mercoledì 27 agosto 2008

L'USCITA DAL DISVALORE

Nel trentesimo dalla morte di Silone, che diresse la nostra testata e il Centro Estero socialista fino al rientro a Roma liberata dal fascismo, pubblichiamo qui ampi stralci del discorso tenuto il 5 maggio 2000 dal professor Vittorio Panicara all'Università di Zurigo nell'ambito della prima edizione delle Giornate Siloniane in Svizzera. A questa anticipazione seguirà prossimamente la pubblicazione di un volume dedicato al lascito ideale del grande scrittore e uomo politico italiano scomparso a ginevra il 22 agosto del 1978.

di Vittorio Panicara
Nella società dei consumi l’imperativo del benessere, vero “tarlo della coscienza”, ha portato con sé, in tutti i Paesi modernizzati, lo smarrimento delle idealità politiche e delle norme etiche della convivenza civile; ha scosso le fondamenta sociali e ha provocato la perdita dell’identità di uomo; ha suscitato falsi bisogni e ha incoraggiato meschinità una volta sconosciute; ha spinto a una frenesia emulativa insopportabile e invero suicida. E ancora: nella cultura del Novecento il nichilismo rivela la necessità di ridare un senso alla vita riconoscendosi negli altri, nella nostra pietà e in quella degli altri; il noi cristiano dei profughi dell’Internazionale Comunista permetterà di superare la stasi nichilista.

Per i loro contenuti, si stenterebbe a credere che tali proposizioni, da me riportate in modo rapsodico e con accostamento paratattico, appartengano a un’opera come Uscita di sicurezza, nota al grande pubblico quale drammatica testimonianza di un distacco politico sofferto e conflittuale, e quale documento di accusa al comunismo che ha permesso di accostarlo agli scritti di Camus e di Orwell. Le due serie di considerazioni siloniane da me riassunte sono tratte da due scritti -- rispettivamente Ripensare il progresso e La scelta dei compagni -- inclusi in Uscita di sicurezza, raccolta di saggi pubblicata nel 1965 (come saggio unico era comparsa nel 1949, insieme con contributi di altri autori, tra cui Arthur Koestler, André Gide e Richard Wright; essa ha poi dato il titolo a tutta la silloge e ha avuto fama maggiore rispetto agli altri testi).

Quello che voglio sottolineare è che la raccolta, sia dal lato quantitativo che da quello qualitativo, non si segnala per la prevalenza dell’argomento storico-politico sugli altri, nonostante l’autobiografismo accentuato di molte pagine; essa offre di Silone, piuttosto, un’immagine un po’ misconosciuta, quella del pensatore morale pacato e riflessivo, garbato e pungente, che investiga la società con occhio attento e acuto, pronto non a denunciare polemicamente ma a cogliere le contraddizioni senza illudersi di superarle, e con il solo intento di riportarne ai lettori una testimonianza attendibile.

Non è vero, a mio parere, che l’autore di Fontamara abbia dato letterariamente il meglio di sé come narratore: non ho qui il tempo per dimostrare quanto vi sia di forzatamente didascalico nei romanzi e nelle commedie, o quanto la lingua, certamente anti-letteraria sulla scorta verista e meridionalista, non riesca spesso a darci la cifra psicologica dei personaggi, o a offrire la carica emotiva che talune situazioni, anche tragiche, avrebbero richiesto; non che manchi profondità al messaggio siloniano, né fa difetto all’autore la capacità affabulatoria: ciò che non sono personalmente riuscito a trovare in Silone narratore è la varietà delle soluzioni linguistiche e stilistiche che le esigenze narrative e della comunicazione letteraria di norma richiedono. L’espressione non si modella e non si “fonde” in modo adeguato con il narrato e con l’intenzionalità immanente al testo, il cui messaggio ideologico talvolta si sovrappone all’ordito, alle parole e alle emozioni che pure si vorrebbe suscitare nel lettore. Manca a Silone l’abilità del grande scrittore di creare personaggi e situazioni che esprimano in modo diretto il proprio sentire e le proprie idee, tali che siano davvero “sue” e del lettore stesso.

