martedì 21 febbraio 2017

Tu e Aristotele 3/3 - Significato del tu

«Il signore di cui è l'oracolo, quello in Delfi,

non dice, non nasconde, ma significa.» - Eraclito

«All'egoismo può essere opposto soltanto il pluralismo,

cioè il modo di pensare per cui – non contenendo tutto

il mondo nel proprio sé – ci si considera e bensì comporta

come semplici cittadini del mondo.» - Immanuel Kant


Terza e ultima parte del saggio di Andrea Ermano in omaggio critico al grande pensatore greco di cui ricorre in que­sti mesi il 2400.mo dalla nascita.

di Andrea Ermano

Quali cose ci sono? Quali essenti esistono? C'è, per esempio, un essere umano? E, posto che – come appare del tutto evidente – esista un uomo individuale, esistono anche gruppi di esseri umani? E una società? Ma, in tal caso, che cosa significa "tu sei, tu esisti"?

    Qui finora abbiamo dato per scontato che ci siano 'sostanze', ed em­blematicamente che ci sia un essere umano; èstin anthropos, annota qua e là Aristotele, paradigmaticamente: “Esiste un uomo”. Ma che cos'è un essere umano? Nelle Vite e dottrine di filosofi illustri Laerzio racconta che: «Platone aveva appena proposto dell'uomo la definizio­ne: "L'uomo è un essere vivente bipede e implume", ed era stato ap­plaudito. Allora Diogene spennò un gallo e lo portò nella sala dicendo: "Ecco l'uomo di Platone"».

    Diogene! Pare non credesse – “vero figlio di Zeus e cane celeste” – in un dogma ingenuo circa l'esistenza… dell'uomo. Forse reputava che un essere umano, potendo agire e ragionare, dovrebbe possedere la ca­pacità di dire e fare con sincerità e bontà.

    Ma lo vedi tu un siffatto animale? Diogene non lo vedeva. E di con­se­guenza si pose alla ricerca di un… anthropos.

Atene esterno giorno, Diogene si fa largo nell'agorà dell'antica me­tro­poli lumeggiando con la lanterna un'abbacinante estate mediterranea: "Cerco l'uomo!", esclama. E tutt'intorno la folla brulicante. Ma lui non riesce a vederne neanche uno solo.

    C'è un uomo?!

    La domanda suona completamente assurda e forse perciò la gente riteneva che Diogene fosse mainomenos, “un folle”, o meglio: Socrates mainomenos, “un Socrate folle” (D.L. VI, 54).

    Ma cerchiamo per una volta di essere onesti. Non sappiamo quando veniamo al mondo né quando dobbiamo andarcene. Non sappiamo chi siamo. Da dove dovremmo sapere che siamo? Pindaro denunciava in noi una doppia irrealtà: «Progenie d'un giorno! Che cos'è qualcuno? Che cos'è nessuno? Sogno di un'ombra l'essere umano» (Pitiche, VIII, 135). La vita è "rêve d’une ombre", traduce Leopardi: “image sublime” che dipinge tutto il nulla dell'uomo (Zibaldone, 10.2.1823). Immagine certo “sublime”, ma anche affollatissima, questa dell'uomo-ombra pindari­co: "Fantasma di un'ombra" dirà Eschilo (Agam., 839), “polvere e vana ombra” ribadirà Sofocle (El., 1159), mentre per i Salmi i giorni dell'uomo "vanno via come l'ombra" (143, 4). E Renzo Tosi ri­porta un sillogismo medievale di gusto oraziano (Carm., 4, 7, 16): "Siamo polvere e ombra, la polvere non è che fumo; ma il fumo è nulla, quindi noi non siamo nulla" (Walther, 22889). Dopodiché ecco il Petrarca del “sogno lieve” e del “fugacissimo fantasma” (Canz., 1, 14), nonché, scendendo per li rami, Shakespeare: “Life is but a walking shadow” (Mac­beth, 5, 5); giù giù fino a Calderon de la Barca (La vida es un sueño) e Grill­patzer (Der Traum ein Leben) per non tacere di Giosuè Carducci: «Con­tes­sa, che mai è la vita? / È l'ombra d'un sogno fug­gen­te» (Rime e ritmi, 3, 73 sg.).

    E dimmi tu se questa non è un'ossessione.

    Plutarco, richiamato da Vegetti, parafrasava così: «Considerato rettamente, l'essere umano non ha nessuna parte nell'essere. Ogni natura umana, infatti, sta presa in mezzo tra il venire all'essere e l'andare al non essere, rivelandosi un'apparenza umbratile e instabile di sé. Se tu però orienti il tuo pensiero al tentativo di coglierla [questa natura umana], ti accadrà proprio come se volessi contenere e comprimere l'acqua con le mani. Uscirà dalle fessure tra le dita. E così, in fondo, s'inganna la nostra sensazione, non sapendo che il nostro essere è solo parvenza.» (Plut. De E, 18.)

    Oltre all'uomo-ombra pindarico in queste parole risuona anche l'essere in divenire di Eraclito e il non essere del gran padre Parmenide: tutti ignari facitori di formule amletiche ante litteram immerse nel flusso dell'essere e del non essere in un teatro dell'auto-inganno di chiaro gusto cacciariano.

    E, dunque, non possiamo dire che cosa saremmo? Dovremmo poterlo. Altrimenti donde vorremmo essere certi che saremmo?

