giovedì 27 novembre 2008

Di cavallier, gran dame ed eroi... E di come mio padre finì in galera

L'autore di queste pagine, Cella-Dezza (1913-2004), è stato un grande uomo di teatro, cinema e televisione, amico di Brecht, Silone, Strehler e Maria Callas, fu tra i fondatori della televisione svizzera, promosse la diffusione di Brecht in Italia e di Pirandello in Germania. Testimone d'eccezione del "secolo breve", ma anche animatore delle grandi battaglie politiche e culturali condotte da questa testata contro il fascismo, lo stalinismo e la xenofobia, ha ricostruito in "Nonna Adele", romanzo familiare e iper-verista, la vita dell'emigrazione italiana a Zurigo nel passaggio epocale dalla guerra al fascismo e dal fascismo alla guerra.


di Ettore Cella-Dezza



A questo punto noi bambini volemmo sapere chi fossero questi “contadini rossi”. E nonna ci spiegò che venivano chiamati così i coltivatori poveri dell’Emilia che tanti anni prima avevano iniziato a mettere in piedi le cooperative. Da Reggio li guidava Camillo Prampolini, uno dei fondatori, insieme a Filippo Turati, del Partito Socialista Italiano. Pronunciò queste ultime parole sottovoce. Noi bambini ascoltavamo con la massima attenzione i segreti di nonna Adele. Ma intanto continuava a non sembrarci giusto che avessero mandato tanti uomini per arrestarne due. Gli antichi paladini agivano tutt’altrimenti. Arrivava uno, lanciava la sfida a un altro, e poi iniziavano a lottare: “da solo a solo”.

«Ma oggi le cose non vanno più così. Non ci si può fare niente. Quando i poliziotti hanno un mandato di arresto scritto, devono eseguire l’ordine. Loro spesso neanche sanno perché arrestano qualcuno. E magari non vedono quali drammi o tragedie possano provocare».

«Sì, ma come va avanti la storia?». Questo era ciò che ci interessava e non i ragionamenti di nonna, che lei oggi inspiegabilmente inseriva di tanto in tanto nel tessuto del suo raccontare sospirando.

«Purtroppo, la storia andò avanti. E queste cose me le ha poi raccontate Enrico. Sicché dunque, lo accompagnarono in una cella. Tirarono il catenaccio. Aprirono la porta. E con grande sorpresa, seduto vicino ad altri, per lui sconosciuti, vide suo fratello Ernesto. Lo guardò intensamente come a dirgli: “Non tradirti!”.

Ma Ernesto fu così sorpreso e così felice di vedere Enrico che balzò in piedi e corse ad abbracciare il fratello, pensando che fosse venuto a liberarlo».

«Come Orlando e Ruggiero nel palazzo incantato!» esclamammo entusiasti.

«Sì, una volta!» sospirò di nuovo la nonna. «Le guardie li separarono immediatamente. Chiesero ad Enrico se conoscesse quell’uomo e a quel punto lui non poté non rispondere che si trattava di suo fratello».

«Non doveva! Doveva fare finta di niente! Così lo lasciavano lì e poi loro due potevano scappare!» dissi.

La nonna allora mi spiegò che mio papà non era capace di mentire. Poi aggiunse solennemente: «Non si deve mai, e dico mai, rinnegare un fratello!». Ci fu una pausa di silenzio. «Senza contare che i poliziotti se ne sarebbero accorti comunque, confrontando i nomi sui rispettivi documenti. Come del resto fecero. Così Enrico fu trasportato in un’altra “custodia”. Ed Ernesto, dopo aver per qualche istante creduto d’essere già a piede libero, fu risospinto dentro. Scoppiò in lacrime. Non conosceva ancora il motivo del suo arresto».

«Nonna, senti, anche le celle per le “custodie” sono nelle segrete, sotto terra, come quelle del castello di Scandiano?».

«Non credo. Probabilmente sono piccole stanze munite di finestrelle con le sbarre di ferro. Quando si passa davanti alla caserma di polizia, queste finestre con le sbarre si possono vedere ai lati dell’edificio».