Al contrario, Silone saggista ha un controllo pressoché assoluto del mezzo espressivo, che gli serve per riflettere e far riflettere, per confutare e per esemplificare, per persuadere e per perorare cause ritenute profondamente giuste. La parola qui è precisa quando, spesso, deve esserlo, ma sa essere anche opportunamente vaga e allusiva, mentre le volute sintattiche dei periodi, quasi mai eccessivamente complesse, accompagnano il pensiero e ne esprimono direi perfettamente ogni modulazione. Ma anche la stessa struttura argomentativa, intessuta di frequente di nessi oppositivi e dialettici, ha un andamento che è studiato e contemporaneamente spontaneo (o almeno questo è l’effetto voluto sul lettore), scandito nei momenti retorici richiesti dalla tradizione e al tempo stesso innovativo. O quella perfezione di stile che si può ritrovare solo in alcuni momenti della sua stessa narrativa e in molti interventi della commedia L’avventura di un povero cristiano, per esempio nei dialoghi tra Celestino e il cardinale Caetani, poi Bonifacio VIII (ma qui la conseguente lentezza dell’azione limita fortemente l’effetto scenico).

A onor del vero e a parziale contraddizione di quanto detto, c’è in Uscita di sicurezza un breve testo di 11 pagine, La pena del ritorno, che è il racconto autobiografico di un triste ritorno in un paese assimilabile a Fontamara, in cui l’invenzione narrativa e il “tono” della narrazione pervadono di un sentimento avvolgente di malinconia e di rimpianto il lettore sensibile alla narrazione memorialistica soffusa di nostalgia, e pronto a raccogliere e ad approfondire il grande tema del tempo che passa. Qui l’autocritica dell’autore è palese: la dimenticanza dei cafoni e del loro mondo, che il narratore, mediante le parole di Lazzaro morente, confermate dalla vicenda, imputa a se stesso, è dimenticanza del mondo di affetti giovanili (e la figlia di Lazzaro, Laurina, è immagine leopardiana), dimenticanza delle passioni tumultuose ormai abbandonate della gioventù, e forse di un’ispirazione, quella letteraria legata a Fontamara, almeno in parte ripudiata e rimpianta. Lo può dimostrare il fatto che il paese rivisitato non è quello nativo dell’io narrante, così come Fontamara non raffigura Pescina, e che esso viene ritrovato intatto nelle cose, ma mutato, in peggio, nel comportamento e nella mentalità, alla pari di quella società contadina che Silone rimpiangeva e che non aveva più ritrovato nel dopoguerra (ciò che troveremo in un altro saggio). A mio parere, è questo breve racconto, La pena del ritorno, a rappresentare il momento narrativo più alto della raccolta -- non certo il tanto conclamato Incontro con uno strano prete (cioè con don Orione) -- insieme con alcune pagine, soprattutto quelle iniziali, ben note, del saggio singolo Uscita di sicurezza, in cui ritroviamo l’Abruzzo semplice e primordiale dei pastori e dell’adolescenza di Secondino Tranquilli.

Ma, come detto, non è la parte narrativa ciò che oggi ricordiamo della raccolta, ma quella saggistica: sennonché, più della spiegazione, pur notevole, della fuoruscita dal comunismo e della Lezione di Budapest (testimonianza a caldo del 1956), che tanto hanno fatto discutere in epoche ormai lontane, vale la pena, oggi, riparlare di saggi meno famosi, ma, a mio avviso, più attuali e significativi. Non intendo sminuire l’importanza delle pagine in cui Silone prende le distanze dal Pci e da Togliatti, pagine che interesseranno sempre più gli storici e sempre meno i letterati, ma voglio dimostrare che la parte più viva della silloge è l’ultima, che sotto il titolo Ripensare il progresso, raccoglie diversi testi, tutti fra loro collegati tematicamente. E non solo si tratta dei saggi più meditati e meglio impostati retoricamente, ma sono gli scritti che meglio di altri mostrano la perizia linguistica e stilistica del saggista Silone di cui ho parlato.