    Proviamo a rivolgerci, allora, al dio che più di tutti amava la sapienza, Apollo. All'entrata del suo tempio nell'isola di Delfi troneggiavano parole alate: «Conosci te stesso!» (gnothi seauton), e poi anche «Niente di troppo!» (meden agan).

    Ah! Devo conoscere me stesso!? Va bene, ma ogni conoscenza determinata è anzitutto conoscenza di una determinazione, e a una determinatio essa deve quindi necessariamente riferirsi, a un qualche limite, o a un qualche confine (horos, horismos).

    Senonché, le determinazioni confinarie, per poter essere conosciute, richiedono un gesto azzardoso. Ciò che le mie determinazioni, i miei limiti e i miei confini sono davvero, questo io posso esperirlo solo nel loro superamento, allorché io sia andato “oltre”, e mi trovi nella condizione di considerare me stesso da una sorta di “al di fuori”. Altri­menti rimarrò confinato entro una prospettiva limitata. Ma il por­mi al di fuori dei miei confini, dei miei limiti, delle mie determina­zioni vuol dire all'incirca “essere fuori di me”. E se sono fuori di me, "indeter­minato", potrei essere allora un po' come Diogene, preda di una qualche 'mania'.

    Mi sorge un dubbio: potrei essere folle.

    Platone dice che la follia è portatrice di grandi doni per gli uomini. E distingue quattro tipi di 'mania', attribuendoli a quattro istanze divine: «l'ispirazione profetica ad Apollo, quella misterica a Dioniso, quella poetica alle Muse e un quarto tipo… il più alto, il delirio d'amore, ad Afrodite ed Eros» (Pl. Phaidr. 265 a-c).

    La conoscenza di sé viene anch'essa dalla follia? Se sì, do­vremmo qui aggiungere ora ai quattro succitati un quinto genere della 'mania' perché per conoscermi devo oltrepassare i confini della mia identità, andare “oltre” in qualche modo e misura: uscire fuori di me.

    Ma: meden agan! “Niente di troppo”. Anche questo sembra averci voluto significare il dio. E, quindi, nella mia delirante autoconoscenza, nella mia divina possessione profetica, nella mia mania poetica e nella pazzia d'amore io devo essere… meden agan… Devo essere misurato. Il limite – prima 'tolto' – è ora 'posto': ma dove? E dove mai e in qual modo troverò adesso il metro esatto di questa mia evasione, ben calcolata, da me stesso? A queste strane questioni sono condotto da un'esegesi dei due antichi imperativi apollinei. E qui uno davvero vorrebbe potersi rivolgere al "Se­gretariato generale per la Precisione e l'Anima" di cui scriveva Musil.

    Conosci te stesso: fa' qualcosa di folle, fuoriesci dalla tua fissazione narcisista, per Bacco! Ma… niente di troppo: non esagerare.

    C'è un “impulso trattenuto” al fondo della riflessione (Colli, RE [40]). Il dio di cui è l'oracolo in Delfi ci comanda, dunque, di oltre­passare la linea d'indeterminazione, di farlo con determinatezza, ma non senza ponderazione?

    Un po' come ne I promessi sposi il gran cancelliere spagnolo Ferrer ordina al suo cocchiere: "Pedro, adelante con juicio" (cap. XIII).

    Un po' come Augusto imperatore ammonisce i suoi comandanti che gli appaiano troppo irruenti con le parole: “Festina lente!”(Svetonio, Vita di Augusto, 25, 4).

    Forse in questo modo si possono riassumere i due imperativi del dio cui appartiene l'oracolo. E però in Delfi le formule erano tre, a quanto pare. Perché, oltre al gnothi seauton e al meden agan, sembrerebbe essercene stata ancora una, d'iscrizioni sacre. Era la più breve di tutte, consisteva di un'unica parola, e quest'unica parola di un'unica lettera, una epsilon maiuscola. Si tramanda che all'entrata del tempio stesse inscritta nel frontone: una grande ed enigmatica “E”. La quale suscitò ovviamente sempre innumerevoli interpretazioni.

    Di ciò riferisce Plutarco nei Moralia: «Né per un numero né per un rango credo che stia l'iscrizione, né per una congiunzione e neppure per una parte omessa del discorso. Essa è piuttosto un saluto in sé perfetto al dio, e insieme un'invocazione che comunica il proprio suono al par­lante nella nozione di potenza del dio. Infatti, il dio accoglie ciascuno che a lui si avvicini con la formula di saluto: "Conosci te stesso!" (...) E inversamente noi rispondendogli pronunciamo la formula: “Tu sei”. Tributando in tal modo il saluto vero e senza menzogna e il solo che a lui solo spetta in rapporto al suo essere» (Plut., De E, 18).

    Tu sei! Vero essere è solo l'essere del “Tu sei”. Quest'interpretazione della Grande Epsilon riflette probabilmente una certa posizione teolo­gica prevalente in Delfi verso la fine del primo secolo. Essa proviene dalla penna di un sacerdote apollineo, quale Plutarco fu a partire dal 95 d.C. fino alla morte avvenuta intorno al 125. Erano gli anni in cui ve­niva redatto, in lingua greca, il Vangelo secondo Giovanni, che si apre con il famoso “Inno al Logos”.

