mercoledì 11 luglio 2012

NATURA SELVAGGIA

Disponibili in video le lezioni magistrali tenute da Remo Bodei (Natura selvaggia), Zygmunt Bauman (Sorte individuale) e altri filosofi al festival di Modena 2011
Da oggi, 25 giugno, inizia la programmazione per la quindicina entrante di lezioni magistrali sul canale multimediale del festivalfilosofia nella sezione multimedia/web-tv del sito www.festivalfilosofia.it. Fino al 8 luglio saranno visibili in streaming, senza possibilità di download, le lezioni tenute nel festival 2011 sulla natura da Remo Bodei e Vincenzo Paglia e riproposte le lezioni di Zygmunt Bauman e Giovanni Reale (2010) e di Elena Pulcini e Wolfgang Schluchter (2009).
Già programmate anche le sei lezioni che andranno in onda a partire dal 9 luglio, tra novità dell'edizione 2011 (Felix Duque e Sergio Givone) e riproposte delle edizioni 2010 (Carlo Galli e Salvatore Veca) e 2009 (Jean-Luc Nancy e Gabriella Turnaturi). Tra due settimane sugli schermi multimediali del sito.

mercoledì 4 luglio 2012

120° - Napoli - A 120 anni dalla fondazione del PSI

Lunedì 25 Giugno si è tenuta a Napoli la celebrazione del 120° dalla fondazione del PSI. Il Convegno, organizzato dall’Istituto Gaetano Arfè, si è svolto nel salone della CGIL.  In una sala piena di sindacalisti, politici, intellettuali e giornalisti, i lavori sono stati moderati da Vincenzo Esposito (Ires Campania e Istituto Arfè). Qui di seguito riportiamo i discorso di saluta tenuto da Nino Cavaliere.

 

L'intervento introduttivo di Nino Cavaliere.


Cari compagni, grazie a tutti per la vostra presenza a questo Convegno per ricordare insieme che sono trascorsi 120 anni dalla fondazione del PSI.

   Grazie, soprattutto, al Segretario della CGIL della Campania, Franco Tavella, per la sensibilità politica con la quale ha accolto la proposta dell’Istituto Arfè, di celebrare nella sede del Sindacato ed in questo Salone, la fondazione del Partito Socialista.  

    Grazie agli autorevoli ospiti, che hanno accettato l’invito di ricordare e ragionare con noi, sulle antiche motivazioni che portarono alla costituzione del Partito dei Socialisti in Italia. Ragioni, che a distanza di oltre un secolo, appaiono oggi, attuali e, soprattutto, necessarie per comprendere la grave crisi che attraversiamo. Quanto avviene in Europa in queste settimane, dimostra quanto sia importante attrezzare una strategia socialista per uscire dalla crisi.

    Infatti, dietro al crollo delle borse, alla crisi delle Banche, dietro la speculazione selvaggia di una finanza senza controllo, c’è la sconfitta delle teorie liberiste, che sono state agitate per anni, come le salvifiche pratiche della moderna economia.

    Oggi, è evidente a tutti che l’arroganza del liberismo sfrenato degli anni passati, non è in grado di affrontare e risolvere una crisi procurata proprio dalla convinzione che il mercato ha sempre ragione e che alla lunga è vincente e garantisce a tutti libertà e benessere. Non è mai stato così,non lo sarà mai!

    Ecco perché è necessario avanzare di nuovo e con convinzione le ragioni del socialismo, le ragioni di coloro che pensano che lo sviluppo è una cosa diversa dalla semplice crescita del Prodotto Interno Lordo .

    Lo sviluppo è la crescita rmonica della economia, della società, della cultura e della democrazia.

    Non potrà mai esserci sviluppo senza una vera e convinta partecipazione democratica dei cittadini nelle scelte collettive.

    I diritti non sono e non possono essere subordinati alla economia, o peggio alle speculazioni della finanza creativa.  Nemmeno la crescita si può raggiungere a danno dei diritti, della giustizia e della coesione sociale.

    Ci sono voluti anni di pervicacie insensatezza per raggiungere i drammatici risultati di questi anni: Guerra, violenza, integralismo, fascismo, nazionalismo, arrivismo e consumismo, che hanno disegnato un modello di sviluppo, oggi in profonda crisi, che ha coinvolto e travolto tutti, trascinati in una euforia artificiale in cui i valori non erano più riconoscibili e l’individualismo era l’unica ideologia imposta quasi come una religione. 

    Non è questo il mondo per cui intere generazioni hanno lottato, non è questa l’Europa  che volevamo costruire.


    Il Professore Arfè, ci invitava, sempre, a guardare alla Europa con la stessa cultura con la quale Jean Monet ed Altiero Spinelli l’avevano pensata e costruita, quella della libertà, della giustizia sociale e della solidarietà che socialismo considera come elementi determinanti per il vivere comune in una società complessa come quella europea. Recuperare questa identità, non è ne difficile, ne complesso, basterebbe, solo non perdere la memoria e considerare che la crescita comune, lo sviluppo è una strada da percorrere accettando tutte le difficoltà che si presentano, sapendo che sono necessarie ed utili per raggiungere gli obbiettivi comuni. Se si vuole uno sviluppo che garantisca tutti, non ci sono scorciatoie ne deviazioni dal percorso adottato. L’Europa che costruiva il percorso dell’euro non si nascondeva le difficoltà, ma prevedeva anche le possibili soluzioni: il pensiero corre al Libro Bianco di Delors del Gennaio del 1993. Dove il Presidente della Commissione Europea, dopo gli accordi di Maastrcht,dimostrava che la Crescita e la Competitività si coniugavano con l’occupazione, l’innovazione e la formazione.

