del 1948. Infatti, siamo pronti a dimostrare che, in questa vicenda, mai è stata pubblicata una rettifica nei termini stabiliti dalla legge,  né mai Feltri ha comunicato ai suoi lettori di averli ingannati falsificando l'origine della fonte della notizia da lui data su Boffo.

    Come noi, in solitudine, denunciammo. Tuttora Feltri persevera nel vano tentativo di imbrogliare le carte, anziché di chiedere scusa ai suoi lettori.




Eutanasia, i vescovi controlo Spot "fuorilegge"

(rr) Una “attività di premeditato bullismo politico e culturale”: in questo senso, accusa Avvenire, va interpretato lo spot televisivo favore dell'eutanasia realizzato dall’associazione Exit International e proposto in Italia dall’associazione Luca Coscioni e dal Partito Radicale.

    Il video, vietato in Australia e trasmesso ieri in anteprima da Telelombardia, secondo il quotidiano della Cei, sarebbe soltanto l'ennesimo tentativo, da parte di quei “promotori del nuovo abbordaggio a quello che chiamano 'tabù' ma che è semplice senso comune presidiato dal diritto”, di delegittimare la nostra classe politica e “blandire l'opinione pubblica” facendo vedere il “volto 'libertario' e 'pietoso'” dell'eutanasia.

     “Va ricordato agli smemorati – continua Avvenire – che il Codice penale sanziona con chiarezza l''omicidio del consenziente', la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito'. Si spera dunque, prosegue il giornalista Ognibene nell'indignato editoriale, che “l'Autorità garante delle comunicazioni, alla quale i radicali si sono rivolti per chiedere il via libera allo spot della morte, faccia il proprio dovere fino in fondo fermando questa inutile provocazione”.

    Provocazione che, invece, secondo il professor Umberto Veronesi, non può più non essere colta. L'argomento eutanasia, sostiene l'oncologo, “non si può più ignorare, è un problema che va dibattuto anche se è difficile avere una posizione definitiva. Ma non si può ignorare quello che hanno già fatto Olanda, Belgio e Lussemburgo, o Germania e Scandinavia dove è stata depenalizzata, cosa che sta per accadere anche in Spagna".

    Sarebbe dunque forse il caso di ricordare proprio a chi si erge a difensore della (sempre più) fragile “cristalleria di valori condivisi da un intero popolo” che la questione-tabù dell'eutanasia non deve essere affrontata come una qualsivoglia competizione sportiva in cui gareggiano i giocatori pro-vita e quelli pro-morte.

    Suicidio assistito, dolce morte, eutanasia sono tutti termini con cui si vuole e si deve descrivere semplicemente il diritto ad una scelta: quella di abbandonare nella maniera più 'opportuna' una (non) vita fatta di dolore e sofferenza. Non esiste una morte 'buona', l'Oscura Signora è ancora un mistero per gli uomini che, però, probabilmente, potrebbero prenderla per mano e accompagnarsi a lei in maniera più dignitosa. Se solo fossero davvero liberi. (F.U.)

Vai al video dello spot:
http://www.lucacoscioni.it/spot_pro-eutanasia



Occorre, però, discernimento tra l'eutanasia "passiva" e "attiva"
 
Una valutazione molto generale del problema "eutanasia" può forse prendere le mosse dal principio secondo cui la vita di una persona si configura come un bene "indisponibile".

    La vita di una persona non ha un "prezzo", ma solo una sua incommensurabile "dignità".
    Una persona non "appartiene" a nessuno, neanche alla persona stessa. Una persona "è" (ma non "ha") la "sua" esistenza.

    Ci si domanderà: ma, allora, se la “mia” vita non mi appartiene fino in fondo, allora di chi è? Non ci si lasci trarre in inganno dal possessivo (si dice "mia moglie", "mio marito", "mia figlia", "mio figlio" ecc., ma senza intendere un rapporto proprietario).

    Bisogna semplicemente accettare che la vita umana si sottrae a categorie come quelle del possesso, della proprietà ecc.

    Tuttavia, quello che una persona effettivamente "ha", in rapporto alla propria vita, è la responsabilità. A ciascuno, responsabile della propria vita, va perciò stesso riconosciuta la facoltà di non accettare cibo, acqua, medicine, terapie.