    Che cos'è il logos? Senza entrare nei tormenti lessicali faustiani, diciamo che il logos in quanto linguaggio si struttura intrinsecamente in una sintattica, aperta però a un certo uso, a una certa pragmatica. Ma – poiché un certo uso del linguaggio non può che sfociare elementarmente nel consenso su un certo nome – allora il logos stesso, nel suo complesso, deve sfociare in un “nome”, che per sua natura rinvierà a un significato.

    Però, il “nome” del linguaggio ha un'intenzionalità originaria che non si risolve nel carattere nominativo o accusativo di una designazio­ne, vuoi del soggetto, vuoi dell'oggetto, vuoi nella prima, vuoi nella terza persona. Questo significato del “nome” del linguaggio si “mostra” originariamente nella datività della seconda persona: e cioè un “tu” al quale il linguaggio s'intende rivolto e senza il quale esso appare mu­ti­lato, tanto quanto un soliloquio. Senza questo “significato” reale, inteso nel senso fregeiano di Bedeutung, e quindi dato (non posto) nella sua datività originaria di un “tu”, il linguaggio sarebbe senza “senso”. Per­ciò tu sei, tu esisti: questo ci significa il linguaggio.

    Un “tu”, nelle parole scolpite a Delfi, è già implicato nell'imperati­vità del “Conosci te stesso” dove la seconda persona singolare possiede una connotazione umana. Un tu esistenziale divino riappare nella Grande Epsilon: “Tu sei”. Che questo “Tu” delfico impersoni l'essere inteso in un senso molto forte, proprio e primario – che esso cioè si riferisca ad Apollo – doveva apparire evidente a un suo sacerdote del primo secolo d.C.

    Ma anche per me oggi non è inintelligibile, da un punto di vista concettuale, che io non potrei essere un “Io” assunto in termini assoluti. La mia limitatezza non reggerebbe a un siffatto “Io”. Dunque, se questo “Io” assoluto non sono io, tuttavia io non posso neppure ridurlo a una terza persona, a un “esso”, a una mera cosa. E così questo “Io” assolutamente essente non può essere pensato che come un esistente alla seconda persona: “Tu”.

    Fin qui ho solo cercato di risillabare in termini di intelli­gi­bi­lità, e sia pure molto riassuntivamente, quel che scrive Plutarco. Ma la struttura di questo “Tu” intelligibile, noi possiamo – se vogliamo – vederla impersonarsi concretamente in ogni tu 'minuscolo' che ci capiti d'incontrare: a una serata conviviale, camminando per le vie di una città, eccetera.

    È questo l'homo mensura che cercavamo? È questo tu il “metro” di quell'evasione “estremamente misurata”? Direi di sì. Perché nel “tu” si annuncia una Curvatura dello spazio intersoggettivo nella cui reciprocità l'altro, e l'altro dell'altro, stanno come una “relazione sociale”, secondo la fondamentale scoperta di Levinas rispetto all'etica in quanto philosophia prima.

    Ora, se noi riconsideriamo la grande causa del pensiero filosofico da quest'angolo visuale, dal vertice dell'ontologia intesa in quanto attitudine pratica, di fronte a noi si staglia sorprendente un'opposizione tra due razionalità. All'apice dell'antico logos sta la parola “tu sei”. All'inizio della razionalità moderna – “io sono”.

    Ma se io sono un cogito, potrà eventualmente parermi chiaro che un essente auto-pensante "è" in quanto pensa. Però, non è per nulla chiaro che cosa ci sia poi "là fuori". Quali cose ci sono al di là della mia auto-determinatio solipsista?

    Tutto qui ci riconduce alla casella zero del gioco dell'oca dell'es­sere. Di nuovo tutto potrebbe essere o non essere: scena di un auto-inganno, sogno di un'ombra, illusione senz'evasione e senza speranza.

    Tutt'altrimenti, il punto di vista “altro” che si dà ripensando il logos che «non dice, non tace, ma significa» (DK 22, 93) – che mostra cioè una “relazione sociale”. E dentro di essa io vengo fatto “ostaggio” dal tu levinassiano, laddove però questo tu di cui sono ostaggio attua la mia evasione nell'esteriorità. E questa esteriorità in atto non può essere "sogno di un'ombra": l'impossibilità è etica. Perché negare questa esteriorità costituirebbe una minaccia assurda, una rimozione. È l'errore categoriale più fatale e il più arbitrario di tutti, in quanto vorrebbe poter disdire ciò dice e mentre lo dice. Vorrebbe, ma non può, per la contradizion che nol consente.

    Inversamente, nel “tu sei” è sostanziata una promessa di mondo. Pa­radossale quant'altre mai, perché vincola il passante che è lì a sen­tirla.   (3/3. Fine)

Dedicato alla cara memoria di

Ernst Erdös (Vienna, 1919 – Zurigo 1998)

lunedì 13 febbraio 2017

Un problema di sostanza

Seconda parte del saggio di Andrea Ermano sul grande pensatore greco, “maestro di color che sanno”, di cui ricorre in que­sti mesi il 2400.mo dalla nascita. Il testo che qui presentiamo ripro­du­­ce con piccole variazioni la traccia di un discorso tenuto dall’autore in lingua tedesca il 24 mag­gio 2014 presso il Lyceum Club di Zurigo su invito della Società di cultura greca Akroteama. La conferenza è stata poi replicata in lingua italiana il 4 dicembre 2016 al Coopi di Zurigo nel­l'ambito delle giornate di cultura “Zurigo in Italiano”.

