mercoledì 29 aprile 2009

Il corpo del duce

Fu legittimo fucilare Mussolinì? E fu giusto esporne il cadavere in Piazzale Loreto? Alla prima domanda il  giudizio storico può rispondere affermativamente. Alla seconda negativamente. Qui inizia la parabola del "corpo di Mussolini" ripercorsa dallo storico Luzzatto in  un libro che merita menzione. Una parabola che potrebbe essere riassunta così: da Predappio a Predappio con sosta al Dongo. A Predappio, infatti, il futuro capo del fascismo era nato. E a Predappio  venne sepolto dopo lunghe traversie. E dopo, soprattutto, l'esecuzione capitale avvenuta al Dongo, presso il confine italo-svizzero, su ordine del  leader partigiano Luigi Longo: «Accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi  storiche». Sandro Pertini, che aveva lungamente carezzato l'idea di vendicare l'assassinio fascista di Giacomo  Matteotti facendo saltare in aria Mussolini con tutto il suo Palazzo Venezia, ne commentò la fine con queste parole di sapore kafkiano: «È finito come un cane».

di Andrea Ermano

Il 28 aprile del 1945, nella località di Giulino di Mezzegra ai confini tra l'Italia e la Confederazione elvetica, Benito Mussolini viene arrestato e giustiziato da un gruppo di partigiani comunisti.

    Il giorno successivo i corpi del duce, della sua amante, Claretta Petacci, e di alcuni membri del seguito vengono traslati in camion a Milano e scaricati a Piazzale Loreto, cioè esattamente nello stesso luogo in cui il 10 agosto del '44 Giulio Casiraghi, operaio comunista di Sesto San Giovanni, e altri quattordici prigionieri politici erano stati fucilati ed esposti: «uno addosso all'altro pieni di mosche, sotto un sole tremendo, chi con le braccia aperte, chi rannicchiato, chi a schiena in su, qualcuno con gli occhi spalancati nel terrore», tra i motti di scherno degli squadristi della Muti e della Resega.

Il trafugamento
Anonimamente seppellito, dopo sommaria autopsia, nel campo 16 del cimitero milanese del Musocco, il cadavere del duce viene trafugato nella primavera del '46  da un gruppo di neofascisti guidati da Domenico Leccisi, che consegna i resti a Enrico Zucca, priore dei francescani milanesi e noto simpatizzante di quella destra politico-confessionale per definire la quale don Luigi Sturzo già nel 1924 aveva coniato un eloquente sostantivo composto: clerico-fascismo.

    Leccisi, Zucca e sodali finiscono ben presto a San Vittore, implicati sia nel trafugamento che in una torbida vicenda di denaro falso e zecche clandestine. Frattanto le ossa di Mussolini, recuperate dall'autorità giudiziaria, vengono segretamente collocate in un loculo della Certosa di Pavia. Lì rimangono fino al 1957, anno in cui giunge il nulla osta per il funerale. A dare il permesso è il monocolore democristiano dal predappiese Zoli, "fiduciato" con i voti determinanti dei missini.

Fellini e le gite nere
Inizia un'epoca di pellegrinaggi neri: domenica 8 settembre 1957 quarantadue individui vengono denunciati per tentata ricostituzione del disciolto partito fascista. Tra di essi almeno due diverranno famosi: il famigerato squadrista romano Stefano Delle Chiaie, anima nera della strategia della tensione, e l'avvocato bergamasco Mirko Tremaglia, che "da decenni" si batte "per i diritti degli Italiani all'estero".

    La retorica e la mistica fasciste trascolorano in bizzarra cuccagna strapaesana a base di gadgets vagamente necrofili. «È gente che vive di miti che non reggono più», commentava già all'epoca il grande Fellini.

    Sono gli anni de La dolce vita e il regista riserva un irresistibile quadretto al leitmotiv nostalgico allora in voga, la gita funebre a Predappio: «C'eravamo tutti. È stata una cerimonia bellissima, mesta e commovente. Era il popolo, l'autentico popolo che portava fiori al suo capo amatissimo» – così, ironia finemente horror del capolavoro felliniano, discorre l'azzimato ex gerarca nella scena del ballo notturno ai Castelli romani.

Finale di partita
Ma, al di là delle note di costume, siamo al finale della transizione politica dal regime fascista alla Repubblica. Un finale che – dopo l'occultamento di Stato presso la Certosa di Pavia e lo sviluppo di strategie concorrenziali per l'elaborazione del passato – si gioca anche intorno alla salma del duce. La posta in palio è la riuscita o meno del tentativo "continuista" di restaurare il vecchio impianto di potere, senza il duce e senza il re, ma sotto l'egemonia della destra clericale.

    Nello scontro consumatosi intorno alla transizione post-fascista dell'Italia repubblicana (una transizione che notoriamente si conclude a Genova nel luglio 1960 con la sconfitta di Tambroni e il prevalere della strategia saragattiana del centrosinistra) emergono le ultime conseguenze dell'epilogo consumatosi a Giulino di Mezzegra.

    Quella di Mussolini, da vivo e da morto, è una vicenda che per buona parte coincide con il Novecento italiano, dalla crisi dello Stato unitario scatenatasi alla fine della prima guerra mondiale fino ai prodromi dell'instabilità politica contemporanea. E forse la transizione dalla prima alla seconda Repubblica stenta a transitare anche a causa del modo non serio – all'italiana – con cui il nostro paese ha tentato di eludere i fantasmi del regime.

Un punto basso, corporale
Fin qui in sintesi l'impianto della ricostruzione (in sette capitoli, un Prologo e un Epilogo) offertaci dall'importante saggio einaudiano Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, dello storico Sergio Luzzatto.

    Già enfant prodige di scuola pisana, Luzzatto con questo libro «sembra aver vinto la gara che da anni impegna tanti narratori e indagatori della recente storia italiana: ha trovato il punto di vista adatto. Un punto basso, corporale: l'altezza di un gancio da macellaio; vicina a quella di un monumento equestre», scriveva Adriano Prosperi salutando il nuovo libro (CdS del 10 ottobre 1998).

    Con un approccio indubbiamente originale, sostenuto da notevole competenza storica e uno stile di buona fattura, il testo apre uno squarcio sui molti arcani d'Italia, sulla perenne ambivalenza teatrale che anima il nostro beneamato Paese. E tra questi arcani campeggia senza dubbio anche la questione dell'uso simbolico imbastito intorno alla fine (ingloriosa) del fascismo e del suo fondatore. 

Carnival Nation
«Una fine di questo genere, così meschina e miserabile» –  annotava Giovanni Ansaldo nell'aprile del '45 in morte del duce – «disonora l'Italia, e le imprime più che mai in fronte il marchio di "Carnival Nation". Una fine tragica sarebbe stata più onorevole per tutti; per lui, per noi, per il Paese».

    In effetti l'epilogo di Mussolini al Dongo viene percepito come l'ultimo atto di una tragicommedia. E, in effetti, giunto all'epilogo della sua carriera di dittatore, il duce è un ex uomo di potere oramai vecchio e cadente, che deve scegliere se consegnarsi agli alleati (i quali lo processerebbero, come egli teme, «al Madison Square Garden») oppure ai partigiani. Dinanzi a questo dilemma si traveste da soldatino tedesco tentando di svignarsela in Svizzera con l'amica e un cospicuo numero di lingotti d'oro della Banca d'Italia.