Naturalmente chiedemmo che alla prossima passeggiata si andasse dalle parti della caserma di polizia a vedere le sbarre sulle finestre delle celle per la “custodia”. Ma la nonna non volle impegnarsi: «Non è per niente bello andare a vedere queste cose. Mi mettono una grande tristezza. Dietro quelle finestre ci stanno persone che tremano per il loro futuro, per il loro destino. Magari sono innocenti. E se colpevoli è ancora più triste».

Io pensavo che mio papà comunque doveva combattere: per dimostrare a tutto il mondo la propria innocenza! Lo pensavo e lo dissi.

«Ma che cosa poteva provare? Se non sapeva nemmeno di che cosa l’accusavano. E che avessero arrestato anche il fratello Ernesto, lo confondeva ancor di più».

«Ma perché non ha tentato almeno di scappare. Di evadere come l’invisibile Ruggiero?» domandò Laura.

Talvolta, le domande e i paragoni epici innervosivano nonna Adele. Ma lei non perdeva mai la pazienza con noi: «Quel che vi ho raccontato dei prodi Orlando e Ruggiero è successo tantissimi anni fa. E in quei tempi tutto era completamente diverso. La gente credeva ancora ai maghi e ai miracoli. Che erano più forti della realtà. Oggi, invece, sono più forti i fatti. Mentre che, ai miracoli e ai maghi, agli Astolfi ed Ippogrifi, non ci crede più nessuno. C’è persino gente che non va più neppure in chiesa... E questo perché? Perché la gente oggi non crede più in niente».

«Sì, ma lo zio Enrico e lo zio Ernesto, insomma, nonna, che cosa avevano fatto?!».

«Niente! Non avevano fatto proprio niente...».

«Be’ non puoi mica mettere uno in “custodia” se non ha fatto niente!».

«E come no. Si può, si può. Lo hanno pur fatto con i miei figli. Sulla base di un mero sospetto».

«Quale sospetto? Non li avevano denunciati?».

«No, non li aveva denunciati nessuno. Si erano, per così dire, auto-denunciati».

«Auto-denunciati!? Che stupidi! Dovevano negare tutto e non auto-denunciarsi».

«Erano sospettati di essere coinvolti in una azione degli anarchici con tanto di bombe».

«Ma mio papà non è mica anarchico, lui è socialista!» protestai io.

«Hai ragione, Ettorino. Loro due non sono per niente anarchici, ma avevano dei conoscenti che lo erano stati. E un brutto giorno uno di questi conoscenti, che abitava alla Motorenstrasse, all’angolo della Josefstrasse dove c’è il negozio, chiese a tuo padre se poteva prestargli uno dei due carretti pel mercato posteggiati nel cortile. Gli serviva per “un trasporto di casse”, disse, che doveva fare in serata. Enrico glielo prestò a condizione che il carro, dopo l’uso, venisse rimesso al suo posto nel cortile. E così fu. Tuo padre, però, si scordò di chiedere che cosa c’era in quelle scatole. Pensava che qualcuno traslocasse e dovesse trasportare dei mobili, o robe così. Senonché, il carretto recava ai lati la tabella della ditta con tanto di nome e indirizzo dei fratelli Dezza. Gli anarchici non fecero caso a quelle scritte. O forse le avevano vedute, ma ritennero che sarebbero potute servire da camuffamento. Intanto, però, la polizia, che li teneva sotto controllo, aveva preso nota degli indirizzi riportati sulle insegne del carretto.

Gli anarchici andarono probabilmente verso il consolato tedesco, dove presero in consegna alcune casse. Dovevano contrabbandarle in Italia. Il tutto avvenne nottetempo. Nel buio pesto. E senza dire una sola parola».

«Ma che cosa c’era di tanto segreto in quelle casse?».

«Probabilmente c’erano delle bombe. Bombe che dovevano servire a fare la rivoluzione in Italia. Ma la polizia zurighese già da tempo aveva annusato puzza di bruciato e teneva d’occhio l’intera colonia. Anche tuo padre, anche tuo zio, e tutti gli emigranti che si occupavano di politica. Oltrettutto Enrico non lo nascondeva neanche, aveva dichiarato “guerra alla guerra”, collaborava all’Avvenire del Lavoratore. E quindi era uno dei controllati speciali. Uccide più la penna che la spada».