di Andrea Ermano

La parola 'è' può assumere una pluralità di significati (disgiunti). Dun­que, essa nasconde dentro di sé una certa incompiutezza. Abbiamo vi­sto che si può impiegare 'è' per dire, per esempio, che: "Questo 'è' sot­to­insieme di quello" (La balena è un mammifero), oppure: "Questo 'è' elemento di quello" (Aristotele è un pensatore), oppure: "Questo 'è' in possesso di quella proprietà" (Bob Dylan è pallido), oppure: "Questo 'è' uguale a quello" (La stella del mattino è la stella della sera), oppu­re, infine, semplicemente: "Questo 'è' qui" (C'è in questa sala un grup­po di persone).

    Se ne deduce che "ciò che è" (l'essente in senso generalissimo) può rinviare a concetti fondamentali della logica come, nel nostro esempio di gusto insiemistico, a sottoinsiemi, a elementi di insiemi, a proprietà di uno o più elementi, nonché all'uguaglianza e all'esistenza.

    E, però, se noi tentiamo di considerare l'essere di un essente in quan­to esso semplicemente 'è', vale a dire senz'alcuna aggiunta, ci vedre­mo costretti a constatare che preso per sé, in senso indeterminato e im­mediato, questo puro 'essente' non significa… nulla: «Das Sein, das un­bestimmte Unmittelbare ist in der Tat Nichts und nicht mehr noch we­ni­ger als Nichts», sentenzia Hegel.

    "Ciò che è", l'essente in quanto semplicemente 'è' (to on e on), è una struttura incompleta, aperta, che dipende nella sua stessa essenza da ag­giunte, completamenti, complementi (che più sopra nel nostro esem­pio rinviavano a una qualche forma di esistenza, uguaglianza, proprie­tà, appartenenza o inclusione). Senza aggiunte l'essente è niente, con le aggiunte è cose diverse.

    Proprio in ciò si manifesta una delle scoperte più importanti e gra­vi­de di conseguenze tra quelle compiute da Aristotele; perché: «l'essente viene detto in molti modi» (to on legetai pollachos). Cioè viene detto in molti modi diversi. Molti e non riducibili a uno.

    Nei nostri discorsi noi non troveremo un'unica struttura dell'essere, omogenea e universale, alla quale poter ricondurre tutti gli usi che fac­ciamo di questo verbo, che invece si articola in una pluralità di concetti disgiunti, i quali a loro volta rinviano a grandi insiemi distinti di cose.

    Questi grandi insiemi distinti si chiamano a partire da Aristotele e in Aristotele stesso categorie, configurando una dottrina che mieterà in­cre­dibili successi e innumerevoli tentativi di imitazione. Una tra le liste più icastiche risale a Charles Sanders Peirce, che suddivide in tre gran­di generi i modi in cui l'essente appare: 1) Firstness, 2) Second­ness, 3) Thirdness. Tripartizione inedita, in cui Peirce per certi versi ricalca la logica hegeliana del vero in quanto tutto che si tripartisce a sua volta in Sein, Wesen e Begriff (essere, essenza e concetto). Né, in materia di tri­par­tizioni, può essere qui dimenticata la specificazione scolastica del­l'es­sente in: 1) Theologia rationalis, 2) Psychologia rationalis e 3) Cosmologia rationalis.

Per Jorge Luis Borges TheologiaNnnon c'è classificazione dell'universo «che non sia ar­bi­tra­ria e congetturale», dato che, semplicemente, «non sappiamo che co­sa è l'uni­verso». Di qui ben si comprende l'Emporio celeste dei co­no­sci­men­ti benevoli che Borges attribuisce per burla a un'imma­gi­na­ria en­ciclopedia cinese: «Nelle sue remote pagine è scritto che gli ani­mali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) am­maestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) in­clusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innu­me­revoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cam­mello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche», (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere, vol. I, p. 1004).

    Con l'allusione russelliana di cui sopra alla lettera (h) Borges ironiz­za sull'aria (confusionaria) di famiglia che sempre un po' si re­spi­ra par­lando di tassonomie. A quest'impressione (di confusione) non si sono sottratte nemmeno le stesse Categorie di Aristotele, del resto, che Im­manuel Kant giudicava sì l'escogitazione “di un uomo acuto”, ma pri­ve di qualsivoglia principio conduttore e quindi piuttosto rac­co­gli­tic­ce: «So raffte es sie auf, wie sie ihm aufstiessen, und trieb deren zuerst zehn auf, die er Kategorien (Prädikamente) nannte» (KrV A 81/B107).

Non entriamo qui nella vexata quaestio. Limitiamoci a prendere atto che per lo Stagirita un essente può essere: o 1) una "entità" (detta anche “sostanza”), oppure 2) un “quanto”, oppure 3) un “quale”, oppure 4) un “relativo”, oppure 5) un “dove”, oppure 6) un “quando”, oppure 7) una “situazione”, oppure 8) un “avere”, oppure 9) un “fare” oppure, infine, 10) un “patire”.

    Secondo Aristotele si tratta di dieci concetti sommi oppure, a se­conda dei punti di vista (e dei passi che si vogliano prescegliere), di die­ci grandi collezioni di cose (di 'essenti') cui quei concetti sommi pos­sono riferirsi.