    Il socialismo europeo, erede, con Francois Hollande, di quella ipotesi di costruzione della Europa democratica che tutti vorremmo, ripropone, amche in Italia temi politici di riflessione che dentro l’anniversario del Partito Socialista, trovano piena accoglienza. Rimettere al centro del dibattito sociale e politico del paese il socialismo, non è un esercizio nostalgico, ne tanto meno un compito per gli storici, è una esigenza politica, che serve a sconfiggere l’antipolitica.

    Nel ringraziarvi, ancora, e salutarvi, non posso fare ameno di commemorare in questa sede, tra le migliaia di vittime che la storia del socialismo ricorda, quelli che sono caduti nel modo più insensato e feroce, oggetto di un odio senza fine, e troppo presto dimenticati.

    I 69 giovani massacrati ad Utoya nel Luglio dell’anno scorso, non debbono essere dimenticati, come se fossero le vittime di una follia metropolitana, uccise da un pazzo o colpite da un destino sfavorevole e feroce.

    Non è così, sono le vittime di un fascismo senza fine, che rinasce ognu volta sempre più spietato, dalle ceneri della sconfitta in cui sistematicamente lo releghiamo. Uccidere dei giovani, solo perché partecipavano ad un raduno del Partito Socialdemocratico norvegese, è stata una infamia degna dei peggiori assassini nazisti. Uccidere dei giovani, vuol dire uccidere il futuro, impedire che crescano voci nuove di critica e proposta.

    Abbiamo voluto ricordare quei ragazzi caduti, perché li sentiamo come nostri caduti. La nostra speranza, il nostro impegno di sempre è dedicato proprio a loro, ai giovani, che dovranno prendere, con coraggio, nelle loro mani, le ragioni del socialismo. Per trasformarle, con decisione convinta, in politica quotidiana, in azioni di pace, democrazia e libertà.   

    In questo nostro incontro, in cui ricordiamo i 120 anni dalla fondazione del PSI, proprio in memoria di quei giovani caduti ad Utoya, va ribadito con forza che socialismo ed antifascismo, sono le due facce della stessa medaglia, quella che racconta le lotte per la democrazia e la libertà che in tutti questi anni si sono ripetute senza soluzione di continuità.

    I rischi per la democrazia non finiscono mai ed il pericolo è costante e negli ultimi tempi i nemici della libertà si sono fatti ancora più aggressivi.

    C’è bisogno di socialismo in Europa ed in Italia, grazie a tutti voi che avete accettato di discuterne con noi e di ricordare i 120 anni della fondazione del Partito Socialista Italiano.

120° - Genova - Sinistra e socialismo europeoRicominciamo da capo?

Le analisi e le prospettive del socialismo italiano a 120 anni dalla fondazione del Partito dei lavoratori nella relazione introduttiva al convegno.

di Felice Besostri


Care compagne e cari compagni, spero che le aspettative che avete non saranno deluse.

    Scegliere di venire a Genova per partecipare a una manifestazione politica non vi rende rappresentativi dei sentimenti degli italiani verso la politica.

    Eppure siamo convinti, quelli di noi, principalmente il Gruppo di Volpedo, che hanno fortemente voluto questo incontro, che ci sia ancora una buona politica, quella che antepone gli interessi del paese e della maggioranza dei suoi cittadini, che non sono i privilegiati (in Italia ci sono troppe differenze fra una minoranza di possidenti e la grande massa dei cittadini, quando il 10% delle famiglie possiede il 50% della ricchezza nazionale)

    Ho rivolto il mio saluto a compagni e compagne, ma devo confessare che spero non siano la maggioranza dei presenti. Vorrei fossero venuti cittadini, persone che possano diventarlo o che, stanche di esserlo e dopo una militanza politica  attiva, si siano ritirate nel privato o nel volontariato, ma periodicamente riscoprono la voglia di fare, di esserci.


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    Se confrontiamo i voti in assoluto presi dall'Ulivo e alleati nel 1996 e quelli presi oggi, anche quando si vince, mancano all'appello milioni di elettori, cioè linfa democratica di persone in carne e ossa e non percentuali che, tra l'altro, diventano maggioranza grazie a leggi elettorali premiali volute da tutti in omaggio al mito della governabilità, come se la stessa dipendesse dai numeri e non dalle buone politiche dal consenso quotidiano dei cittadini verso le istituzioni democratiche e dalla loro partecipazione informata e consapevole. Abbiamo sotto gli occhi lo sfacelo provocato dai premi di maggioranza senza una soglia minima di voti e/o seggi, che non può essere inferiore al 40%.

    La coalizione guidata da Berlusconi premiata con una maggioranza senza confronti nella storia repubblicana nella Camera e nel Senato non esiste più così come la coalizione che nel 2008 le si era contrapposta, velleitaria e inconcludente.

    Un solo risultato è stato raggiunto: quello di eliminare dalle istituzioni la sinistra, tutta la sinistra, non solo dal parlamento nazionale, ma anche dalla delegazione italiana nel Parlamento Europeo, senza distinzioni tra riformatori e antagonisti, socialisti e comunisti, ambientalisti, liberaldemocratici e social-cristiani.

    Questo fatto non ha analogie in nessun paese europeo, nella UE e fuori dalla UE. Queste leggi elettorali, nazionali ed europee, non sono frutto del caso ma di una scelta condivisa anche nel centro-sinistra per assicurarsi un monopolio di rappresentanza all'opposizione, come consolazione per non riuscire a proporre una maggioranza alternativa al paese, cioè in grado di conquistare almeno il 50% + 1 degli elettori votanti in una misura non inferiore al 70% degli aventi diritto per dare certezza di solidità alle istituzioni democratiche. 