    Così «il cappotto straniero, il tesoro e la ganza» cadono nella trappola del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, e Luigi Longo, perentorio, ordina: «accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche».

    Pietro Nenni – pur rimpiangendo di non poter «trascinare questo straccio per le piazze d'Italia, in un baraccone da fiera, a ludibrio eterno del ducismo» – già nel 1943 considerava Mussolini: «un vinto, è l'eroe dannunziano che ruzzolato dal suo trono di cartapesta morde la polvere».

Il "quinto atto"
Dopo l'epilogo del Dongo, Pertini – che dall'esilio in Francia aveva lungamente carezzato l'idea di vendicare l'uccisione di Giacomo Matteotti collocando una bomba ad alto potenziale sotto Palazzo Venezia – riassume con accenti kafkiani l'intera epopea ducesca: «È finito come un cane».

    In verità finì anche peggio. E qui bisogna ricordare una pagina tutt'altro che luminosa, anzi ripugnante, della Liberazione di Milano. Quel 29 aprile del 1945 la gente accorre a Piazzale Loreto. Il cranio dell'ex dittatore viene preso a calci. Sfondato. I cadaveri vengono coperti d'insulti, sputi, urina. Una donna spara sulle salme. Alla fine queste finiscono appese per i piedi al traliccio di una stazione di benzina. Macabro rituale che suscita lo sdegno della stampa internazionale e il profondo disagio di molti dirigenti antifascisti.

    Giuseppe Saragat telegrafa a Le Monde una condanna senza appello contro la «plebaglia» che aveva «calpestato e insozzato il corpo vinto».

    L'Avanti! titola "Giustizia è fatta", ma in redazione Nenni trattiene a stento il proprio fastidio quando il redattore capo – un ex fascista – propone: «Andiamo tutti a brindare. Offro io».

La folla accanita
La folla accanita del crucifige di Piazzale Loreto pare a Leo Valiani, capo del Partito d'Azione, la medesima folla osannante «delle adunate oceaniche». Il «popolo infantile», la ggente «disgustosa» e «servile», l'Italia reale, la maggioranza rumorosa e circense eternamente pronta a saltare sul carro del vincitore, si presenta massiccia all'appuntamento con il cadavere.

    E la retorica prende il sopravvento. E la Resistenza, fenomeno minoritario il cui valore etico consisté proprio nel coraggio civile di combattere contro una dittatura che aveva goduto invece di vasti consensi, finisce anch'essa per travestirsi, da "guerra di popolo".

    Proprio sul giornale di Valiani l'orrore di Piazzale Loreto, prontamente sublimato, viene ridescritto come segue: «è una folla di uomini e di donne, che per un momento ... ha cessato le sue grida, le sue manifestazioni di gioia per l'avvenuta liberazione. Non un gesto inconsulto davanti ai cadaveri di questi uomini che hanno espiato con la morte le loro gravi colpe, ma unicamente una certezza: che la giustizia popolare ha fatto il suo corso». Resoconto desiderante quant'altri mai.

La protesta di De Luna
Un resoconto «tanto "falso" quanto profondamente rivelatore di quale "avrebbe dovuto essere", secondo il PdA, la "vera" Piazzale Loreto» – annota Giovanni De Luna.

    Accanto all'Italia, irrimediabilmente grulla, delle minoranze eroiche, convive quella maggioranza ben nota, astuta e conformista. Passata la buriana, quest'Italia è, si capisce, pronta ad avviare la riabilitazione del duce – dopo averlo prima osannato e poi, senza soluzione di continuità, smembrato. Ma la storia, evidentemente più astuta degli astuti, non ha cosentito il compimento di questo doppio walzer trasformista.

    Nondimeno, l'incapacità di fermarsi e riflettere, rende fragile e incerta la cultura politica del nostro Paese. Questo giudizio di fondo percorre e sottende il libro di Luzzatto.

    Giudizio severo e, per molti versi, plausibile. Forse troppo plausibile. Perché di certo è implausibile – protesta De Luna – voler dedurre dall'orrore di Piazzale Loreto l'assunto secondo cui nell'immediato dopoguerra abbia avuto luogo una sorta di ribaltamento dei ruoli, con i reduci della Resistenza nei panni dei persecutori e i reduci di Salò oggetto di persecuzione da parte del "potere cimiteriale".

    In effetti, alla luce della continuità di potere tra il regime fascista e certo establishment democristiano dell'immediato dopoguerra, questo assunto appare francamente inverosimile. Se è vero che la Resistenza in Italia fu anzitutto e soprattutto un fenomeno minoritario, non si può assumere una reale cesura di potere tra la vecchia e la nuova Italia. In realtà la nuova Italia stenta moltissimo a nascere e non c'è soluzione di continuità, non almeno nell'immediato dopoguerra (e in questo senso perde in credibilità, almeno nella sua portata più vasta, anche la tesi luzzatiana del «potere cimiteriale» antifascista).

Paragone italo-tedesco
Fa invece bene Luzzatto a riflettere nella vicenda del corpo del duce i vizi di un Paese sostanzialmente estraneo al tormento morale della memoria o al sentimento collettivo di colpa. In tal proposito sarebbe istruttivo – ben al di là di un semplice esercizio di erudizione storica – porre la transizione post-fascista in Italia a paragone con quella parallela, eppure così diversa, che si svolge nella Germania dell'Ora zero.

    Non che "lo spettacolo nibelungico della fine di Hitler", come lo definisce icasticamente Luzzato, rappresenti un modello alternativo rispetto a Piazzale Loreto... Si tenga presente che mentre in Italia la ggente si esercitava nel pubblico ludibrio, saltabeccando disinvoltamente dagli osanna ai crucifige, e nelle vetrine delle cartolerie venivano commercializzate le foto del duce appeso a testa in giù; a Dresda trovavi esposti «i ritratti di Hitler listati a lutto, adorni di fiori. "Si può essere più cretini", commentava un ufficiale allibito». Il paragone andrebbe condotto, insomma, sopra la quota su cui operano i rispettivi cretinismi nazionali.

Un'autoassoluzione impossibile
A Luzzatto va il merito d'aver messo il dito nella piaga, rimarcando i vizi sostanzialmente simmetrici e auto-assolutori del "buonismo" e del "cattivismo" postbellico. Da un lato lo spirito di piazzale Loreto che puntava a una quasi irrazionale demonizzazione dell'ex dittatore "inviso alle masse" (immagine funzionale alla "guerra di popolo", che ha rappresentato una specie di mito fondante della "Repubblica nata dalla Resistenza"). Dall'altro il perdonismo clerico-fascista che difendeva la "buonanima Mussolini" per ovvi, ancoraché inconfessabili motivi.

    «Rimettere a Mussolini i peccati di Dongo – il cappotto straniero, il tesoro, la ganza – significava infatti perdonargli le colpe del regime: il trasformismo politico, la corruzione economica, la doppia morale.»  Cioè proscioglierlo anche e soprattutto dai vent'anni di dittatura a partire dall'assassinio di Giacomo Matteotti (il leader riformista che fu rapito, sottoposto a violenza carnale, torturato e poi ammazzato a coltellate dai sicari del duce nel 1924) fino alle leggi razziali e all'immane tragedia della seconda guerra mondiale.