    Che cosa significa tutto ciò? Significa che: qualunque cosa noi ve­diamo, pensiamo, rammemoriamo, invochiamo, diciamo, incontriamo, tocchiamo, produciamo, baciamo o distruggiamo – appartiene inevita­bil­mente a una di queste dieci collezioni, a uno di questi dieci generi dell'essente. L'abbronzatura in estate, ad esempio, o l'arte del tatuaggio, oppure i sandali o l'armamento di un oplita, e le lunghe marce o il trekking o il riposo, oppure lo ieri, l'oggi e il domani, oppure una bella sala o lontanissimi, caldissimi o freddissimi corpi celesti, oppure il doppio o la metà o l'asservimento, oppure l'essere stupefatti e sbigottiti o eruditi o magari boriosi, altezzosi e arroganti oppure umilissimi. Ciascun 'essente' appartiene a una, e a una sola, delle dieci categorie. Non importa se abbiamo a che fare con i tassi ipotecari impazziti, i mutui alle stelle, o con la sfericità di una palla, o con la paura del portiere di fronte al calcio di rigore, o con la gente per strada, e con te e con me e con una canzone di Bob Dylan… Tutto ciò che ho elencato, ma anche tutto il resto, che non ho elencato e che certo non posso umanamente stare qui a elencare, ogni 'essente' appartiene a una, e a una sola, delle dieci categorie, sostiene Aristotele.

    Ma – aggiunge – tutti gli altri tipi di 'essenti', fatta eccezione per la “sostanza” – coincidano essi con un “quanto”, un “quale” o un “relativo”, un “dove” o un “quando”, un “situarsi”, o “avere”, o “fare” o “patire” – tutti questi altri nove tipi di 'essenti', devono trovare appoggio nelle 'sostanze', che sono un tipo di 'essente' formato da cose fondamentali il cui modo di essere è l'esistenza in forza propria.

    Il nome “Bob Dylan”, ad esempio, è di per sé un essente. Ed è un essente anche il pallore dell'uomo che così si chiama. L'uno e l'altro però presuppongono l'esistenza di una persona alla quale e il nome e il pallore appartengono. In tal senso, l'uomo è il 'portatore', il 'sostrato', il sub-jectum su cui poggia il nome “Bob Dylan”, come pure il suo pallore e tutte le altre proprietà che si dicono di o che ineriscono a quella certa persona. In quanto 'portatore' ultimo, 'sostrato', sub-jectum di denominazioni o di proprietà l'uomo Dylan può essere detto “sostanza” (ousia). Egli non è “portato” da qualcos'altro: “sta” nell'essere in forza propria. E rimane se stesso anche se cambia, se cambia nome, se dorme, si sveglia, si droga, non si droga, si ammala, vive la sua morte, muore la sua vita, guarisce, impara, disimpara, reimpara, scrive, parla, canta, suona, corre e vince.

    Questa è la sostanza.

    Sul suo modo di essere, sul modo di essere di questo essente fondamentale, poggia il modo di essere delle sue proprietà e dei suoi predicati, dei suoi attributi essenziali, accidentali, predicativi. Così, però, tutto ciò che è, ogni 'essente', o “sta” in forza propria in quanto è esso stesso sostanza, oppure “inerisce” a una sostanza in quanto per poter essere deve appoggiarsi su ciò che “sta” in forza propria.

    Bob Dylan potrebbe andare ad abbronzarsi, pur continuando a es­se­re, anche senza il suo pallore; non però quel suo pallore senza di lui. Quel suo pallore, nell'istante in cui esce da lui, non 'è' più. Da questa semplice considerazione si può comprendere in qual modo tutti gli altri 'essenti' non sostanziali dipendono dagli 'essenti' sostanziali, i quali pos­seggono per altro una loro esistenza individuale, mutevole e in­di­pendente.

    Ecco, questa esistenza individuale, mutevole e indipen­dente appartiene tipicamente alle sostanze, sulle quali perciò tutto poggia.

    Ma quali sono gli esempi di “sostanze” che ci fornisce Aristotele? “Socrate”, “un certo uomo”, “un certo cavallo” eccetera. Soprattutto, la sostanza è un uomo. E Paul Ricoeur centra il bersaglio quando scrive che: «Non è possibile circoscrivere il compito, la funzione – l'ergon – dell'uomo, senza avere preliminarmente affrontato la difficile questione dell'“essere uomo” in quanto tale. In particolare, non è possibile trattare dell'uomo come essere-politico, e neppure del suo statuto come "ani­ma­le razionale", senza essersi confrontati con la difficile problematica della sostanza».

    Ecco un uomo, dunque: è sostanza. Ecco la sostanza, dunque: è un essere umano. Ma allora io sono una sostanza?! Che cosa sono?! In quanto uomo? O in quanto bambino, o in quanto straniero, o in quanto donna, o barbaro? O schiavo? O signore? A quale categoria appar­ter­rei? A qual genere di 'essenti' apparterresti tu? Apparterremmo noi? E via coniugando gli interrogativi.

    S'è già accennato al fatto che per il giovane Aristotele un essere umano non può essere tale in un senso o in un grado superiore o infe­riore né rispetto a un altro essere umano e nemmeno rispetto a se stesso.