    In tal senso ognuno, in condizioni normali, possiede già la legittima facoltà naturale di determinare la propria morte, se proprio la vuole. Questa naturale facoltà si manifesta secondo modalità passive e indirette, senza bisogno di mettere in atto gesti inconsulti e violenti.

    Se vogliamo partire di qui per definire l'eutanasia, cioè se vogliamo partire da una specie di sciopero della fame o della sete, delle medicine o delle terapie, quali potrebbero essere, di grazia, le contro-argomentazioni?

   E, inversamente, quale ratio possiamo rappresentarci come sufficiente a oltrepassare, invece, il limite naturale di cui sopra? Come giustificare atti capaci di effettivamente "dare la morte" a qualcuno?

    La questione si diparte in due direzioni. Da un lato ci si può domandare se sia lecito "staccare la spina" a un paziente in coma irreversibile, non più in grado d'intendere e di volere – come nel caso di Eluana Englaro. Dall'altro lato ci si pone la domanda se sia lecito "aiutare" un uomo a morire, mentre questi – come nel caso di Luca Coscioni – possiede intelletto e volontà, ma non più la capacità motoria di attuare la propria decisione di morire.

    Nel primo caso, quello di Eluana, sarebbe fuorviante parlare ancora di una vita "personale".
    Eluana cessò di vivere una "sua" vita quando il coma divenne irreversibile, quando cioè la morte cerebrale calò su di lei.

    Una volta appurata la morte cerebrale – con tutta l'accuratezza e la serietà di cui le conoscenze medico-scientifiche ci rendono capaci nell’appurare un caso così doloroso – noi riteniamo lecito cessare ogni accanimento terapeutico, esattamente come infine è avvenuto, nonostante l'inqualificabile gazzarra neo-clericale montata ad arte, e per scopi inconfessabili, da gente a cui di Eluana non importava nulla.

    In senso proprio si può parlare di "eutanasia" solo nel caso cioè in cui sia ancora realmente in gioco la vita di una persona: che si definisce come soggetto capace, quanto meno sul piano potenziale, d'intendere e di volere.

    Il problema si pone quando una "persona" abbia assunto la decisione di morire, senza poter realizzare questa decisione.

    Attenzione, però, la decisione di morire è assunta in questo caso sulla base di quella che, alla fine dei conti, non possiamo che definire un'opinione: l’opinione, segnatamente, secondo cui la propria vita non è degna di essere ulteriormente vissuta.

    Dobbiamo essere consapevoli di questo aspetto della questione, perché nessuna opinione, per quanto sofferta, può apparirci sufficiente a legittimare un omicidio.

    "Non uccidere", dice la Legge.
    Non significa che nessuno può rivendicare il "diritto" di uccidere nessuno, nemmeno se stesso?
    Certo, nella vita e nella storia umana, possono darsi infinite situazioni nelle quali il "Non uccidere", che vale in linea di diritto, entra poi, e talvolta ferocemente, in contraddizione con se stesso (ad esempio nel caso della legittima difesa).

    Ma non possiamo certo esaminare qui tutte le fattispecie; qui ci basta focalizzare un principio generale chiaro e comprensibile a tutti. E poiché il nostro punto di partenza è la dignità personale, non possiamo che mantenere fermo il criterio secondo cui nessun'opinione potrà mai bastare a togliere la vita a qualcuno, nemmeno nel caso in cui sia questo qualcuno a volerlo, in conseguenza di atroci dolori.

    Per sedare i dolori ci sono gli antidolorifici.
    Ora, se nessuno (e quindi neanche la persona stessa) pare avere diritto di causare direttamente la morte di un essere umano sulla base della propria opinione, non si vedono argomenti plausibili a favore dell'eutanasia "attiva".

    Restano invece buone ragioni a favore dell'eutanasia "passiva", cioè a favore dell'astensione da ogni terapia (eccettuata quella antidolorifica) una volta che il paziente abbia confermato una sua decisione in questo senso.

    In conclusione, l'impiego di agenti letali, anche conforme alla volontà del paziente, ci appare inaccettabile: la vita personale non è una grandezza disponibile.

    Ma, del pari, la somministrazione forzata di terapie sulla base di una qualsiasi imposizione autoritativa (sanitaria, statuale, morale o religiosa) la quale si opponga alla volontà del paziente sarebbe anch'essa del tutto inaccettabile: nemmeno la coscienza individuale è una grandezza disponibile. (A.E.)