Dibattendo il tormentato dilemma del rapporto tra benessere collettivo e vita morale -- che a ben vedere attraversa tutte le opere di Silone -- l’autore constata l’indubbia decadenza morale di una popolazione una volta abituata alle privazioni e oggi in parte assuefatta ai consumi; l’avvenire della civiltà industriale ha minato la fiducia nel Progresso (mito che Silone non rimpiange affatto) e ha prodotto degli uomini incapaci di solitudine e di riflessione, uomini “arrivati al limite estremo della perdita della propria identità”. Silone, che sembra anticipare la critica dell’automazione e dell’economicismo della globalizzazione, così si esprime: “Il progresso economico ha creato macchine che somigliano a uomini; e la corrispondente evoluzione sociale modella sempre più uomini che somigliano a macchine”. E quanto alla società dei consumi e alla neonata classe di burocrati (siamo nella prima metà degli anni Sessanta), Silone ne segnala i rischi e i pericoli, non senza far uso di ironia. Ne Le sorprese dell’assistenza ci dà un saggio di bravura critica nel momento in cui ricollega la crescente corruzione sociale all’obbligo moderno contratto dallo Stato nei confronti dell’assistenza pubblica; una volta appannaggio della Chiesa, questa mansione viene svolta dai governi e dai partiti, con effetti devastanti sui modelli di comportamento degli Italiani: avversi da sempre allo Stato, costoro ricorrono all’assistenza burocratica, dimentichi del recente passato (durante il quale valevano il mutuo soccorso e l’orgoglio di provvedere da se stessi ai propri bisogni) e inclini ad ogni meschinità. Nel Silone moralista non troviamo però il fustigatore di costumi, ma l’osservatore che non rimpiange il passato neppure quando critica il presente, e che vuole mostrare certe realtà dolorose e, perché no?, quasi ridicole, come avviene nella corsa di tanti Italiani dell’epoca (ma non mi pare che oggi la situazione sia granché cambiata) alla “raccomandazione” e al sussidio statale. Silone cita senza troppo scandalo l’episodio delle false “marocchinate” -- donne che avevano mentito dichiarando di essere state violentate dai reparti marocchini dell’esercito francese, pur di arrivare al misero indennizzo promesso -- sottolineando lo scarto con la mentalità legata all’”onore” ancora presente nei piccoli paesi. Lo Stato assistenziale ha generato una decadenza del costume che l’autore caratterizza con parole precise e spietate:

Il lato più penoso di questa decadenza, a mio parere, non è tanto la perdita di ogni impulso di spontanea generosità e la rivendicazione continua e petulante di diritti, quanto la meschinità di questi. Ignari o indifferenti per i doveri che comporterebbe, al diritto maggiore, al diritto di essere rispettati come uomini e di comportarsi da uomini, al diritto di essere cittadini e non gregge, questi poveracci si mostrano feroci nel rivendicare il diritto all’elemosina, al dono, al divertimento.

Se Silone non è moralista intransigente, ma osservatore insolitamente acuto e capace di anticipazioni sorprendenti, è anche vero che non rifugge dall’approfondimento concettuale e dal collegamento con la sua stessa esperienza politica. In tal modo, la delusione storica del comunismo viene spiegata con l’impossibilità di modificare mediante la trasformazione dell’ambiente e delle circostanze storico-politiche la vera essenza dell’uomo, la moralità. Sono pagine, quelle di Agiatezza e costume, che meriterebbero una trattazione più ampia; basti qui sottolineare, in aggiunta a quanto detto, la sfiducia nei confronti dello sviluppo tecnico, che non è riuscito ad aumentare la libertà dell’uomo -- e la libertà è l’autentico faro della navigazione siloniana -- e la considerazione sull’aumento del benessere, che non ha certo portato a una maggiore partecipazione democratica dei cittadini. Anzi, l’autore descrive con efficacia sia l’imborghesimento dei comunisti, sia la scristianizzazione dei fedeli (e porta un autorevole testimone: don Milani): i due gruppi sono ormai omologati -- uso qui volutamente un termine pasoliniano -- nel costume, inaridito, e nei comportamenti, standardizzati. E la stessa sorte ha colto i contadini abruzzesi delle valli della Marsica: “Sono meno poveri di una volta, più istruiti, più scaltri, ma anche più disgregati, quasi asociali, benché iscritti nell’uno o nell’altro dei partiti politici”.

Se a questo punto cerchiamo una chiave di volta nel discorso siloniano sul progresso e la modernità, che egli difende dai suoi detrattori, considerando la perdita della povertà qualcosa di irrinunciabile, se cerchiamo una chiave che ci consenta una conclusione logica del discorso testé abbozzato, credo allora che la nostra attenzione debba rivolgersi ai due piccoli saggi che concludono Ripensare il Progresso: Controversie sui mass-media e Quale prospettiva?