    Non voglio privilegiare gli aspetti istituzionali e normativi a causa della mia deformazione professionale di costituzionalista, ma sono convinto che la legge elettorale vigente, oltre che essere affetta da incostituzionalità, sia responsabile del degrado politico e morale del paese. Se ci fosse stata una legge appena appena più decente del porcellum, senza abnormi premi di maggioranza, senza liste bloccate immodificabili e con un nome – e solo quello- di un capo sulla scheda elettorale- e a prescindere da quello che ha vinto, saremmo tornati a votare: solo un parlamento di nominati e non di eletti poteva subire l'umiliazione di un governo tecnico  e la perdita di centralità del suo ruolo come disegnato dalla Costituzione, oltre che rappresentare nelle fasi convulse della frantumazione delle coalizione e dei partiti un punto basso di moralità con cambi di casacca e trasmigrazioni da uno schieramento all'altro, anche dietro compenso. Se uno non risponde con la sua faccia e nemmeno il nome sulla scheda al proprio elettorato, ma a un capo o padrone che l'ha nominato, può sempre cercarsene un altro che lo garantisca più del vecchio. Eppure, le riforme elettorali spagnol-polacco-greche con innesti ungheresi che si stanno studiando hanno ancora in comune l'obiettivo di assicurare la vittoria a partiti di maggioranza relativa, cioè di minoranza assoluta, di impedire che sorgano nuovi soggetti politici concorrenziali che possano sicurare un fisiologico ricambio, con il risultato di trovarsi alla fine, per indignazione popolare, a dover fare i conti con movimenti che li vogliono semplicemente spazzare via


    La fine della Seconda repubblica politica e gli scandali della Margherita e della Lega Nord - quelli emersi, poiché non è detto che siano gli unici - nella gestione dei fondi pubblici hanno dato il colpo di grazia alla credibilità della politica e dei partiti e fiato a chi appare estraneo al sistema.

    Ora c'è Grillo, come nel 1994 fu Berlusconi, un imprenditore non un politico, che si è guadagnato la fama internazionale di Capo di Governo più comico. Speriamo di non dover sperimentare sulla nostra pelle anche la carriera inversa, cioè di un comico che si trasformi in imprenditore di politica.

    Senza una legge sui partiti politici, come esiste in quasi tutti i paesi europei, che prescriva statuti democratici e controlli giurisdizionali sulla loro osservanza e contabili pubblici sulle finanze, incompatibilità e limitazione dei mandati, gli alternativi innovatori saranno l'ennesimo imbroglio. A sinistra, dobbiamo riconoscere al Compagno Spini la coerenza di avere sollevato il problema e di aver proposto soluzioni da quasi 20 anni. Non nascondiamoci dietro al dito della mancanza di una legge, se un partito vuol dotarsi di uno statuto democratico, può farlo da subito soltanto usando il codice civile.


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La sinistra, se vuol diventare credibile come alternativa, deve abbandonare  l'atteggiamento benaltrista, cioè che i problemi, così come percepiti dalla gente comune sono in realtà ben altri, l'atteggiamento benaltrista tra l'altro si è sposato con l'oltrismo, cioè quello che ritieneva che, dopo la caduta del muro di Berlino simbolo del sistema imperiale sovietico, non si poneva il problema di fare i conti con la socialdemocrazia, quanto piuttosto le necessità di andare "oltre". Così è stato per il PDS, che è passato dal comunismo al liberalismo (ma ora pare in via di guarigione nei suoi settori maggioritari e vicini al sindacato) senza fare neppure una pausa socialdemocratica.

    L'importante era sottolineare la particolarità italiana, del Paese con il più forte patito comunista fuori dall'URSS e dalla Cina popolare, in realtà una mezza verità: basta dimenticare l'India e per l'Europa il Partito Comunista di Germania dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Quella sinistra italiana è stata oggetto di studio di politologi anglosassoni e di visite di delegazioni, specialmente della socialdemocrazia tedesca in pellegrinaggio a Bologna e in Emilia Romagna piuttosto che in Toscana o a Siena.

    Socio-politologicamente, il PCI ben poteva essere un partito socialdemocratico per il suo insediamento sindacale nel movimento cooperativo, nell'associazionismo sportivo, del tempo libero e di categorie, comprese quelle imprenditoriali nel commercio, nell'artigianato e nell'agricoltura. Un suo merito, ma in parte, grande o piccolo merito del PSI: l'Italia è stato l'unico paese d'Europa in cui il partito socialista, neutralista e non aderente all'Internazionale Socialista, non consentì l'isolamento del PCI all'opposizione, ma ne condivise le sorti nel sindacato CGIL, nella Lega delle Cooperative, nell'Arci, nell'UISP, nel movimento contadino e del lavoro autonomo democratico,  ma soprattutto negli enti locali e, a partire dalla loro istituzione nel 1970 , nei governi regionali. Le relazioni strette, più che in qualsivoglia altro paese europeo, tra comunisti e socialisti (quando mi iscrissi al PSI nel 1961 l'espressione social-comunista era di uso corrente e più frequente di social-democratico o liberal-socialista) non sono state sfruttate per anticipare un giudizio sul comunismo sovietico, senza doverne aspettare l'implosione nel finale degli anni '80. Se non a partire dai moti operai di Berlino Est del 1953, almeno dalla Rivoluzione ungherese o più anodinamente dai Fatti d'Ungheria del 1956, senza dover aspettare la Primavera di Praga del 1968 o i moti di Danzica con l'esplosione di Solidarnosč del 1980, si poteva cominciare a capire, come ha detto Vendola, che il sogno comunista di liberazione  era diventato un incubo.

