martedì 12 febbraio 2008

Quando la Bellezza vince il Tempo



Valentin Lustig, Die Buchstabensuppe (part.):
Nah sind wir, "Siamo vicini"

di Giuseppe Muscardini *)

L’ideale estetico di Valentin Lustig in mostra presso la Sala Ezio Canonica del Cooperativo.
Vallotton, l’invetriato. È una definizione che anni fa qualcuno azzardò per connotare l’arte del pittore svizzero, quando alcune delle sue opere furono esposte, insieme a quelle di altri artisti, presso la Casa dei Carraresi di Treviso per la mostra "L’oro e l’azzurro". Niente di spregiativo. Al contrario: Vallotton acquisva con quella denominazione tutto il valore dell’artista attento al dettaglio e alla perfezione esecutiva, condite dall’ironia dell’immagine e dalla situazione pittorica adottata.

Se la definizione non fosse già stata coniata per Felix Vallotton, al quale era dedicata una mostra al Kunsthaus di Zurigo dal titolo Idylle am Abgrund, la si sarebbe potuta usare per Valentin Lustig, artista contemporaneo di indubbia potenza creativa che nella sala "Ezio Canonica" del vecchio Cooperativo alla Werdplatz ha esposto fino al 31 dicembre 2007 un gruppo di sei tele, ultima manifestazione culturale prima del trasferimento nella nuova sede di St. Jakobstrasse 6.

Nah sind wir, si legge sul fondo rosso di un piatto da portata, ormai vuoto, mentre una donna imbocca amorevolmente con un cucchiaio un anziano stranito. È questa solo una delle situazioni rappresentate nella tela dal titolo Die Buchstabensuppe, del 1997. Vi si scorgono nello sfondo molte altre allegorie, che muovono curiosità nel visitatore per la mancanza di riferimenti idonei a sciogliere i legittimi quesiti; ma anche in assenza di soluzione che possa rendere più chiara la lettura complessiva dell’opera, si ha la netta percezione di una fruibilità e di una godibilità a fronte delle quali ogni interpretazione formale ed estetica si fa accessoria.

È come calarsi all’interno di diverse dimensioni in cui l’onirico, il fantastico e il surreale si configurano come elementi primari e tratti salienti della cultura visiva dell’artista. Die Buchstabensuppe è scelta qui a campione per comprovare come Valentin Lustig dipinga ciò che gli appartiene sul piano squisitamente "filogenetico", con le sapienti commistioni di diverse culture che dialogano tra loro o si incrociano, quando storia e sensibilità personale si compenetrano. Succede allora che animali ed umani risultino affratellati in un consorzio sociale comico e salvifico, disneyano ed epico insieme.

Die Versöhnungen zwischen Lämmern und Wölfen ("La conciliazione tra lupi ed agnelli") è il titolo di un’arcadica festa alla quale partecipano esclusivamente lupi ed agnelli che danzano tra loro, giocano a carte sorseggiando con le cannucce bibite in lattina, o si dispongono in modo alternato per un giocoso girotondo, mentre al centro della scena, sotto il palco dei musicisti, un lupo sorridente sventola la bandiera della pace. Non quella dell’arcobaleno, brandita oggi nei cortei per la pace e formata dai colori dell’iride, ma un candido vessillo con la scritta PAX.

Qui sta l’ironia, il messaggio, la tecnica raffinatissima e le reminescenze classiche di Valentin Lustig, che nella superficie pittorica inserisce didascalie per accentuare il senso della virtuale unione tra bestie antagoniste, ricorrendo anche in altre opere a cartigli con iscrizioni e sentenze.

Chi abbia avuto la ventura di ammirare le opere esposte al vecchio Cooperativo di Zurigo, o abbia consultato i cataloghi del 1997 e del 1999, rispettivamente intitolati Gemälde 1997 ("Dipinti 1997") e Die Schönheit besiegt die Zeit und umgekehrt ("La Bellezza vince il Tempo e viceversa"), si scoprirà che nel panorama artistico degli ultimi decenni Lustig occupa lo spazio e la dignità del pittore abile a rappresentare quelle commistioni tra arte e pensiero che resero grande l’invetriato Vallotton.

E se una comparazione fra i due dovesse rendersi necessaria, si prenda in esame di Felix Vallotton il Persée tuant le dragon, conservato al Musée d’Art d’histoire di Ginevra, e accanto a esso la citata Die Versöhnungen zwischen Lämmern und Wölfen. Pur nel mutamento formale, l’accostamento lascerà in noi l’idea di alternanze mitologiche e solenni.