Discutendo infatti quello che considera un abbaglio, cioè la deprecazione dei presunti misfatti dei mass-media nei paesi più progrediti dell’Occidente, Silone inizia affrontando il tema serissimo della frattura tra cultura alta e cultura popolare, spaccatura che neanche la rivoluzione comunista è riuscita a sanare; egli afferma a questo riguardo che l’istruzione pubblica ha permesso di superare le barriere tra ricchi e poveri, ma ha lasciato intatte le diversità di sensibilità e di attitudine mentale, quelle differenze individuali che nascono dal rapporto dell’animo con la realtà e che sono alla radice di ogni autentica vocazione di letterato o di artista. L’argomentazione dell’autore si fa qui stringente: se questo è vero, e si aggiunga anche il fatto che l’istruzione ha perduto la carica esplosiva di una volta, il problema dell’influsso dei mass-media si complica; afferma Silone: “O certo che i mass-media costituiscono una terribile forza di condizionamento dell’opinione pubblica, di una pericolosità potenziale senza esempi nella storia”. Egli porta l’esempio tangibile dei totalitarismi, ma poi aggiunge: “Tuttavia, perfino nelle situazioni estreme, apparentemente uniformi, s’impone sempre una verifica approfondita della realtà”: i regimi dittatoriali non hanno modificato le coscienze in profondità, e questo è dimostrato dalla facilità con cui, per esempio, crollò il fascismo dopo il 25 luglio; non solo, ma questo discorso è tanto più valido per le società occidentali, in cui l’influenza dei mass-media varia da persona a persona. “Si potrebbe affermare che l’azione di questi mezzi diventa corruttrice nella misura in cui trova in molti uomini il vuoto intellettuale e morale; ma, appena se ne cerca un’esemplificazione, si resta perplessi”. Per Silone quello che conta è ciò che gli individui fanno dei mass-media, non il contrario. Egli nutre fiducia nella capacità degli uomini di difendersi dai tentativi di indottrinamento, una facoltà istintiva che non dobbiamo ottundere in noi stessi. Il vero nemico sono l’apatia e l’indifferentismo, la stanchezza che mina la compattezza morale della società.

Ecco trovata, a mio parere, la pietra di paragone di questi saggi: la libertà dell’uomo, la sua autodeterminazione come valore irrinunciabile della vita comune; la ricerca di Silone è sempre stata volta al conseguimento di questo Valore che la Storia del Novecento ha spesso conculcato tragicamente. O questo il vero trait d’union di queste pagine, il motivo ispiratore dell’uscita da una condizione umana che io chiamerei “del Disvalore”: in questo senso, l’uscita di sicurezza di cui ci parlano questi saggi non è soltanto la fuga da un sistema dittatoriale comunista, o da ogni totalitarismo: è la ricerca di una via che permetta all’uomo di riacquistare se stesso, la sua dignità e il suo libero arbitrio, e dunque la possibilità e oserei dire il vanto di poter essere giudicati.

L’ultimo testo, Quale prospettiva?, conferma in pieno la mia ipotesi: quando l’autore afferma recisamente che l’errore è stato quello di aspettarsi, anzi di “pretendere”, la felicità dal benessere; o quando contesta il primato attribuito ai record economici della produzione e del consumo; o quando afferma testualmente che “il processo di incivilimento tecnico non è sincronizzato con quello della cultura e della moralità”, egli non fa altro che ribadire e reclamare la necessità di uscire dal Disvalore, non essendoci, a ben vedere, differenza essenziale e qualitativa tra un totalitarismo e l’appiattimento e l’apatia nella società massificata e consumistica, “la condizione di abulia in cui la civiltà di massa va riducendo la maggioranza dei cittadini”; si tratta di una società priva di punti di riferimento, di valori, appunto. Anche le accuse allo Stato centralizzato, allo statalismo e alla burocrazia, i quali hanno usurato lo spirito democratico da cui la stessa Repubblica italiana era sorta (e qui ripenso alla somiglianza con la posizione di Carlo Levi dell’Orologio), anche tale posizione proto-federalista rinvia a un ripensamento del progresso che recuperi la sfera dell’autonomia morale e faciliti “la formazione di comunità libere e sane”. Per Silone

la critica della società agiata può essere giustificata, è anzi lodevole, quando è rivolta contro il quietismo e l’autocompiacimento, e quando tende a mantenere viva l’esigenza che ogni progresso si debba misurare in ultima istanza dall’accrescimento della libertà e della moralità dell’uomo.