    Una sinistra europea attenta al dissenso dell'Est, almeno in misura pari all'opposizione spagnola, portoghese o greca o delle vittime delle repressioni dei regimi militar-dittatoriali in America Latina, avrebbe sostenuto altri attori del cambiamento in quei paesi,  che erano convinti - si illudevano?- che vi fosse un altro modo di perseguire gli ideali di progresso e di uguaglianza, ideali che la sinistra, a Ovest o a Est, A Nord o a Sud, non può smarrire a pena di rendersi irriconoscibile.


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    In Polonia, nella DDR, in Ungheria e in Cecoslovacchia le esigenze di riforme e le richieste di libertà e democrazia erano anche di settori di sinistra, presenti persino all'interno dei partiti comunisti al potere.

    La storia è stata diversa e secondo alcuni (tra cui il nostro Prodi): le macerie del muro di Berlino non avrebbero seppellito soltanto il Realexistierendes Sozialismus (il socialismo realmente esistente, come amava definirsi il comunismo sovietico) ma anche la più occidentale Socialdemocrazia. L'estrema debolezza della sinistra in Italia è stata confermata dai disastrosi risultati elettorali del 2008 e 2009 (leggermente migliori gli ultimi, e con elementi potenziali di novità, come Sinistra e Libertà. Una realizzazione in scala ridotta e non riuscita degli auspici di Edgar Morin di una sinistra che ricomponga tutti i suoi filoni ideali storici, socialista, comunista e libertario con l'innesto dell'ambientalismo per far fronte alle sfide della globalizzazione e del capitalismo finanziario e dell'ideologia liberista e dell'individualismo esasperato). 

    Parlando di filoni ideali, si scantona dalle politiche concretamente perseguite e c'e' il rischio di finire in una notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. Ma l'intenzione è importante: cioè se si persegue una scomposizione della sinistra per una sua ricomposizione unitaria sono benvenuti i confronti anche aspri tra i filoni ideali perché c'è voglia di contaminazione. Se, invece, si vogliono regolare i conti fino in fondo a sinistra e perciò i termini "socialdemocratico" e "comunista", come temeva Alain Touraine, non sono definizioni ideologiche, ma insulti reciproci, è meglio che ciascuno stia con i suoi simili: al massimo si sperimentino convivenze forzate in alleanze puramente elettorali e difensive.

    Di passaggio, vorrei notare che Turati, nel suo celebre discorso al Congresso di Livorno del 1921, indicò tra le sue fonti di ispirazione il Manifesto dei Comunisti di Karl Marx e che ebbe sempre una forte idiosincrasia per il termine riformista, tanto che volle battezzare il suo partito, dopo la scissione del PSI, PARTITO SOCIALISTA UNITARIO e non Partito Socialista Riformista, men che mai partito riformista.

    La sinistra dovrebbe avere più cautela nell'usare le parole e chiedersi se è proprio un caso che i partiti riformisti (Reform Party negli USA, in Canada o Singapore) o partiti del progresso (Fremskridtspartiet danese, Fremskrittspartiet norvegese o Partito del Progresso serbo) siano partiti conservatori, liberali nel miglior caso e populisti di destra nel peggiore.

    Non sarebbe il caso, a sinistra o nel centro sinistra, di lasciar cadere gli aggettivi/sostantivi RIFORMISTA E PROGRESSISTA? Proprio per la loro ambiguità intrinseca, che fece redigere allo scrittore ceco Jaroslav Hašek, noto autore de romanzo Il buon soldato Sc'vèik, "IL MANIFESTO DEL PARTITO DEL PROGRESSO MODERATO NEI LIMITI DELLA LEGGE" . Hašek, era un umorista, perciò non poteva immaginare in vertici del ridicolo che possono raggiungere i politici, umoristi involontari.  Sia chiaro come si legge all'inizio dei Film con i titoli di testa, che ogni riferimento a partiti operanti in Italia o a loro accordi elettorali o post-elettorali è non voluto e puramente casuale

    Torniamo alla nostra sinistra che, alleata al PD, con questa legge elettorale, potrebbe tornare in Parlamento e addirittura al Governo o che, aggregandosi con maggior fortuna dell'Arcobaleno, eleggere deputati e forse anche senatori. Questa nostra sinistra ha tuttavia la tentazione di rifugiarsi nel passato o di cercare i propri paradisi all'estero, per ovviare al fatto di essere la più debole d'Europa.  Allora sorgono impetuose, seconda delle proprie origini, le nostalgie per il vecchio PCI sopra il 30% o per il PSI di Craxi sopra il 14%, senza mai poterli sommare per avere una percentuale analoga a quella di  un partito socialdemocratico al potere.

    La debolezza della sinistra italiana non è quindi un fatto contingente, recente e transitorio ma storico e strutturale. La sinistra in Italia non si è mai proposta per il governo del paese con un suo programma e suoi uomini o donne alla guida dell'esecutivo per poterlo realizzare, cioè non è mai stata in grado di rappresentare una alternativa di governo, come è la regola quando la sinistra è rappresentata da un partito socialista, socialdemocratico o laburista. Questa - e non altra – è la non risolta questione socialista della sinistra italiana, che non è la questione di collocazione dei socialisti, che individualmente se la cavano bene, come dimostra la loro diaspora dopo lo scioglimento formale del PSI, favorita da ogni parte e non contrastata da un progetto forte di ripresa politica socialista, che andasse oltre la sopravvivenza testimoniale di un ristretto, sempre più ristretto gruppo di dirigenti. 