    Questo, per l'establishment italico, avrebbe voluto dire auto-assolversi. Ma a tutto c'è un limite.

Sergio Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Einaudi editore, Torino 1998 (questa recensione è apparsa per la prima volta sull'ADL del 20.1.1999).

venerdì 24 aprile 2009

Prefascismo al confine orientale

E' stato pubblicata sull'ultimo numero dei “Quaderni” del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno l'edizione critica, a cura di Gian Luigi Bettoli, della biografia di Isidoro Furlani, giornalista ed esponente di primo piano dell'irredentismo pre-fascista.

Isidoro Furlani, intellettuale di Albona, fu un esponente importante - finora trascurato dalla storiografia - dell’irredentismo italiano. Dopo l’esilio volontario, Furlani attraversò per quasi mezzo secolo le vicende del giornalismo italiano, stabilendosi infine ad Udine, punto di ritrovo degli irredentisti giuliani e dalmati. La sua vicenda affianca la parabola del movimento, dalle origini repubblicane risorgimentali alla destra nazionalista prefascista.

    Elemento di interesse è inoltre il fatto che la vicenda di Furlani venne ricostruita da un suo allievo ed erede di primo piano: l'avvocato pordenonese Piero Pisenti, capo del fascismo friulano degli anni ’20, l’uomo che tessè i rapporti fra i potentati economici e lo squadrismo e che poi – dopo un periodo di relativa emarginazione a causa delle faide interne al regime – riemergerà come Ministro della Giustizia della Repubblica di Salò.

    Nelle sue parole, Furlani emerge come un antesignano della politica antislava della dittatura fascista.
    Il testo, con una introduzione del curatore: “Prefascismo al confine orientale: la biografia pisentiana di Isidoro Furlani”, è alle pagine 209-261 del volume XIX dei Quaderni, e richiedibile presso il CRS.

Centro Ricerche Storiche
Piazza Matteotti, 13
Rovigno / Croazia
www.crsrv.org, info@crsrv.org

LIBRI PER L' ABRUZZO

Fahrenheit, insieme ai librai, ai bibliotecari, ai volontari  dell' Arci promuove una raccolta solidale di libri che saranno poi inviati nei diversi campi allestiti in Abruzzo

In questi giorni sono arrivate alla nostra redazione molte proposte e richieste di partecipazione per il dramma del terremoto in Abruzzo. Oltre alle case, le scuole, gli uffici e la vita intera da ricostruire, c'e` un patrimonio culturale da salvare e rilanciare e di questo patrimonio fanno parte anche i libri: libri che mancano, libri distrutti, libri come passatempo, libri per i bambini e libri di testo per le scuole, libri per riflettere, per ricordare e per dimenticare. Fahrenheit, insieme ai librai, ai bibliotecari, ai volontari dell' Arci, e grazie allo stimolo e alla disponibilita` di quanti vorranno partecipare, promuove una raccolta di libri che saranno poi inviati nei diversi campi allestiti in Abruzzo; un pulman sara` messo a disposizione dall' Ama (Azienda mobilita` aquilana) e girera` con i libri a bordo come biblioteca itinerante.
Vi invitiamo a donare i vostri libri preferiti, quelli che avete amato di piu`, quelli che vorreste condividere e regalare agli abitanti delle zone colpite dal sisma. Scegliete un libro, il vostro libro e speditelo alla nostra redazione a questo indirizzo:

Fahrenheit - Radio3
Via Asiago 10
00195 Roma

La redazione di Fahrenheit

giovedì 23 aprile 2009

Inibire il fanatismo non è poi un male

In morte del filosofo Franco Volpi (1952-2009)


di Andrea Ermano


Il filosofo Franco Volpi ci ha lasciato martedì scorso a Vicenza, sua città natale, in seguito a un incidente. Aveva 57 anni. Era uno dei maggiori storici del pensiero europeo, ben noto anche al di fuori dei confini del nostro Paese. Lunedì scorso era uscito di casa in bicicletta. Giunto a una località nei pressi di Vicenza, a San Germano dei Berici, è rimasto vittima di uno scontro con un’automobile. Sbalzato dal seggiolino è precipitato sull’asfalto subendo un gravissimo trauma cranico in seguito al quale è deceduto all'ospedale di Vicenza.

    Fin dal ginnasio, sotto la guida di un grande umanista come Giuseppe Faggin, aveva seguito una precoce vocazione filosofica, affinatasi poi all'università di Padova alla scuola di Enrico Berti, vero e proprio gigante degli studi aristotelici, del quale Volpi è stato allievo, assistente e infine successore alla cattedra di storia della filosofia.

    Tra i maggiori esperti del pensiero tedesco del Novecento, era stato Visiting professor presso numerose università europee e nordamericane, collaboratore di prestigiose riviste filosofiche internazionali nonché editore delle opere di Schopenhauer, Heidegger, Gadamer e Rosa Luxemburg in lingua italiana.

    La sua eccellenza indiscutibile di storico, filologo e filosofo si era prepotentemente imposta su opere fondamentali del pensiero novecentesco, ed heideggeriano in particolare, dalla riedizione di "Essere e tempo" fino alla più recente edizione dei "Contributi alla filosofia", lungo una serie di testi che già in lingua tedesca rasentano l'enigma assoluto e che appaiono praticamente intraducibili in altre lingue.

    Proprio in quest'ambito impervio Volpi aveva raccolto la sua temibile sfida intellettuale, spianando un'ampia via di accesso al pubblico filosofico di lingua italiana. E davvero non sono molte nel mondo le lingue che possano vantare, a questo sommo livello speculativo, un'analoga recettività e ospitalità nei riguardi del pensiero sviluppatosi nelle altre principali lingue europee moderne.

    Anche perciò è doveroso porre in evidenza il grande merito di Franco Volpi e di pochi altri studiosi della sua vaglia. Senza l'incredibile quantità e qualità di lavoro e di erudizione di questi benemeriti della cultura il dibattito filosofico italiano non reggerebbe al confronto con quello degli altri paesi occidentali.

    E a chi gli chiedeva come riuscisse a fare tutte quelle cose -- lezioni, conferenze, libri, edizioni, convegni, enciclopedie ecc. -- Volpi rispondeva con semplicità: "Ma io faccio solo questo".

 

Volpi non è mai stato un intellettuale snob o elitario, ma anzi -- accanto alla frequentazione delle vette del pensiero -- ha sempre praticato la filosofia nel suo senso più autentico, che è dialogo e presenza sulla "agorà" in mezzo all'altra gente. Oltre i confini del nostro Paese, giustamente celebre tra studenti e studiosi di mezza Europa, resta l'insostituibile "Dizionario delle opere filosofiche" che Volpi aveva intrapreso a redigere in collaborazione con lo studioso tedesco Julian Nida-Ruemelin (in seguito ministro della cultura nel primo governo Schroeder). Dopo la prima edizione del 1988, apparsa da Kroener in lingua tedesca, Volpi continuerà a lavorare, con competenza ed erudizione straordinarie, all'ampliamento della mole originaria che confluirà nel Grande Dizionario delle Opere filosofiche del 1999, uscito in Italia l'anno successivo per i tipi di Bruno Mondadori Editore.