Giuseppe Muscardini vive a Ferrara e lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica di Ferrara. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Italianistica", "Filologia e critica", "Belfagor", "Letteratura & società", "Letteratura & Arte", "Dibattito Democratico", "IBC Informazioni commenti e inchieste sui beni culturali" e "Chroniques italiennes". Collabora inoltre con i periodici e media elvetici "La Regione Ticino", "Cartevive", "La Rivista del Mendrisiotto", Il Grigione italiano", "Il Bernina", "Quaderni grigionitaliani", "Terra cognita", "Seniorweb.ch", "Pagine d'Arte" e "Radio Campione International". È membro attivo dell'Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati (Verband Schweizer Fachjournalisten SFJ).

venerdì 8 febbraio 2008

Pausa nel dialogo con il Vaticano

Grave crisi del dialogo interculturale tra mondo cattolico e mondo ebraico
 «Una marcia indietro di 43 anni che impone una pausa di riflessione nel dialogo ebraico-cristiano». Anche a mente fredda e con migliore documentazione, non cambia, anzi si aggrava, il giudizio del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni sul nuovo testo della preghiera del Venerdì santo, recentemente annunciata da Papa Ratzinger, nel passo riguardante gli Ebrei.

«Della preghiera - spiega ancora - è grave la sostanza e grave anche la formula con cui è stata presentata. Vorrei precisare che non è vero che è stata tolta la frase che urta la sensibilità del popolo ebraico. In questa nuova formulazione è tutto che urta questa sensibilita».

Di Segni rivela che il nuovo testo non «è un fulmine a cielo sereno». «Nei mesi scorsi - dice - avevamo fatto presente le nostre perplessità e ci avevano dato ampie assicurazione. Invece ora ci troviamo davanti al peggio». Il rabbino spiega poi il modo in cui il nuovo testo sia peggiorato: «nella liturgia di un tempo nel recitare la preghiera del venerdì santo si ci si doveva inginocchiare e pregare in silenzio. Questi due atti non valevano giunti al "pro perfidis judeis". Pio XII invece ripristinò sia il silenzio sia la necessità di inginocchiarsi. Com'è noto Giovanni XXIII nel 1959 tolse il "pro perfidis judeis", ma lasciò intatto tutto il resto. Nel 1970 la preghiera fu completamente cambiata da Paolo VI e si diceva: il popolo ebraico sia fedele alla sua Alleanza».

Il rabbino capo di Roma osserva ancora: «Rispetto a questa evoluzione, papa Ratzinger ha riportato indietro le lancette di 43 anni rispetto al 2008». Tra le cause di questo «inciampo», Di Segni indica il problema «dell'immagine del popolo ebraico per la Chiesa. La domanda è sempre la stessa: cosa ci stanno a fare gli ebrei su questa terra?». «Se questo è il presupposto del dialogo, è intollerabile. Evidentemente - aggiunge ancora Di Segni che è in contatto con il rabbinato di Israele - la chiesa ha problemi di riscoprire i fondamenti della sua ortodossia». (CdS/ADL)

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venerdì 1 febbraio 2008

Memoria sferica

Tutte le giornate “dedicate a”, portano in sé e con sé gli strascichi della ricerca di consenso, che è poi la farina di cui è fatta la politica e le sfere di potere in genere. D’altronde è la stessa memoria ad avere una duplice faccia. Da un lato patrimonio che eleva una pluralità di individui al livello di civiltà, e non è un caso se l’Italia, dai politologi e sociologi citata come caso di bassa cultura civica, è definita il paese dei senza memoria. Dall’altro, proprio in quanto patrimonio mnemonico d’imprinting – secondo alcuni neurobiologi addirittura celebrale - per un popolo, è anche la più facile leva con cui le élite del potere possono radicare la loro legittimazione, ottenere sostegno pubblico alle decisioni più disparate, attraverso voli retorici degni del miglior Pindaro.

Da alcuni anni stiamo assistendo al più selvaggio proliferare di giornate commemorative, tali da aver riempito l’intero calendario. Alcune più che degne: contro le mafie; in ricordo alle vittime della shoa; contro l’usura. Altre tristemente scadenti nel folclore o nella promozione turistica.

Non credo sia scelta oculata quella di imprimere un giro di vite alle celebrazioni, soluzione “laica” fra l’altro di difficile applicazione nel concreto, perché richiederebbe di formulare priorità inevitabilmente portatrici di scontro fra le stesse élite. Scontro inedito nell’Italia del conformismo di lotta fra estremità di potere convergenti - al contrario delle loro radici popolari, verso le quali colano gli sfoghi violenti di una contrapposizione “alta” per lo più scenica. Di certo nutro dubbi sulla loro utilità, quando la realtà quotidiana, soprattutto nella propria iconologia massmediatica e prettamente sociale, non perde occasione per disintegrare la memoria collettiva; arriva anzi a creare negli italiani anticorpi efficientissimi, che ne prevengono addirittura l’attecchimento.

L’elemento di memoria condiviso dai più, fortunatamente non da tutti, e può sembrare bassa ironia, è legato alla figura di Alberto Sordi (e mi collego ad una nota battuta morettina), soprattutto nell’estetica del Marchese del Grillo che, rivolto ai popolani di Roma ancora gabbati, dice in punta d’amarezza: “mi dispiace, ma io sono io…. e voi nun siete un cazzo”. La memoria che ci circonda è l’individualismo del più forte, che senza limiti etici riversa sugli anelli a lui sottoposti, quando gli sono identificabili, frustrazioni e costi sociali del proprio, relativo, benessere.

Marco Lombardi