    L'eccezione all'assenza di una proposta di governo della sinistra è stata il 1948, ma non credo che ci si facessero illusioni e, con i modelli che aveva in testa, non era nemmeno auspicabile una vittoria vista con il senno di poi.  Nel 1996, con l'Ulivo, la sinistra non si era candidata al governo del Paese con un proprio uomo: Prodi era uno di quelli convinti – e non si è risparmiato nel dirlo con la massima onestà e trasparenza- che la fine del comunismo a oriente doveva rappresentare la fine della socialdemocrazia a occidente. Non importa che nel 1999, su 15 paesi della allora UE, 13 primi ministri erano di partiti socialisti, conteggiando anche i governi di coalizione. Erano vittorie elettorali in tempi di grande espansione economica, di un progresso che pareva senza fine, in cui la socialdemocrazia poteva fare una politica di spesa anche grazie a risorse tratte dagli squilibri nelle ragioni di scambio con i paesi meno sviluppati.


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Quello era un tempo, in cui i grandi partiti  socialisti di grandi Paesi cercavano terze vie e nuovi centri, in sintonia con i progetti di Ulivo Mondiale e con la fiducia illimitata nella guida del presidente Clinton, in carica dal 1993 al 2001: Clinton che sarebbe stato il responsabile della deregulation dei mercati e dei prodotti finanziari, fatto in cui la crisi che stiamo attraversando affonda le sue radici e, solo in seconda battuta, nei debiti sovrani di alcuni stati della zona euro[Per cui fa specie che tifosi dell'Ulivo nazionale e mondiale, siano allora e oggi tra i più feroci critici del PSE, perché non fa quello che neppure il loro idolo Monti non fa: appoggiare Syriza a corpo morto].. Questi debiti sono il pretesto per le politiche di austerità, non per la loro entità, sia in valori assoluti che in percentuale del PIL (basta pensare a quelli USA  e del Giappone) ma per la mancanza di una politica economica comune agli stati con la stessa moneta e di strutture di controllo della massa monetaria tipica di uno stato sovrano con una Banca centrale prestatore di ultima istanza e al servizio di un governo politico dell'Unione, democraticamente legittimato , e non delle visioni di un singolo stato, la Germania Federale, sia pure con la situazione economica apparentemente migliore ed inattaccabile.

    Neppure nel 2008 la sinistra si è proposta per il governo del Paese, il PD e il suo leader di allora non si definivano di sinistra e anzi la scelta di coalizione con l'IDV è stata funzionale a escludere scientemente dal Parlamento ogni formazione di sinistra. La sinistra deve ricostituirsi come area politica, ma non ci si arriva parlando genericamente di una sinistra senza aggettivi e incapace di scelte comuni e nemmeno di confrontarsi con se stessa per verificare vicinanze, distanze e la loro insuperabilità. La sinistra deve anche rispondere a un popolo stremato e smarrito, giustamente preoccupato per il presente e ancor più per il futuro dei propri figli e nipoti.


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Quindi: mettere al centro il lavoro, ma non come slogan o mantra, e soprattutto chiarendo che il lavoro che vogliamo difendere è ogni tipo di lavoro, e non solo quello subordinato o precario, ma anche autonomo, libero professionale e imprenditoriale, quando sia rispettoso delle regole, del fisco, dei contratti, della sicurezza e della dignità dei dipendenti e dei collaboratori. La tutela del lavoro, cioè di chi vive esclusivamente o prevalentemente del proprio lavoro, si estende naturalmente a chi il lavoro non l'ha ancora, l'ha perso o si prepara a chiederlo studiando o formandosi professionalmente. La centralità del lavoro resta un concetto astratto e di nessuna attrattiva se non si risponde sul terreno concreto dei lavoratori, dei loro diritti e delle garanzie in caso di perdita. Da questo punto di vista, il problema degli esodati, un neologismo che non fa giustizia del loro dramma, resta paradigmatico, perché non c'è soluzione a parole. Come ha ben detto Lanfranco Turci del Network per il Socialismo: "le politiche concrete dovrebbero avere alle spalle una teoria aggiornata che connetta logicamente, non solo verbalmente, una nuova condizione del lavoro con l'uscita dalla crisi ,un nuovo modello di sviluppo e nuovi rapporti di potere fra le classi, e fra lo stato e il mercato. tutto questo richiederebbe un partito politico o meglio [aggiungo io] partiti politici che non dico abbiano già le risposte pronte, ma riconoscano che questi sono i problemi."

    Non a caso, abbiamo individuato, nell'organizzare questa manifestazione, come interlocutrici principali, ancorché non esclusive, le Fondazioni del Mondo sindacale e socialista, che nei loro nomi Buozzi, Di Vittorio, Trentin e Nenni, ricordano i compagni che hanno speso una vita per coloro che altrimenti sarebbero stati lasciati indietro da chi controlla l'economia ed il potere.

    Sono poi previsti interventi  a nome di un associazione intitolata a Eugenio Colorni e del Direttore dell'Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, che nei suoi 115 anni di vita ha avuto tra i suoi direttori Ignazio Silone, socialista cristiano senza tessera di partito che ha vissuto sulla propria pelle le divisioni e le rivalità della sinistra, anche dopo la sua morte. Nel pomeriggio proseguiamo i lavori nel Circolo Matteotti. 