    Le lezioni e le conferenze del celebre studioso erano rigorosissime sul piano scientifico, ma anche amichevoli nei riguardi dei giovani, degli studenti e degli ascoltatori in genere. Volpi rifuggiva ogni fumosità. Era seriamente impegnato a ricercare le parole più comprensibili per favorire il confronto con allievi e le persone interessate alla filosofia. Né si può dimenticare la sua passione per la divulgazione: "Geniali le sue proposte di opere minori di Schopenhauer", ha ricordato Sergio Givone, "dalle quali Volpi ha saputo trar fuori quella accattivante miscela di filosofia popolare e filosofia alta che era nascosta in esse".

    Il rettore Milanesi, a nome dell'antichissimo ateneo padovano in cui Volpi insegnava, ha commentato la morte prematura del filosofo accusando "una perdita gravissima, poiché priva colleghi e allievi di un punto di riferimento e ci lascia una grande eredità culturale che sarà compito di tutti noi valorizzare e continuare".

   Non è possibile concludere questo profilo di Franco Volpi senza ricordarne l'attività redazionale presso il quotidiano La Repubblica, un'attività che presupponeva straordinarie doti di sintesi e di chiarezza. E proprio sulla Repubblica del 10 aprile scorso, in risposta alla recente condanna di papa Ratzinger contro Friedrich Nietzsche, assunto ad emblema di un estremo relativismo, Volpi era intervenuto ricordando l'innocenza (e la sofferenza) del filosofo profondamente, disperatamente cristiano nel diagnosticare le sorti di un cristianesimo profondamente, disperatamente destabilizzato dalla Krisis. "Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano", concludeva Volpi sulla Repubblica, "ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell'uomo occidentale è sempre più paganizzata".

    Al di là di questa dolente constatazione ed entrando nel merito della questione stessa, Volpi non si era sottratto ad esprimere senza ipocrisie la propria perplessità circa gli anatemi anti-relativisti della curia attuale. E su questo punto Volpi ha scritto alcune parole, che assumono ora, dopo la sua scomparsa, il valore di un lascito morale per tutti.

    "Dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell'altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C'è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo".

 

 

 

 

mercoledì 15 aprile 2009

25 Aprile a Zurigo

Il Comitato XXV Aprile di Zurigo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia di Zurigo e del Comites di Zurigo
invita alla celebrazione del 25 aprile, Festa della Liberazione

ZURIGO, Casa d’Italia
(Erismannstrasse 6)
sabato 25 aprile 2009
dalle ore 17.30

Lo storico MAURO CERUTTI dell'Università di Ginevra terrà una relazione sul tema:
La Resistenza italiana e la Svizzera

Interverranno:
Salvatore Di Concilio, Comitato XXV Aprile
min. Mario Fridegotto, Console Generale d’Italia
Paolo Da Costa, Comites di Zurigo
Fiammetta Jahreiss Montagnani, Città di Zurigo,
on. Gianni Farina, Camera dei Deputati

L'orco

Oh se il terremoto
fosse un orco gigantesco
diabolico selvatico
fortissimo e malefico
capace di abbattere senza fatica
torri chiese e storia
e di ridurre in macerie
bicocche e castelli
e come in un incubo
di trasformare in strame
i paesetti dei cargnelli...
Oh se il terremoto
fosse un drago
nascosto dimenticato
vigoroso e fiammeggiante
che sotto terra va scavando
proprio ora
per far sprofondare
città e casali
e qua e là a suo capriccio
le case dei friulani...
Oh se il terremoto
fosse un folletto
peloso grasso
cieco e bigotto
che va sbatacchiando di notte
catene sui tetti
e quando gli gira
come fruste
le prende con due mani
e ti riduce in frantumi
i paesi del Mezzogiorno...
Troppo bello
se fosse così il terremoto
ché allora basterebbe
di acqua santa una spruzzata
o di San Giorgio la lancia appuntita.

Leonardo Zanier

giovedì 9 aprile 2009

Il politico e il numismatico 

La crisi economica del 1929 vista da un osservatorio inconsueto. Rodolfo Ratto (1866-1949) fu tra i più accreditati studiosi italiani di numismatica. I suoi cataloghi su monete a prezzo segnato sono ancora oggi strumento indispensabile per chi intraprende l’attività nel settore. Nato a Genova nel 1866, si trasferì nel 1921 a Lugano, dove  restò fino al 1930. A Villa Ginevra presso Besso promosse aste private per la compravendita di monete greche e romane. Il clima di  quegli anni, contrassegnato da ovvi malumori per  il mutare delle leggi sui cambi e per il graduale avvicinarsi della crisi mondiale del 1929, è documentato in un  carteggio da Lugano fra il numismatico e il Deputato al Parlamento italiano Pietro Niccolini, Senatore del Regno  dal 1920 e qualificato referente di Ratto.

di Giuseppe Muscardini

Basta passeggiare lungo la raffinata Via Nassa per rendersene conto. Il mercato e lo scambio numismatico è prospero e fiorente, per quanto oggi sia difficile pensare ad investimenti in monete antiche.

    Ma Lugano ha radici consolidate, tanto da indurre nel passato numismatici provenienti dall’estero ad impiantare la loro attività nella bella città sul lago, per farsi promotori di aste pubbliche e private in un commercio destinato ad assumere sempre più carattere internazionale. La riprova di questa diffusa tendenza ci viene dal recente ritrovamento di una corrispondenza epistolare tra Rodolfo Ratto, stimato numismatico con residenza a Villa Ginevra, e Pietro Niccolini, parlamentare italiano, appassionato di antichità e a sua volta collezionista di monete.

    Il carteggio fra i due, risalente agli anni Dieci e Venti, svela interessanti implicazioni e offre spunti di riflessione sul clima morale del periodo che precedette una crisi socio-economica di portata mondiale. La numismatica, nel caso dei due, diviene così da Lugano una sorta di osservatorio privilegiato attraverso il quale misurare il polso dell’economia, riflettere sulla condizione ondivaga dei cambi e sulle nuove leggi che dal 1926 regolarono i commerci tra Svizzera e Italia.

    Si legge testualmente in una lettera del 7 luglio 1926: La Numismatica non va troppo bene, a causa di questo mondo che non vuol mai andare a posto, anzi va sempre più fuori  di posto. In questo momento poi, l’attuale decreto sui cambi, mi proibisce ogni traffico con l’Italia; ma capisco  che intanto, anche se non ci fosse il decreto, l’altezza  attuale del  cambio, impedirebbe egualmente gli affari. A parte l’Italia, tutto il mondo è malato, malatissimo, non parliamo di Francia e Belgio ecc. La stessa America soffre  di malattia ferocissima del dollaro, ed è più malata di noi che soffriamo per la lira barcollante.

    Visibilmente preoccupato per i continui mutamenti che mettono a repentaglio la sua attività luganese, Rodolfo Ratto non si sottrae al compito di erudire il politico sui valori etici (e anche materiali) di certe monete romane in vista di una compravendita. Consiglia, pontifica seccamente sulla conservazione di Auree o Faustine romane, critica stato e fior di conio di monete comunissime e senza valore, che dice di possedere a dozzine.