    È il maestro di Aristotele, Platone, a esporre nel Parmenide (il dialogo del “parricidio”) le ragioni di ciò, svolgendo una serrata autocritica della propria Dottrina delle Idee. Qui lo schiavo non è più schiavo per sua natura. Lo schiavo non è schiavo “geneticamente”. No, esso è tale semplicemente in quanto “schiavo di un padrone”. E un padrone è semplicemente padrone in quanto “padrone di uno schiavo”. Il loro modo di essere, in quanto meramente padrone e meramente schiavo, è una correlazione, al di fuori della quale nessuno dei due 'sarebbe'. Né potrebbero essere entrambi senza che ci fossero anche degli esseri umani a sostenere quei loro ruoli. Invece, sarebbe possibile pensare l'esistenza di un essere umano anche al di fuori di quella correlazione. Ché un essere umano potrebbe ben esistere anche senza essere uno schiavo, o un padrone. E potrebbe ben esistere, un essere umano, in un altro sistema di correlazioni, senza né schiavi né padroni. È logico pensare che lo potrebbe, anche se oggi siamo di nuovo lontani, molto lontani, da questa possibilità.

    Ecco una legittima veduta sulla questione dell'essere platonico-aristotelico all'altezza delle Categorie. Perché, noi tutti – donne, uomini, vecchi e bambini, ateniesi, macedoni, barbari – apparteniamo, secondo il giovane Aristotele, alla categoria della sostanza.

    Aristotele esemplifica questo concetto fondamentale di sostanza impiegando regolarmente esempi come “un certo uomo” o “Socrate”, mai esempi come “schiavo”, “signore”, “sopra”, “sotto”, “mezzo”, “doppio”. Ed è, in effetti, abbastanza sorprendente, ma anche un fatto filologico accertato e accertabile, che l'espressione più frequente in un'opera di logica come le Categorie sia data dal sostantivo “uomo”, costantemente associato alla categoria della sostanza: «Se questa sostanza determinata è un essere umano, allora esso non potrà essere tale né in modo più forte, né in modo più debole, né in rapporto a sé stesso né in rapporto a un altro essere umano» (Cat. 3b37sgg.).

    Ancora una citazione testuale: «Ma la sostanza è una cosa singola e numericamente identica, ricettiva rispetto a determinazioni contrarie, e così per esempio un essere umano in quanto uno e identico può essere ora pallido, ora abbronzato, ora passionale, ora freddo di sentimento, ora serio e ora leggero» (Cat. 4a17-21).

    Insomma, la rivoluzione sostanziale compiuta da Aristotele nella pri­ma metà del quarto secolo a.C. è duplice: per un verso essa colloca il fondamento dell'essere in un essente-esistente concreto, mutevole e individuale; per l'altro verso essa ci fornisce una categoria grazie alla quale noi possiamo meglio comprendere noi stessi. Perché noi, a tut­t'og­gi, nonostante il prevalere della ragione strumentale, continuia­mo a intendere noi stessi come sostanze, e non certo come mere fun­zioni predicative o accidentali o 'partecipative' di alcunché.

    Ora, la mia tesi, in breve, è che questa sostanzialità costituisce uno dei più evidenti assiomi dell'autocomprensione umana, a partire dai primi elementari fenomeni dell'intenzionalità della coscienza nel ri­fe­ri­mento oggettivo, passando per l'idea di soggetto autonomo e di dignità personale, fino ad arrivare alla nozione universale dei diritti del­l'uo­mo. L'essere umano è essenzialmente sostanza in quanto esistenza. E questa sostanza è emblematicamente essere umano. (2/3. Continua)

La prima parte del presente saggio è apparsa sull’ADL del 2.2 2017.

martedì 7 febbraio 2017

Tu e Aristotele

di Andrea Ermano

Un contributo d’idee del direttore dell’ADL: il testo del discorso sul grande pensatore “maestro di color che sannno” tenuto il 24 maggio 2014 in lingua tedesca al Lyceum Club di Zurigo per iniziativa della Società di cultura greca Akroteama. La conferenza è stata replicata in lingua italiana il 4 dicembre 2016 al Coopi di Zurigo nell'ambito delle giornate della cultura “Zurigo in Italiano”.

  1. Aristotele

Nacque 24 secoli fa a Stagira nel 384/383 a.C. Morì 62 anni dopo, a Calcide, nel 322 a.C. Ma la sua fama non lo seguì nella tomba. Fino al 20E secolo non si contano le rivisitazioni del suo pensiero. E anche all'inizio di questo 21E secolo ricercatori di gran vaglia (Berti, Buchheim, Flashar e King) hanno esposto plausibilmente in qual modo la sua opera possa essere resa fruttuosa.

    Nel medio evo s'incominciò a guardare a lui come all'ideale di un pensatore com'è e dovrebbe essere. Egli fu per il gran padre Dante “maestro di color che sanno”. Fu la personificazione del Sapere Indiscusso, dell'ipse dixit, della "nuda autorità": sclerosi lontanissima dal suo sentire, criticata da Galilei (criticata a buon diritto, ma anche a proprio rischio e pericolo, come sappiamo).

    E bisogna immaginarsi la situazione di questo mega‑fantasma che, più di millecinquecento anni dopo la morte, occupa il centro della cultura europea, nella forma di una dominazione dai caratteri sempre più totalizzanti e ossessivi: Aristotele, il Filosofo!