La lotta al Disvalore è stata per Silone la lotta al fascismo prima e l’uscita dal comunismo poi, ma si è protratta anche dopo la Liberazione nella testimonianza di un moralismo che si proponeva di indicare una direzione di uscita, una uscita di sicurezza agli uomini della civiltà di massa. E concluderei questo mio intervento con le stesse parole che chiudono il libro, parole che non hanno bisogno di commento e che mostrano da sole tutta la loro attualità:

Forse nessuno vorrà trovare arbitraria l’affermazione che, in ogni epoca e sotto ogni regime, sia da stimare progressista solo ciò che favorisce la libertà, la responsabilità e l’autogoverno degli uomini. Una ragionevole consapevolezza di progresso, anche se non estingue tutte le inquietudini umane, può aiutare molti uomini a sopportare l’angoscioso senso di precarietà dell’esistenza.

lunedì 18 agosto 2008

Quando i cristiani si convertivano all'Islam

La storia dei trecentomila rinnegati che tra il Cinquecento e  i primi dell’Ottocento abiurarono in favore dell’Islam è raccontata da Massimo Carlotto nel recente romanzo  Cristiani di Allah, Milano, Edizioni E/O, 2008. Un riuscito spettacolo teatrale mutuato dal libro, con pregevolissime esecuzioni musicali, è in programmazione dal 5 aprile in molte città italiane. Storie vere e romanzate di integrazioni e apostasie. 

di Giuseppe Muscardini *)

In questi caldi mesi estivi si porta in scena nelle piazze e nei teatri italiani uno spettacolo singolare e suggestivo dal titolo provocatorio de I Cristiani di Allah. Andando a fondo, assistendovi e mescolandosi alla platea degli spettatori, si intuisce subito l’assenza di una vera provocazione, poiché il titolo è rispondente ad una verità storica inoppugnabile. Muove da eventi lontani, risalenti alla prima metà del Cinquecento, quando sulle coste del Mediterraneo un gran numero di cristiani abiurò in favore dell’Islam, alcuni con l’intenzione di trarne dei vantaggi, altri per sopraggiunta convinzione religiosa. I vantaggi si misuravano in termini di libertà di movimento da una costa all’altra, scorrazzando per mare con brigantini leggeri e depredando le flotte mercantili. Talvolta, a determinare quella scelta radicale, era invece il bisogno di dare una qualche legittimità ai rapporti affettivi personali, come nel caso delle relazioni omosessuali, punite nel mondo cristiano ma ben tollerate nella società islamica, dove si consentiva a due uomini di vivere more uxorio. Fatto è che in molti casi, anziché riservare ai cristiani di Allah un destino da pirati, la conversione religiosa permetteva loro di acquisire prestigiose cariche sociali, con investiture e prebende che utilizzavano per diventare trait d’union tra l’Islam e il mondo da cui provenivano. 

   Questo lo sfondo in cui lo scrittore Massimo Carlotto ambienta la sua storia romanzata, uscita di recente dai torchi tipografici delle Edizioni E/O di Milano, ricavandone contestualmente una pièce teatrale da portare nelle piazze. Necessarie le varianti tra libro e situazione scenica: nel romanzo il protagonista è Redouane Rais, legato sentimentalmente a Othmane in un amore non convenzionale che nel mondo cristiano richiederebbe fughe e infingimenti. Nello spettacolo protagonista è invece una cantante e attrice veneziana di nome Lucia che, come Almirena nel Rinaldo di Haendel, aspira a riacquistare la libertà dopo essere stata ridotta in schiavitù ad Algeri.

   Molte le sedi teatrali e le piazze in cui lo spettacolo finora è andato in scena. Lo stesso Massimo Carlotto, autore del testo, vi prende parte come voce recitante, accanto al musicista armeno Maurizio Camardi, abilissimo con sassofoni e flauti etnici, a Mirco Maistro, che domina con maestria la tastiera della fisarmonica, a Mauro Palmas, esecutore di languide arie con le mandole, e a Rachele Colombo, percussioni. Ma è la presenza sul palco dell’incantevole Patrizia Liquidara, a piedi nudi e in abito lungo, voce ispirata e suadente, a decretare il successo di una situazione scenica di eccellenza. A lei è affidato il compito di evocare un’atmosfera, un contesto storico e un habitat difficili da comunicare allo spettatore senza il ricorso a canti e nenie dell’epoca, in una babele di lingue e favelle che spaziano dal veneto al turco, dall’arabo delle coste nordafricane ai dialetti sardi parlati nel 1541, l’anno in cui si svolge la vicenda. L’anno in cui Lucia scopre, pur nella sua disperante condizione di schiava, il peso dei differenti modi di concepire il quotidiano e lo svolgersi dell’esistenza nel mondo cristiano e nell’Islam. Nel luogo di reclusione scopre un’impensabile tolleranza musulmana verso la fede religiosa di ognuno, in terre assolate dove liberamente circolano e interagiscono fra di loro monaci cattolici venuti per confortare i reclusi, ebrei, maomettani e altri personaggi di religione ibrida, intoccabili e quasi sacri, rapiti ancor piccoli nei villaggi cristiani dai turchi per farne soldati al servizio del Pascià. Lo snodo della storia, l’interpretazione canora di Patrizia Laquidara e la còlta ricerca condotta dal gruppo musicale sulle fonti storiche per rilevare le contaminazioni tra Oriente ed Occidente, hanno sortito un effetto sorprendente, entusiasmando ogni volta il pubblico per l’alto livello dello spettacolo, e inducendolo a momenti di riflessione sul valore della diversità culturale e dell’integrazione.