    L’autorità gli viene da un sapere e da un’esperienza professionale di tutto rispetto: dal 1893, all’età di 27 anni, aveva dato inizio a Genova alla sua attività commerciale, riuscendo l’anno successivo a pubblicare il primo di un prezioso corpus di cataloghi, cessato solo nel 1939. Ha impennate di vero entusiasmo quando la ripresa del cambio gli fa sperare lauti vantaggi: Ora poi bisogna considerare il miglioramento della Lira che vuol dir molto. Sopra L. 500, in pochi mesi, corre una differenza di 200 lire. Cioè è  quanto dire che 500 d’oggi equivalgono a 700 di prima, epperciò se la lira continua a migliorare, quod est in votis,  il prezzo continuerà sempre a scendere, anche a dispetto dell’ostinazione del venditore. E qui si tratta di pura operazione matematica, contro la quale qualunque argomento contrario s’infrange (lettera del 19 gennaio 1927).

    Come promotore di aste private a Villa Ginevra, si dimostra abile e attento alle minuzie: è in grado di prevedere ostacoli per i suoi utili sulla base di convinzioni personali e giudizi talvolta sommari, dettati dalla frequentazione assidua dell’ambiente luganese del commercio numismatico: Non creda che i membri della Società di cui mi parla siano persone da portare profitti, anzi i Luganesi furono poco soddisfatti. Il guadagno che ne tireremo sarà questo: che siccome il Governo ha fatto spese eccezionali per preparativi, impianti ecc., egli poi le riparte nell’aliquota delle tasse, ed io ne sortirò molto ammaccato, come tutti gli altri; glielo saprò dire a fine d’anno. Sarà una liquidazione poco confortante (lettera del 6 febbraio 1929).

    È sorpreso dal fatto che il Governo intenda distribuire l’onere di spesa per gli interventi pubblici attuati sull’assetto viario di Lugano con un proporzionale aumento delle tasse. Si sente addirittura perseguitato, e pronosticando dissesti finanziari, il 5 ottobre 1929 scrive testualmente: Dei guai fiscali, è meglio non parlarne. Sono qualche cosa di più grave di un guaio. Basti dire che si va facendo strada l’idea di ritornare in Italia.  Qui non è più possibile vivere. Specialmente da un anno a questa parte si è delineato tutto un sistema insopportabile, da superare qualsiasi previsione, la più nera, che si avesse potuto fare.

   Quantificando le numerose aste private organizzate a Villa Ginevra a Besso in quegli stessi anni, e sfogliando i relativi cataloghi editi dal 1924 al 1929 dalla Tipografia e Libreria dei Successori di Natale Mazzucconi di Lugano, è tuttavia lecito pensare che buoni profitti siano entrati nelle casse del numismatico. Ancora dopo il 1930, lasciato il Ticino per ritirarsi a Milano, le due aste più importanti volle tenerle a Lugano.   

*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara dove lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Belfagor" e molte altre testate italiane e internazionali.

È membro attivo della "Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ). Per le Edizioni dell'ADL ha pubblicato L'Empietà di Marte - Elogio dei giovani che ripudiano la guerra (Zurigo, 2007).

Attribuzioni molteplici comensoliane / Ottimista - Pessimista - Comensoli

Si va a concludere la bella esposizione dedicata a Mario Comensoli dalla galleria Welti Modern Art, specializzata nelle opere di classici moderni.  La mostra comprende una trentina di opere comensoliane che vanno dal periodo postcubista fino a lavori creati a pochi anni dalla morte dell'artista, avvenuta nel giugno del 1993. Al vernissage (tenutosi il 5 marzo scorso nella prestigiosa sede al Mythenquai), il condirettore della Fondazione Comensoli ha pronunciato un pirotecnico discorso, giustapponendo in serie i predicati che sono stati attribuiti a Mario Comensoli nella sua lunga e fortunata carriera. E dal gioco combinatorio è uscito, come per divinazione, un ritratto vivace e vero del grande artista svizzero.

di Peter Killer
Condirettore Fondazione Mario ed Hélène Comensoli

alto  -  sportivo  -  tifoso  -  atletico  -  forte  -  di razza  -  resistente  -  ben allenato  -  snello  -  agile  -  asciutto  -  perseverante  -  tenace  -  abbronzato  -  buono  -  assolato-strasolato  -  arioso  -  maschile  -  pelosetto  -  bello   -  curato  -  ben vestito  -  vitale  -  virile  -  vivace  -  seducente - vulnerabile  -  timido  -  ombroso  -  rancorosissimo  -  difensivo  -  auto-dubitativo  -  persona di molto temperamento  -  riservato  -  alquanto insicuro  -  alquanto sicuro  -   ambizioso  -  orgoglioso  -  ritirato  -  solitario  -  un anacoreta  -  talvolta socievole  -  assai diligente  -  instancabile  -  irrequieto  -  riservato  -  discreto  -  attento  -  accorto  -  comprensivo  -  una persona seria  -  divertente  -  spiritoso  -  servizievole  -  vanesio  -  profondo  -  puntuale  - grande amante dell’ordine  -  gentile  -  vivace  -   passionale  -  inquieto - di successo  -  privo di successo  -  innovativo  -  dinamico  -  sempre alla ricerca  -  creativo  -  sensibile  -  sempre alla ricerca  -  unico  -  geniale  -  inventivo  -  dotato  -  errante  -  ardimentoso  -  solido  -  ben fondato  -  sperimentale  -  temerario  -  produttivo  -  ispirato  -  troppo esigente nei riguardi di se stesso  -  ipercritico  -  auto-penalizzante  -  accurato  -  sottile  -  sublime  -  noncurante  -  impulsivo  -  svelto  -  veloce  -  frettoloso  -  sicuro nel tratto  -  sicuro nei colori  -  sensuale  -  necrofobo  -  necrofilo  -  dionisiaco - interessato  -  appassionabile  -  molto ben informato  -  erudito  -  aperto  -  intellettuale  -  politico  -  stanco di politica  -  ingenuo  -  scettico  -  persona dotata di grande intelligenza  -  non molto diplomatico  -  impulsivo  -  entusiasta  -  giovanilistico  -  ottimista  -  pessimista  -  realista

(trad. dal ted. di E. Arpavaldo)

L’esposizione si concluderà il 18 aprile e prevede, in occasione del finissage, una visita guidata (sabato 18 aprile, ore 14.30).

Informazioni: Welti modern art
Mythenquai 20, 8002 Zurigo
Tel. 044 202 40 41 - www.rwma.ch

giovedì 2 aprile 2009

Lo spazio come bene comune

Dalla Fondazione Diamante di Lugano riceviamo e volentieri pubblichiamo.

di Nicola Emery *)

Qualche settimana fa le pagine di cronache di Repubblica riportavano questa notizia:  "Roma: Pensionato pestato da tre baby bulli. L’ anziano era colpevole di passare sul loro marciapiede. E’ nostro e tu non passi".

    E lo aggrediscono con varie lesioni.
    Un episodio come tanti altri , un momento di cronaca che avrebbe potuto avere per teatro un altro luogo all’ interno della città generica contemporanea, indubbiamente anche in Lombardia e in Ticino.

    Proprio per questo, credo siano episodi significativi di una tendenza in atto in molti ambiti: il venir meno della differenza fra pubblico e privato a favore di una unilaterale espansione del privato.

    Il marciapiede è nostro e tu non passi. Proprietà privata piena,"quiritaria" direbbero gli storici del diritto, non gravata da alcuna servitù.