Il tramandamento dei filosofi, come si sa, era stato iniziato verso la fine del 5E secolo a.C. da Socrate. Impresa che gli costò la vita. Accusato di empietà (ἀσέβεια, impïetas), Socrate venne condannato alla pena capitale. L'esecuzione ebbe luogo ad Atene nel 399 a.C. Quale alternativa ufficiosa fu offerta a Socrate la possibilità di riparare in esilio, emigrare. Vuotò il calice di cicuta che era stato condannato a bere, volendo così testimoniare il suo rispetto per le leggi della città e la sua fede per l'immortalità della Psyche. Così riferisce Platone che fu il maggior allievo di Socrate.

    Aristotele fu il più eccellente degli allievi di Platone e appartiene quindi alla terza generazione dei filosofi. Di quale tradizione stiamo parlando? Con la parola 'filosofia' intendiamo anzitutto una tradizione imperniata su un certo modo di vivere, all'interno del quale l'amore per la sapienza è posto e raccolto nel nucleo del nostro agire, laddove l'agire è la nostra vita: "La vita è un agire" (ὁ δὲ βίος πρᾶξις).

    Ma la vita, la nostra vita, è visitata da questioni sul bene sommo della vita buona e dunque sull'agire giusto che a essa dovrebbe condurre e dunque anche sul sapere veridico che a tale agire dovrebbe introdurre, rispondendo alla domanda: Che cosa devo fare per 'agire' una buona vita?

    Di qui si dipanano per noi enigmi che noi mortali (βροτοί) non riusciamo a signoreggiare. Forse perciò, in ragione di questa nostra finitudine, la filo‑sofia non intende sé stessa come una sapienza (σοφία), ma come una forma di amichevolezza verso di essa (φιλο-σοφία).

     Da Socrate, Platone e Aristotele si sono avvicendate sulla scena del mondo circa settanta generazioni di filosofi e, non dimentichiamolo, di filosofe. Questa filosofia, delle filosofe e dei filosofi, è un grande parto della grecità, nata nella dimensione aperta della Polis, del culto di Apollo, del teatro di Dioniso.

    Difficilmente potremmo immaginare oggi il nostro mondo senza questo ingrediente: la filosofia greca. Dalla logica alla matematica, fino alle arti e alle grandi religioni, dalle mille università fino al modo di pensare della maggior parte degli individui e della maggior parte delle istituzioni sul nostro pianeta: l'orizzonte degli eventi condizionati dal pensiero filosofico è immenso. Ma l'amicizia per la sapienza rappresenta una parte soltanto del lascito della grecità alla storia universale.

Già tra i dotti del mondo antico, dalla Cina alla Spagna, dall'Egitto all'Inghilterra, Aristotele era celebre. Non solo però in quanto studioso, o in quanto allievo di Platone, bensì anche in quanto maestro di Alessandro il Grande. Ecco un altro homo celeberrimus che ha esercitato un'influenza storicamente decisiva, a dir poco. L'Occidente, infatti, nel suo statuto cosmopolitico si rifà, in fin dei conti, ad Alessandro, e a lui si è sempre richiamato, esplicitamente o implicitamente, nel perseguimento di un'egemonia globale, che è poi lo specifico modo in cui l'Occidente ha inteso sé stesso. Questo vale, ovviamente, per l'Ellenismo e per Roma, vale per l'idea di Cristianità, che informa di sé il medio evo, ma vale poi anche in rapporto al dispiegamento della globalizzazione d'impronta anglosassone e nordamericana.

    Che cos'è, dunque, un impero mondiale o un'egemonia globale. Certo, non semplicemente l'effetto di una conduzione bellica molto efficace, perché ovviamente una cosa è trionfare in una guerra, o anche in molte guerre, altro è governare terre e popoli, porre in vigore leggi, riuscire ad applicarle, gestire amministrazioni, comprendere lingue e costumi, aprire strade e relazioni commerciali, fondare città, realizzare misurazioni, carte geografiche. E così via.

    Da un punto di vista macro‑storico, che ci piaccia o non ci piaccia (e a molti di noi, in effetti, questo non piace affatto), la vicenda umana appare finora caratterizzata dalla costituzione di imperi. Su questo fatto, sgradevolissimo, possiamo solo aggiungere che sono durati più a lungo e in modo più stabile quegli imperi che in qualche maniera hanno perseguito un certo grado di apertura, riconoscendo la pluralità delle culture e la libertà dei modi vivendi.

    In tal prospettiva il rapporto tra sapere e potere, tra vantaggio competitivo nel sapere e nel potere, è una chiave interpretativa del primato globale: perché la politica in grande stile, la dominazione del mondo, detta oggi anche governance, presuppone un ampliamento consistente dell'idea di ciò che è uomo, e di ciò che è mondo.

    Il vantaggio specifico della grecità quanto al sapere si chiamava: 'filosofia'. Insieme alle eccellenze che da essa derivavano nell'organizzazione delle conoscenze e delle esperienze, la filosofia fu indubbiamente una condizione di possibilità della conquista del mondo da parte di Alessandro. E l'imperatore stesso dovette esserne consapevole, giacché forniva ricco sostegno alle ricerche filosofiche, ai filosofi e, in mondo particolare, ad Aristotele  che ad Atene poté aprire il Liceo godendo dell'alta protezione del suo imperiale ex discepolo.