    Buozzi, Di Vittorio, Trentin, Nenni, Colorni e Silone: ecco già sei nomi per il nostro Pantheon laico, cui aggiungere altri italiani o stranieri secondo le nostre più varie inclinazioni.

    La sinistra, nelle sue varie articolazioni di partiti e movimenti - che occorrerebbe censire, adottando criteri di classificazione [non basta avere ceti popolari o segmenti di lavoratori nel proprio elettorato, per essere di sinistra (Lega Nord docet) o dichiararsi disponibili ad alleanze senza confini a sinistra, l'ideologia populista per esempio non è di sinistra e sull'IDV il giudizio deve essere sospeso] - è pronta alla sfida per un'alternativa di governo? Ne dubito, e proprio per la deformazione elettoralistica che ne determina comportamenti.



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    Così è stato nel 2001, quando si è consegnato il Senato a Berlusconi per salvare con le liste civetta il posto a 14 parlamentari uscenti, neppure raggiungendo l'obiettivo, perché la maggioranza parlamentare in Italia può violare impunemente le leggi elettorali. Nel 2008 abbiamo un altro esempio di sindrome elettorale del PD, che per non avere problemi sulla sua sinistra si allea con la sola IDV, che di problemi gliene procurerà tantissimi e tuttora è una spina nel fianco come opposizione, pur avendo contribuito con i suoi Scilipoti e compagnia a prolungare l'agonia del berlusconismo. 


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Spero di sbagliarmi, ma c'è il rischio che si voti col porcellum, la legge elettorale preferita dai capi partito o dai Capi popolo, Grillo compreso, perché da un potere assoluto nelle formazioni delle liste. E, come insegnava lord Acton, il potere assoluto corrompe assolutamente.

    Chi, come noi, resta fedele alla Costituzione repubblicana e alla forma di governo parlamentare in essa iscritta si trova tra Scilla (sopportare il governo tecnico) e Cariddi (rivotare con il porcellum per la terza volta e affondare definitivamente la democrazia). La sinistra non si incontra, ma si scontra per interposta persona ancora una volta, lasciandosi abbagliare dai risultati elettorali, come se fossero riproducibili a comando.

    I tifosi del socialismo europeo, tra i quali mi iscrivo, ma non in Curva Sud o tra le bande di Hooligans, indicano a conforto loro la ripresa socialista dopo anni di risultati rovinosi, dalle regionali e senatoriali francesi ai Länder tedeschi, dalle amministrative britanniche alle legislative slovacche, dalla Danimarca alla doppietta francese di legislative e presidenziali oltre altre vittorie parziali in piccoli paesi (la più eclatante e bella politicamente in Islanda) ma facendo finta di dimenticare le che perdite di Spagna e Portogallo, in termini di popolazione governata, non sono compensate da Slovacchia e Danimarca e rimuovendo la tragedia del Pasok, il Partito del Presidente dell'Internazionale Socialista. Sul fronte opposto si trova una sinistra, che trova i modelli prima nella LINKE Tedesca( con le elezioni federali del 2009  ben sopra la soglia di accesso del 5%), poi nel Fronte della Sinistra di Mélenchon alle presidenziali ( vicino al 15%), quando poi Syriza supera il 17 % il 6 maggio e il 27% il 17 giugno ormai pensa che sia finita la quaresima. Ci si dimentica  di pesare la sinistra greca in rapporto al totale della sinistra europea, mentre non si fa lo steso errore col PIL greco e quello complessivo della UE. Bastassero le percentuali, allora , il vero esempio da seguire è l'Islanda.

  Non importa che la sinistra nel suo complesso sia indebolita come nel 2009 in Germania e ora in Grecia, dove Syriza non recupera tutte le perdite di Pasok, Sinistra Democratica e KKE. Crediamo che la situazione sia grave e che la sinistra, se ha interesse a contrastare l'attacco al modello sociale europeo, il più civile del pianeta, e alla stessa democrazia, debba trovare una risposta credibile, praticabile in tempi brevi e medi alla crisi. Non bisogna ripetere l'errore denunciato da Tony Judt della crisi che ha preceduto la Seconda Guerra mondiale, liquidata da socialdemocratici e comunisti come una dimostrazione delle contraddizioni insanabili del capitalismo: in un certo, come a dire: "son affari loro"! Da quella crisi si uscì grazie a politiche keynesiane, ora vietate in Italia con norma costituzionale, l'art. 81 recentemente novellato, ma soprattutto con il conflitto bellico. Criticate senza riserve  le modifiche costituzionali degli artt. 81 e 119 non dobbiamo mitizzare i deficit di bilancio, perché non è la stessa cosa un deficit per investimenti ed un deficit per costi della macchina amministrativa o per spese clientelari se non frutto di pratiche corruttive , oltre che superflue come gli aerei da combattimento di ultima generazione. Non lasciamoci ingannare dal fatto che, come dice Simone, ora il mostro è mite e, perlomeno nei paesi euro-atlantici, non ci sono da temere repressioni con l'uso della forza. Siamo in una situazione con molti punti di contatto con quelle precedenti lo scoppio delle guerre mondiali del secolo scorso, per la profondità delle crisi politiche ed economiche. Se il Consiglio europeo di fine giugno non trova una soluzione alternativa alle ricette Merkel, la crisi dell'euro e della stessa costruzione europea sono dietro l'angolo e ci sono aree nella stessa Europa (I Balcani e tutto il Sud Est europeo e la regione caucasica) da cui possono partire gravi tensioni, come anche se dovesse finire l'amicizia franco-tedesca e in un  contesto mediterraneo in piena ebollizione dalla Siria all'Egitto, dalla Libia alla Tunisia, oltre che il sempiterno conflitto israelo-palestinese, con le sue appendici libanesi e con medie potenze come Turchia e Iran alla ricerca idi un ruolo regionale.