    Delirio del possesso, dove delirare etimologicamente significa appunto andare al di là dei limiti, ossia aggressività territoriale di una soggettività proprietaria che non riconosce più i suoi limiti. E i suoi legami con il tessuto collettivo.

    "E’ nostro e tu non passi" urlano i tre bulli in faccia all’ anziano.
    Ma come sapeva Platone, l’ anima e l’ambiente di vita, l’anima e la città, , psiche e polis, presentano sempre un ‘isomorfismo, ovvero studiando lo stato dell’ una , conosci anche la condizione dell’ altra .

    Il delirio dell’ una esprime e coincide allora con il delirio dell’ altra.
    Lo spazio qui è sentito- sentito nel profondo- come una merce.
    La città come aggregato di proprietà da conquistare, da privatizzare, senza più nulla di comune, nemmeno il marciapiede. Il presupposto concettuale- che è al tempo stesso la legge del nostro spazio fisico - è questo : spazio = merce da appropriarsi.

    Qualcosa di cui ci si può appropriare vuoi con la violenza più bruta, vuoi anche con l’astuzia che sa dissimulare la violenza e la sublima in altri termini, fra cui quelli della speculazione.

    E nel dominio assoluto dell’ economia e del concetto di merce ognuno di noi pensa se stesso in termini individuali, individualistici. Non è solo il declino dell’ uomo pubblico ( Sennet) , ma è anche la perdita della funzione trascendente di cui ha parlato Jung per indicare la relazione necessaria fra l’inconscio personale e quello collettivo, per parlare insomma dello spazio dell’ anima. La perdita dello spazio comune la si paga appunto con il disagio, l’arroganza, la paura.

    Ne vengono fuori dei soggetti confinati in un’idea di individuo e persona che di fatto costituisce una mistificazione rispetto al nodo con l’altro che in realtà ci costituisce fin nell’ inconscio.

    Nel loro delirio questi giovani hanno comunque sentito che i marciapiedi sono elementi importanti del rapporto pubblico-privato e visto che nello spazio della città esplosa contemporanea- in questo spazio spazzatura, Junkspace, come lo chiama Rem Koohlas- i marciapiedi sono una sorta di optional, qualcosa di accidentale , rispetto all’’ essenziale riservato al traffico-essi in fondo annettendo al loro capitale simbolico i marciapiedi, negandoli, non fanno altro che portare alle sue conseguenze la logica stessa dello spazio contemporaneo, che, se lasciata a se stessa, è una logica ispirata all’ assolutismo della proprietà.

    Personalmente credo che episodi estremi come questi- che di fatto formano la nostra cronaca e insomma la nostra realtà- sono rivelativi di tendenze profonde, di una trasformazione delle strutture concettuali .

    La differenza fra lo spazio pubblico e quello privato non è più sentita come una differenza di natura- filosoficamente direi una differenza di statuto ontologico- ma è vista soltanto come una differenza di grado, una differenza dunque del tutto instabile, precaria , quasi appesa anch’essa( come la vita di non pochi giovani e non solo giovani) a un contratto a termine. Procedo facendo un altro concretissimo esempio. Qualche giorno fa leggo sul medesimo quotidiano:  "Le fogne della suocera . Ultima missione di Sarkò.  Sarkozy Interviene nella battaglia condominiale".

    Sembra una fiction irriverente e paradossale, ma è proprio la realtà contemporanea ! La notizia è semplice : la suocera del presidente francese ha una villa su un promontorio privato e i comproprietari dello stesso non si accordano sulla realizzazione delle fogne che dovrebbero servire le loro abitazioni. L’ uomo pubblico per eccellenza , il primo cittadino, interviene per risolvere la faccenda e pare che in vista ci siano anche contributi pubblici". Il che significa che anche lui disconosce una differenza sostanziale, quella fra faccende privati( spazi privati) e ruolo pubblico, e mette al servizio del suolo privato la sua potenza pubblica.

    Da un punto di vista concettuale lo spazio, tutto lo spazio, qu ( e non intendo dire solo in costa azzurra, ma intendo riferirmi alla condizione contemporanea che è anche nostra) è allora sentito come un condominio, ossia come un diritto di proprietà ripartito fra più persone che si riconoscono nell’ esercizio di un dominio.

    Dicendolo non penso alla figura unica del dominus, ossia un Signore che si incarnerebbe in un soggetto personale determinato. Non è questo l’aspetto che mi interessa.

    Mi interessa piuttosto notare come l’idea dello spazio di vita come condominio costituisca un’ulteriore risultato dell’ affermazione unilaterale del possesso privato: il rapporto sociale, lo spazio sociale, il territorio comune, si risolve in rapporto fra i proprietari di spazio- merce, ognuno dei quali è guidato alla realizzazione dei propri interessi proprietari.

    Con buona pace alla cura dell’ uso pubblico, alla cura dell’ uso comune dei demani( vedi laghi, spiagge, boschi ,promontori sul mare, ecc.).

    Non il promontorio come demanio da curare e aprire a un uso comune, ovviamente, ma il pozzo nero della suocera come problema!

    Questa concezione dello spazio come condominio, misera addizione di parti private, non dovrebbe ovviamente mai costituire il presupposto sulla cui base orientare la gestione politica dello spazio.

    Ma mi rendo conto che le forze- e certo non solo concettuali- che vanno in questa direzione sono molteplici, e possono esprimersi a molti livelli.

    Può accadere che lo spazio pubblico venga ritagliato- rovinato- in funzione del privato, ad esempio,come sapete, e non sto parlando della costa azzurra -sovradimensionando i parcheggi sul suolo pubblico per agevolare attività private. Servitù pubbliche!

    Ma guardando anche dentro l’architettura delle istituzioni, dentro lo spazio giuridico delle istituzioni- spazio istituzionale che prefigura sempre uno spazio fisico- mi domando se e a livello giuridico non si assista in alcuni ambiti- a una analoga destrutturazione dello spazio, destrutturazione del rapporto fra diritto privato e diritto pubblico. Un movimento analogo a quello che abbiamo visto sin qui .

    Si creano enti pubblici retti da diritto privato. Non ho le competenze di un giurista , ma proprio dal punto di vista dell’ incompetenza (questo è un po’ filosofico, un po’ socratico ! ) si possono interrogare queste forme, farne venire alla luce i presupposti individualistico- proprietari dietro- o dentro- il formalismo giuridico che fa perno sull’idea astratta di autonomia privata. ( Forse anche il fatto che Blocher- terzo esempio cronachistico - in un suo discorso da ministro abbia voluto identificare lo spazio della democrazia diretta a quello dell’espansione del diritto privato, non è circostanza esterna a quanto sto affermando.)

    Lo spazio- sia quello fisico sia quello istituzionale- concepito come un condominio comunque una immagine politicamente molto insidiosa.

    Solo i condomini, ossia i proprietari, sarebbero alla fine competenti e legittimati a dire la loro sullo spazio e sulla sua organizzazione urbanistico- architettonica-istitzionale, dalle fogne,ai marciapiedi, alle istituzioni.

    Concretamente significa la fine del diritto politico che ognuno ha, dovrebbe avere, all’ interrogazione critica dello spazio.