    Sono cose che si possono leggere, oggi, anche su Wikipedia. Ieri si trovavano in ogni manuale. Ne citerò qui uno per tutti, quello di August Messer, su cui si formarono nel primo Novecento generazioni di liceali tedeschi. Messer nota che una certa distanza insorse tra l'anziano pensatore e il giovane imperatore: «soprattutto perché Alessandro tendeva a una equiparazione, se non addirittura a una fusione, tra Greci e Asiatici, mentre Aristotele rimase sempre fedele alla concezione greco‑classica per cui tra essi si spalancava un insuperabile iato. E gli uni, i Greci, erano destinati a dominare, gli altri a servire».

    Gli uni destinati a comandare, gli altri a servire? Destinati da che? Da chi? Desidero distanziarmi. Che Aristotele abbia professato questo genere di antropologia differenziale è opinione mediamente diffusa tra gli studiosi. Ma, attenzione, per favore, in quel modo differenziale pensava forse un Aristotele cinquantenne, e anche il cinquantenne non senza ambivalenze. Non così il giovane studente immigrato, l'Aristotele diciasettenne giunto ad Atene in procinto d'iscriversi all'Accademia platonica.

    Il giovane Aristotele quanto meno al tempo della redazione delle Categorie, su cui poi tornerò, era dell'opinione che: «Un essere umano () non è in maggior misura di un altro». Dunque, il giovane Aristotele la pensava all'incirca come il giovane Alessandro, poiché  cito un altro passaggio: «Un essere umano (anthropos) non può essere né più anthropos né meno anthropos, né in rapporto a sé stesso né in rapporto a un altro anthropos». Ecco, dunque, un metro che non muta: l'anthropos?

Allorché il giovane Aristotele giunse all'Accademia di Atene, in quell'intorno temporale Platone intraprese una profonda revisione della sua Dottrina delle Idee. Su questo tema, sulla krisis platonica, sono state scritte intere biblioteche. Qui vorrei cercare di riassumere una linea di causazione che mi pare abbastanza importante.

    Secondo la prima dottrina platonica, un individuo è schiavo (δούλος) in forza della sua partecipazione all'idea dello schiavo. In questa prospettiva, a uno non capitava accidentalmente di essere schiavo, lo era invece per natura, nasceva schiavo o lo diveniva necessariamente, essendo essenzialmente “meno uomo” in rapporto, per esempio, al suo padrone. In questa logica differenziale, anche i bambini, le donne, i barbari erano considerati “meno uomini” in paragone con l'uomo ideale: il maschio adulto, aristocratico, ateniese. Così pensava Platone. E così pensò stessero le cose fino alle sue brutte esperienze siracusane, allorché lui stesso, uomo nobilissimo, venne arrestato e poi venduto e comprato in una condizione del tutto assimilabile a quella di uno schiavo.

    Che cos'è uno schiavo? Cito dal primo Libro della Politica: «Uno schiavo è una cosa animata che si possiede.» È una cosa animata. È una cosa. Ma allora chiediamoci che cos'è una “cosa”, dando finalmente inizio al gioco essenzialistico del "che cos'è questo?"

    Per esempio: questa è una cattedra. E che cos'è una cattedra? È un mobile. Ma che cos'è un mobile? È un manufatto. Che cos'è allora un manufatto? È una cosa fatta da uomini. E quindi che cos'è una “cosa”? Una cosa, alla fine dei conti, è un qualcosa che "è".

    Fine della corsa. Ricominciamo dall'altra parte. Ricominciamo dallo "è". Che cos'è "è"? Che cosa intendiamo dicendo che la stella del mattino "è" la stella della sera, cioè Venere? Che la balena "è" un sottoinsieme dell'insieme dei mammiferi? Che Aristotele "è" un elemento dell'insieme dei pensatori? Che Bob Dylan "è" pallido? Che qui "è" (c'è) un piccolo gruppo di esseri umani?

    In ognuno degli esempi citati la parola "è" assume un significato diverso: essenza definitoria, uguaglianza, inclusione, appartenenza, esistenza. A tutta questa importante gamma di significati disgiunti può rinviare la parola "è". Dunque, la parola "è" significa troppe cose. E, ad un tempo, la parola "è" significa però anche drammaticamente troppo poco. (1/3. Continua)


P.S. 2.2.2017: Per illustrare la strana situazione dell'essente in generale, per la quale esso significa essenzialmente “troppo” e “troppo poco”, ho usato esempi tratti da Günther Patzig (cioè in ultima analisi da Gottlob Frege) perché mi sembra che essi illustrino bene l'implicazione di crisi per la razionalità matematica europea. Dramma­ti­cità che – da un punto di vista platonico, metretico e politico – ritengo fosse ben presente anche ai grandi pensatori del IV secolo a.C., e ciò in conseguenza di questo eccesso-difetto ontologico, il “troppo” e il “troppo poco” in quanto dismisura 'inerente' (per così dire) all'essente stesso. Inerenza paradossale, che non può non destabilizzare ogni “giusta misura”, ogni “giusto mezzo” e persino l'Uno stesso, in quanto “misura esattissima”. Dopodiché sia l'Uno sia l'essente, per Aristotele, dovranno dirsi “in molti modi”. Probabilmente, quasi certamente, non abbiamo ancora finito di pensare le conseguenze di questo 'discernimento' aristotelico della pluralità nell’essente e nell’uno.