    In questa crisi non basta denunciare, forse anche a ragione, la debolezza strutturale dell'euro, ma l'opinione pubblica ha bisogno di sapere se deve augurarsi un ritorno alla lira o un salvataggi anche in zona Cesarini dell'Euro. Il pericolo maggiore per la democrazia è un'ulteriore compressione della sovranità nazionale? O invece è il passaggio a un assetto federale, con un governo responsabile di fronte ad un parlamento  e i governi nazionali costituenti una seconda camera tipo Bundesrat tedesco,  il salvataggio della democrazia - e contestualmente  un'uscita in prospettiva dalla crisi ?- Tuttavia, i tempi di un nuovo assetto europeo non sono compatibili con una risposta alla crisi che viaggia alla velocita di una lepre mentre la risposta istituzionale ha la lentezza di una tartaruga. Poiché la lepre è partita prima, non possiamo nemmeno applicare il paradosso di Zenone. Questa è una crisi capitalista, ma non la crisi del capitalismo. Come ogni crisi è una sfida e un'opportunità di misurarsi come individui e come collettività, in primis come collettività politiche che, in una democrazia rappresentativa, sono o dovrebbero essere i partiti. Ma non questi partiti, formazioni autoreferenziali e di mutuo soccorso per i rispettivi gruppi dirigenti o comunque appartenenti a quella nomenklatura percepita come una casta, in parte perché lo è, ma anche per un preciso piano di delegittimare la politica e i cittadini che la fanno, per imporre tecnici, tecnocrati, imprenditori e burocrati, veicolando l'idea che i problemi sono troppo complessi per essere risolti con urgenza rispettando le procedure democratiche.



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    I partiti di una volta sono andati e non torneranno più, non c'è posto per partiti vissuti come una chiesa o addirittura come prefigurazione della società futura: la società futura se assomigliasse ai partiti del nostro tempo farebbe orrore. Detto questo, ci dovrebbero comunque essere, in una democrazia rappresentativa, corpi intermedi che, pur con le loro visoni alternative, fossero portatori di interessi generali e non di categorie o corporazioni ovvero che si approprino  di valori come la difesa dell'ambiente o dei beni comuni. Partiti senza bramini, ai quali non sia più possibile contrapporre la società civile, perché non è civile una società che disprezza la politica.


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Il Gruppo di Volpedo intende fare la sua parte e ritiene che la crisi dei partiti non si superi abolendoli, ma riformandoli e dando loro una dimensione europea.

    Da sempre chiediamo la trasformazione del PSE in un partito europeo transnazionale, come approdo naturale e principale della sinistra italiana: l'invito è rivolto principalmente al PD e a SEL, ma anche a settori della sinistra che hanno individuato nella vittoria di  Hollande un punto di forza, come Rossana Rossanda nella lettera ai denigratori anticipati pubblicata dal Manifesto o il BOBO di Staino che dice "«L'unica via è una mobilitazione collettiva per un partito laico, socialista, onesto nella sua proposta politica. Hollande in Francia è riuscito a vincere con idee chiare su come avrebbe affrontato la crisi.» 

    Dovremo dare risposte semplici e chiare su chi siamo e cosa vogliamo fare. Sono ateo, ma il socialismo cristiano di  Leonhard Ragaz mi attira: con gli uomini di fede non ci sono incompatibilità per un socialista, al contrario nessuna affinità coi fanatici integralisti di ogni religione, coi clericali  e con i rappresentanti degli interessi  materiali del Vaticano.

    Dobbiamo accogliere l'esortazione evangelica a parlare chiaro: Sì, sì, No, no. 

    Il potere si conquista e si gestisce con metodi democratici? Sì, sì.

    Cose ovvie e scontate a parole, ma non quando con eccessiva precipitazione si critica la SPD, che nel delineare politiche alternative alla Merkel, non può prescindere dagli stati d'animo dei cittadini tedeschi, per quanto siano frutto di pregiudizi atavici e di intossicazione mediatica. La Repubblica Federale di Germania non è la DDR, cui l'URSS potesse ordinare di aiutare i suoi alleati e vassalli, indipendentemente dall'opinione dei cittadini tedesco orientali.

    Socialismo e libertà sono indissolubili? Sì. Da ciò discende un'intransigenza nelle difese dei diritti individuali e collettivi, contro ogni ragion di Stato compresa la difesa della rivoluzione, che è sempre stata difesa dei gruppi al potere, che hanno espropriato le ragioni della rivoluzione. Per noi è intollerabile lo slogan "Socialismo o Morte",  nel senso che se non abbiamo il socialismo, meglio la morte: Socialismo è VITA. Mentre è ancora di tragica attualità l'alternativa " socialismo o barbarie?"

    Ci deve essere un ruolo e un controllo pubblico nell'economia? Sì, con diverse forme pubbliche, non necessariamente statali: cogestione, autogestione, proprietà cooperativa divisa e indivisa, comunità di utenti. Il Titolo III della Parte Prima della Costituzione ( art. da 41 a 47) ne delinea i tratti essenziali. Proprio perché favorevoli ad una presenza pubblica nell'economia dobbiamo essere i più intransigenti accusatori di sperperi, inefficienze, clientelismi e corruzioni nel settore pubblico o del parastato( Finmeccanica e Enav, tanto per fare pochi esempi).  La proprietà pubblica, e nemmeno quella privata pensiamo ad AUTOSTRADE S.p.a- sono di per sé una garanzia basti pensare allo stato disastroso della messicana PEMEX (che ha il monopolio dell'estrazione), rispetto al successo della sua omologa brasiliana PETROBRAS, per non parlare della norvegese STATOIL.