    Se lo spazio( interamente mercificato) decade a condominio, ne deriva infatti che non verrebbe riconosciuto a tutti i cittadini il diritto di porre domande e di partecipare attivamente alla critica e alla costruzione del territorio. Nel condominio ovviamente il non proprietario non è autorizzato a dire alcunché, e se anche prova a dirlo non è ritenuto competente, non è legittimato da alcunché . Eppure da un punto di vista politico sicuramente i non proprietari( e con loro anche i senza-tetto) dovrebbero venir riconosciuti come competenti a dire la loro sul territorio e in genere sullo spazio.

    Questo non deve essere concepito come una struttura d’ autorità che troviamo semplicemente già fatta e nelle cui radiazioni ci troviamo passivamente immersi. Dunque- e non faccio altro che citare Derrida - "ognuno ha il diritto di porre domande sull’ architettura. Competenza in questo caso significa essere politicamente autorizzati a interrogare l’ autorità architettonica, gli architetti stessi su quello che fanno , perché essi costruiscono lo spazio in cui viviamo. Da questo punto di vista , ogni cittadino è competente e perfino i senzatetto ( che sono quasi non-cittadini ) lo sono."

    Lo spazio infatti, e molto semplicemente, non è un condominio.
    Il condominio- e il nome di questo condominio oggi è Junk-space- si costruisce pensando lo spazio in termini di addizioni di proprietà private.

    Ma è questa l’ essenza dello spazio ? E’ la proprietà privata l’ essenza dello spazio ? A chi appartiene lo spazio ?

    Le metafore con le quali la filosofia ha descritto lo spazio hanno ancora molto da dirci oggi.
    Alla immagine del condominio si oppone l’ immagine dello spazio come pascolo, ossia come luogo di uso comune anteriore e più originario rispetto a qualsivoglia appropriazione privata.

    Luogo che é un bene , ossia non è in funzione di altro, di un valore di scambio, ma è un bene come tale e di per se stesso. E’ questo bene è un pascolo, un luogo di crescita, essenzialmente un luogo di uso comune, una terra collettiva la cui partecipazione è retta dalla logica della condivisione e della comunità.

    Lo spazio come pascolo è una figura di quell’altro modo di possedere, altro rispetto alla proprietà privata, con il quale l’umanità può, e forse ancora potrebbe, organizzarsi. Oggi in particolare: la questione ambientale non deve forse necessariamente intrecciarsi con una nuova relativizzazione dei diritti di proprietà?

    Non dobbiamo infatti limitarci ad intendere in termini solo retorico-formali il principio di responsabilità. In questo senso idee da riprendere con coraggio sono state elaborate nel contesto della stessa tradizione architettonica del moderno, ad esempio allorquando un personaggio come Gropius si faceva militante promotore di "una campagna propagandistica volta a riconquistare al pedone il diritto di transito".

    Quello che desidererei sollecitare non vorrei fosse insomma soltanto la memoria passiva di quelle "tradizioni di genti più antiche, le quali avanti l’ era romana , usufruttavano la terra in vaste comunanze, comunanze estese a intere valli e catene di monti " nelle cui tracce si imbatté ancora Carlo Cattaneo analizzando il Piano di Magadino.

    Come riattualizzare questa memoria ? Come riattualizzare la memoria del comune anteriore da un punto di vista giuridico, logico e ontologico al privato ? Come e con chi decolonizzare lo spazio –il bene comune-dalla sua mercificazione, dalla sua riduzione proprietaria ?

    Domande difficili, forse del tutto inattuali. Ma onestamente non credo ci sia possibilità di eluderle e di evitarle- altrimenti il Junkspace avanza anche dentro di noi, dentro lo spazio interiore,e con esso si compie non solo il declino dell’ ambiente ma anche il declino dell’ uomo fisico e psichico come tale. Permettere che la psiche individuale escluda la psiche collettiva costituisce del resto un grave errore anche dentro di noi, e ha un esito patologico.

    Come ci insegna la miseria della cronaca. . Analogamente a quanto avviene quando analizziamo lo spazio fuori di noi, anche quando analizziamo lo spazio dentro di noi, lo spazio della persona possiamo "staccare la maschera e scoprire che ciò che pareva individuale è in fondo collettivo". Anche la personalità cosciente deve riconoscere "che essa è un segmento della psiche collettiva", una sua successiva individuazione che individuandosi deve pertanto restare solidale, rapportarsi bene, con lo sfondo comune. Come aveva già detto Platone, l’ anima e la città hanno infatti, dovrebbero avere, la stessa forma. Sta a noi decidere che tipo di spazio e di soggettività vogliamo, cercando in primo luogo , molto concretamente, di non far crescere forme di appropriazioni deliranti, violentemente allergiche davanti a vitali ‘ diritti di transito’.

    Lo spazio contemporaneo una sorta di immensa discarica dove ci si può chiedere quale possibilità abbia ancora l’ architettura intesa come la possibilità di disegnare e govererare lo spazio di vita.

    Osservando che nel 2015 L’ africe nera AVRÀ 332 MILIONI DI ABITANTI NEGLI SLUM, e che questa cifra è destinata a raddoppiare ogni 15 anni , uno studioso americano scrive :

    Le città del futuro , lungi dall’ essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano vero il cielo , gran parte del mondo urbano del Ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Il miliardo di cittadini che abiterà gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’ alba dela vita urbana, ottomila anni fa"( Davis , Pianeta degli Slum, 24)

    Chiediamoci davanti a queste contraddizione e all’ episodio di quotidiana violenza di Roma, se lo spazio è una merce , qualcosa che si può possedere vuoi scambiandola con dei soldi vuoi con l’arroganza, oppure se è qualcosa d’ altro .

    La sua natura non è piuttosto quella di un bene , ossia di qualcosa che ha valore di per sé, e del quale l’ uomo non può fare a meno, perché costituisce la condizione stessa per la sua crescita fisica e psichica non patologica. Se lo spazio è una merce , sarà economia che potrà gestirlo fra le sue contraddizione : se esso è invece un bene dovranno piuttosto essere gli abitanti , i cittadini , i membri della comunità politica, gkli architetti con progetti intelligenti a a garantire la costruzione di spazi come beni comuni: spazio della socializzazione come piazze, scuole, biblioteche, luoghi di abitazione socialmente accessibili

    Quie luoghi che oggi vanno scomparendo sostituiti da centri commerciali e luoghi di socializzazione che in realtà sono luoghi della merce, dominati dalle merci e organizzati fisicamente in sua funzione.

    Se questo problema è il problema contemporaneo anche degli architetti, vediamo di vedere che cosà può dire in proposito la filosofia.

*) Docente all’Accademia di architettura a Mendrisio (Ticino)

In volume le Spigolature di Balmelli

Novità editoriali

I commenti di Renzo Balmelli apparsi qui nella rubrica "Spigolature" dal gennaio 2005 al dicembre 2007 stanno ora per uscire in volume. Di seguito anticipiamo la presentazione del nostro direttore al nuovo quaderno dell'ADL, che chiude il programma editoriale 2008.

di Andrea Ermano

"Spigolature". Così Renzo Balmelli ha battezzato la sua rubrica per la Newsletter elettronica dell’ADL, che è giunta ormai al decimo anno di attività: era nata come gruppo di discussione internet tra alcuni studiosi siloniani all’inizio del 2000 e oggi raggiunge una platea di oltre seimila destinatari sparsi nei cinque continenti.