*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara e lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica di Ferrara. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Italianistica", "Filologia e critica", "Belfagor", "Letteratura & società", "Letteratura & Arte", "Dibattito Democratico", "IBC Informazioni commenti e inchieste sui beni culturali" e "Chroniques italiennes". Collabora inoltre con i periodici e media elvetici "La Regione Ticino", "Cartevive", "La Rivista del Mendrisiotto", Il Grigione italiano", "Il Bernina", "Quaderni grigionitaliani", "Terra cognita", "Seniorweb.ch", "Pagine d'Arte" e "Radio Campione International". È membro attivo dell'"Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ).

Comensoli: l'ascesa al Cinema e la "caduta" nell'Esistenza

Prolungata a fine agosto la mostra di Locarno

Dal tema realtà-irrealtà del mondo delle spettacolo le tele di Mario Comensoli esposte a Locarno sconfinano in una ben più vasta e inquietante prospettiva, che sfiora le frontiere ultime della situazione umana.

Considerato il grande interesse del pubblico i Servizi Culturali della Città di Locarno hanno deciso di prolungare fino al 31 agosto la mostra “ Sotto lo schermo tutto / Mario Comensoli: il cinema, i giovani" allestita alla Pinacoteca comunale di Casa Rusca e prevista inizialmente fino al 17 agosto.

    L’idea iniziale era quella di far coincidere la retrospettiva comensoliana con il festival del film di Locarno e dunque di chiudere la mostra al termine della rassegna cinematografica. Si è poi constatato che nell’ottica del pubblico e della critica l’allestimento curato da Pietro Bellasi e Mario Barino andava ben oltre l’assunto iniziale che era quello di riproporre trent’ anni dopo opere comensoliane sul cinema esposte nel 1978 al Grand Hotel di Locarno. D’intesa con il responsabile di Casa Rusca Riccardo Carazzetti, Bellasi e Barino avevano ripreso e continuato il discorso apertosi con quella lontana mostra locarnese portando nelle antiche sale dello splendido palazzo patriziale tele dell’ultimo periodo creativo di Comensoli – molte delle quali mai esposte finora - che dal tema realtà-irrealtà del mondo delle spettacolo sconfinano in una ben più vasta e inquietante prospettiva che sfiora le frontiere ultime dell’umana esistenza.

Picture (Metafile)
    Ed è proprio questo capitolo, logicamente, che inchioda i visitatori davanti ai quadri di Comensoli ospitati al primo piano del palazzo. Come ha rilevato Bellasi inaugurando la mostra alcune settimane fa, è il senso ineluttabile della "caduta" a caratterizzare le tele dell’ultimo Comensoli e per capirne il significato basta ricorrere ad alcuni appunti lasciati dall’artista nel suo atelier che si riconducono a delle lezioni del filosofo Peter Sloterdijk tenute in quegli anni al Politecnico federale di Zurigo.

    Sono appunti che si rifanno a un mito antico circa la situazione dell’uomo nel mondo come effetto di una "caduta". I tempi moderni hanno trasformato questo motivo gnostico della "caduta" in un altro concetto, di movimento, nel concetto del "Passo in avanti" (Fortschritt). Un equivoco da cui è impossibile uscire elegantemente: e da qui i dubbi, le ambiguità dei moderni, il senso d'inadeguatezza che accompagna i nostri gesti di fronte alle scelte epocali che siamo chiamati a compiere.

    L’ultima pittura di Comensoli traduce in immagini lo smarrimento delle ultime generazioni: le illusioni perdute dei “no future” di Zurigo, le loro cadute negli abissi della droga. Vi è da sperare che le immagini forti, la simbologia trasparente di queste visioni scuota l’indifferenza dei molti giovani che si soffermano davanti alle opere dell’artista zurighese, interrogandosi sui loro significati.

La mostra rimarrà aperta fino al 31 agosto prossimo