    Ci sono beni da sottrarre al mercato quando si tratta di assicurare la salute, l'accesso all'istruzione e alla conoscenza (un bene che più viene distribuito e diffuso più cresce) e ai beni comuni e necessari? Sì.

    In un'economia di mercato, tutto si può vendere e comprare, compresi gli affetti, i sentimenti, la dignità e il rispetto deli altri? No, perché anche quando vi è un'economia di mercato i socialisti sono contro una società di mercato.

    I socialisti sono europeisti e federalisti? , avendo come modelli Colorni, Silone, Spinelli e Rossi e il loro posto è nel PSE trasformato con organi federali e rispettosi delle quote di genere e generazionali, andrebbe introdotta una quota di minori di 30 anni, chiamiamole quote verdi accanto alle quote di genere.

    La dimensione europea richiede una sinistra che faccia parte di partiti politici europei sovranazionali con una effettiva affinità politica, ideale, valoriale, progettuale e programmatica.

    In questo contesto è il campo del socialismo europeo - come la maggior forza progressista esistente -  quello cui partecipare a pieno titolo e comunque cui guardare prioritariamente. Dobbiamo essere una sinistra che contribuisca a mettere in relazione tra loro tutte le forze di sinistra e ambientaliste, che condividano un progetto di Europa soggetto di pace e cooperazione in un mondo multipolare con un grado di sviluppo equilibrato e sostenibile. Non solo i partiti della sinistra , ma anche i sindacati si devono dotare di un coordinamento sovranazionale, almeno europeo: non si può discutere di Fiat senza i lavoratori polacchi e serbi, argentini o marocchini e senza i sindacati della Chrysler.

    Una particolare attenzione va prestata alla sinistra Latino americana, anzi indio-latina americana, per ragioni storiche e culturali (emigrazioni dai due lati dell'Atlantico, esilio politico) sono due continenti, l'Europa e L'America del Sud, destinate a incontrarsi, come poeticamente ha detto Chico Buarque de Hollanda: il Tago e il Rio delle Amazzoni si incontrarono in un giorno di aprile [ a.d. 1500,data della scoperta del Brasile di Pedro Álvares Cabral].  Un incontro con le capacità di governo  della sinistra di quel continente senza il peso di caudillos, libertadores e fratelli mitra.

    Decidere dove stare precede come starci e dove si voglia andare. Sul punto, con tutte le doverose critiche alle politiche dei singoli partiti, che ne fanno parte, la nostra scelta per il Socialismo Europeo, che comprende, ma non si esaurisce nel PSE, è chiara e netta. Tutti si tranquillizzino nemmeno noi vogliamo morire socialdemocratici, ma vivere a lungo sotto il binomio socialismo e democrazia. Sotto attacco ci sono propri gli istituti dello stato sociale, le conquiste di civiltà del movimento politico dei lavoratori e delle battaglie sindacali. Le sconfitte dei partiti maggiormente rappresentativi della sinistra si son sempre tradotti in un arretramento delle condizioni di vita delle classi popolari, anche quando abbiano transitoriamente favorito partiti più radicali.



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    La proposta che formuliamo, di scegliere come interlocutore principale anche se non esclusivo il PSE, è un invito alla composita, articolata  area socialista, al PD, a SEL e a settori della Federazione della Sinistra: ha come suo orizzonte naturale le elezioni europee del 2014, quando i partiti del PSE si presenteranno con un programma comune europeo e un candidato unico alla presidenza della Commissione, scelto con primarie dei partiti del PSE, ma non necessariamente membro di uno dei suoi partiti nazionali. Se quello è l'orizzonte, le elezioni nazionali che precederanno quelle europee non potranno andare in direzione opposta e  in qualsiasi alleanza o coalizione dovrà esserci chiaramente visibile un'area di sinistra, socialista, democratica, laica, pluralista, ambientalista ed europeista, punto di riferimento di un movimento sindacale tendenzialmente unitario e portatrice di una cultura politica autonoma e critica del sistema economico e sociale esistente. 

    S'impone una nuova e più ambiziosa edizione degli Stati Generali della Sinistra, che raccolga partiti, movimenti, esperienze associative e di mobilitazione civica, chiusa a ogni forma di violenza, senza primi della classe per meriti storici od organizzativi o per godere di finanziamenti pubblici o privati di "finanzieri democratici". Nella ricerca di rappresentare al meglio una società ricca senza mistica di nuovismo e apoliticismo, ci sono esperienze con cui confrontarsi, come la lista arancione di Milano o esperienze concrete di lavoro nella società, come Libera di don Ciotti.

    Ci si può obiettare "chi siete voi per formulare queste richieste?". A questa domanda, potrei rispondere come Carlo Rosselli ai suoi critici:

     "Siamo pochi? Cresceremo. Siamo fuori dal tempo? Sapremo aspettare. Verrà il nostro turno"

    Potrei rispondere così per noi, per me, per molti di quelli che sono qui, ma non per la grande maggioranza che sta fuori, che non può aspettare che la sinistra regoli i suoi conti, ritrovi i suoi equilibri, si ricompatti, perché vorrebbe risposte in tempi brevi altrimenti oscillerà tra i poli della disperazione e dell'esasperazione, della rassegnazione e della rivolta estemporanea: in altre parole torneranno ad essere massa indistinta.

    Non era questo il messaggio 120 anni fa della fondazione del Partito dei Lavoratori.