    Dieci anni in rete, per la nostra antica testata di migranti, illustrano una capacità d’innovazione da festeggiare. E ci è parso bello farlo pubblicando questa antologia che documenta l’evento giornalistico più rilevante ed apprezzato nell’ambito della Newsletter elettronica dell’ADL.

    Per un caso imprevisto, ma non privo di valore emblematico, l’antologia inizia con un testo del gennaio 2005 sui cento anni del Cooperativo di Zurigo e si chiude con la bocciatura di Blocher avvenuta nel dicembre del 2007. Tra la Spigolatura iniziale, dedicata alla sede del Centro Estero zurighese, e quella finale, sul tonfo parlamentare bernese dell’ex ministro, si staglia una parabola: che anzitutto accenna alla provenienza di un autore appartenente alla miglior tradizione del giornalismo svizzero. Un giornalismo aduso a varcare i confini della Confederazione per gettare il proprio sguardo partecipe sullo stato di salute del mondo, dell’Europa e della "vicina Italia".

 
    Renzo Balmelli non indossa lo sguardo arcigno del moralista, coltiva uno stile garbato e ama stemperare la critica sociale nel sorriso. Ma è fermo nel suo giudizio su una mondializzazione senza giustizia e su un continente sempre più affannato dalle dinamiche globali. Al centro dell’attenzione l’Autore colloca però il nostro Paese, dominato da un processo sempre più preoccupante di rifeudalizzazione.

   
   Queste Spigolature ci aiutano a riflettere sull’assenza di responsabilità democratica nella destra italiana, con buona pace di tutti coloro i quali sognavano una Seconda repubblica articolata su culture politiche avversarie, ma non nemiche: l’una d’impianto liberal-conservatore e l’altra d’ispirazione eurosocialista. Le rapacità (di partiti oligarchici, di dinastie postindustriali lontane dalla cultura del lavoro, di una curia malata d’integralismo) stanno causando invece un cortocircuito postdemocratico.

    Basti citare qui Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo permanente per la quale il padre aveva chiesto che si interrompessero le cure artificiali dopo diciassette anni di piaghe da decubito e di coma irreversibile. Questa tragedia familiare, consumatasi mentre mandiamo in stampa il presente quaderno, è stata utilizzata, come si sa, per due forzature istituzionali. Da un lato l’esecutivo italiano ha tentato di sovvertire per decreto-legge e retroattivamente sentenze inappellabili del potere giudiziario. Dall’altro lato l’esecutivo della Città del Vaticano si è pubblicamente "rallegrato" con Palazzo Chigi per siffatto decreto dichiarandosi "profondamente deluso" dal diniego oppostovi dal Presidente della Repubblica per evidenti ragioni di carattere costituzionale.

    Con rabbiosi accenti clerico-fascisti la destra italiana s’è allora gettata sul povero corpo di Eluana Englaro, accusando il padre di essere un "boia" insieme al Quirinale, all’ordinamento giudiziario e ai medici italiani, i quali tutti avrebbero compiuto un "assassinio". In fondo al baratro dell’inaudito i grandi mezzi televisivi del Cavalier-Premier hanno stravolto il dolore degli Englaro in una spietata aggressione mediatica alla laicità dello Stato.

    Ma l’abuso privato-demagogico-plebiscitario dell’informazione non inizia nel febbraio 2009. E fin da tempi non sospetti le Spigolature di Balmelli "sferzano ridendo" il malcostume che impera in ampi settori del nostro establishment impegnati ad esibirsi in una quotidiana Colazione ad Arcore i cui indecenti meccanismi comunicativi e le cui indecenti logiche di potere sono denunciati dall’Autore con civico sdegno, che non possiamo non condividere.

 
    La deontologia dell’informazione e quindi lo scomodo ruolo di coscienza critica sono come una seconda pelle per un giornalista vero, com’è Renzo Balmelli, dopo una gavetta e una carriera trascorse – insieme ai colleghi di una vita: Dario Robbiani e Mario Barino – in mille battaglie di civiltà, tra le quali restano memorabili le inchieste-denuncia sulla condizione delle "braccia italiane" all’epoca delle valige di cartone.

    Accennavamo allo stile di Balmelli, garbato, intessuto di quella mitezza apenninica, e direi francescana, che costituisce l’ispirazione più originaria e autentica dell’italiano. Lo stile di Balmelli è un tributo consapevole alla lingua. Una lingua scritta e parlata a sud delle Alpi, in condivisione, da italiani, ticinesi e altre comunità minori, come nei Grigioni o in Istria. Ma qui, oltre le Alpi e nella città di Zurigo, non solo la professione giornalistica lega l’autore all’italiano. Certo, a Zurigo veniva prodotto il telegiornale della TSI che Balmelli diresse per lunghi anni e che ebbe una notevole inuenza anche sull’opinione pubblica del nostro Paese. Non solo. Oltre le Alpi e nella città di Zurigo, ci sono anche una voce e una sede dove si respira la lingua italiana secondo un’idea alta dell’impegno civile e sociale: alludiamo naturalmente alla voce de L’Avvenire dei lavoratori e alla sua storica sede, il Cooperativo.

    Per L’Avvenire dei lavoratori hanno scritto a più riprese i già citati Dario Robbiani e Mario Barino, oltre che Ezio Canonica e lo stesso Renzo Balmelli, senza dimenticare Giovanna Meyer-Sabino alla quale dobbiamo parte considerevole della documentazione televisiva sulla vita e la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. E la lista potrebbe risalire per li rami fino a grandi figure di fondatori della radio, come Guglielmo Canevascini ed Ettore Cella, anch’essi profondamente legati all’Avvenire dei lavoratori e al Cooperativo fin dai tempi della lotta antifascista.

    Se non è trascurabile il contributo al servizio pubblico radiotelevisivo svizzero da parte di donne e uomini che hanno respirato l’aria di questa nostra officina politico-giornalistica zurighese, non meno trascurabili sono i meriti che tutti costoro hanno nella nascita e nel rafforzamento di un’opinione pubblica democratica di lingua italiana.

 
    In Svizzera un’altra radiotelevisione è stata possibile. Forse anche e non da ultimo perché nel suo codice genetico è conuito un po’ di quello speciale spirito di libertà e d’umanità che abita nell’ADL e nel Coopi, istituzioni ormai storiche del socialismo di lingua italiana sulle quali poggia una tradizione ideale sopravissuta con miracolosa continuità organizzativa alle eclissi totalitarie e alle terribili prove del fuoco che hanno caratterizzato il "secolo breve".

    Dunque non sembri privo di significato che le Spigolature di Renzo Balmelli vengano pubblicate proprio sull’ADL e prendano le mosse proprio dal Cooperativo nel segno di una pregnante continuità. Né meno pregnante appare, per converso, la chiusa del volume su Blocher, bocciato per volontà del Parlamento federale svizzero.

    La parabola di quest’antologia disegna così una morale della favola nella quale si giustappone da un lato una vecchia istituzione di migranti, perseguitata, derisa, plurisfrattata, ma finora capace di sfidare il tempo e l’arroganza del potere. Dall’altro lato vediamo invece cumularsi le macerie di cui il potere medesimo incessantemente dissemina i propri fori trionfali interrotti.