«Sì, va bene, ma poi cos’hanno fatto gli anarchici con le bombe?». Questo c’interessava molto di più.

«Gli anarchici ben presto s’accorsero di essere seguiti e quindi tentarono di distanziare la polizia per mettere al sicuro il loro carico esplosivo. Era tutta gente che conosceva il quartiere italiano come le proprie tasche. Si dileguarono tra i vicoli, imboccarono passaggi arcani, si addentrarono in un reticolo di stradine e raggiunsero il cortile dei fratelli Dezza. Quando infine rimisero il carro al suo posto le casse erano scomparse».

«E dov’erano finite le bombe?».

«Questo è rimasto un grande mistero. Si disse che furono gettate nel fiume Limmat, in un’ansa dove l’acqua è particolarmente profonda. Altri però raccontavano d’averle vedute in un deposito di generi alimentari. Forse per via dell’insegna sul carretto. Ed è proprio per questa ragione che Ernesto ed Enrico vennero arrestati. Ma tutti e due riuscirono a dimostrare la loro innocenza. Perché loro due non sapevano nulla di quel trasporto. Anzi, nel momento in cui esso avvenne, si trovavano in luoghi completamente diversi. Perciò la polizia liberò Ernesto e, dopo qualche giorno, anche Enrico. Ernesto d’altro canto poteva fornire poche informazioni su argomenti che esulassero dallo sport. E ben presto lo capì anche la polizia».

La nonna aggiunse che questa liberazione avvenuta in così poco tempo fu veramente una fortuna, perché mia mamma non sapeva più come fare con il bancone al mercato e i due negozi da tirare avanti. «La mattina badava a un negozio, il pomeriggio all’altro. Il martedì e il venerdì Zavatti le aveva dato man forte a trasportare il bancone del mercato. Ma non poteva farlo mica tutte le settimane. Sicché dunque appena tornò Ernesto non fu più necessario approfittare della bontà del suo vicino. Enrico rimase ancora un po’ in “custodia”. Fu sottoposto a lunghi interrogatori prima di poter essere rilasciato. Ma tenete ben presente quel che vi dico, ragazzi: i fratelli Dezza oltre ad aver dato in prestito il carretto, con tanto d’insegna della ditta, non c’entravano niente né con gli anarchici né con le loro bombe».

«E gli anarchici? Loro non li hanno arrestati?».

«Alcuni sì. Altri no. E poi sappiate che qualche tempo dopo una parte delle casse fu ritrovata. Ma lì dentro c’erano talmente tante bombe che si sarebbe potuto far saltare per aria l’intero quartiere. Al che si ebbe il famoso “processo delle bombe”, il Bombenprozess, che fu celebrato a Zurigo. Alcuni subirono pene severe, andarono in prigione o furono estradati. Altri fuggirono all’estero. Uno di loro, si chiamava Cavadini, si tolse la vita».

«I paladini non si tolgono mai la vita!».

«Ma Cavadini, invece, se la tolse. Aveva paura, così dissero i giornali, di tradire i suoi compagni. E si ammazzò durante la “custodia”. Ma ricordatevelo sempre: con tutta questa tragedia i fratelli Dezza non c’entravano affatto. Sicché dunque nessuno può affermare, caro Ettorino, che i Dezza siano mai stati in “prigione”. Perché questo non è affatto vero. E se qualcuno lo asserisce, voi gli direte la verità esattamente come ve l’ho raccontata io adesso. Arrestati sì e interrogati anche, ma poi li hanno dovuti rilasciare. E tua mamma Erminia, anche questo devi ricordarti di aggiungere, Ettorino, ha lavorato per tre uomini. Si alzava alle quattro, correva allo scalo merci per le compere, nei giorni di mercato poi andava all’Augustinerplatz, e dopo il mercato, alle undici, correva in negozio alla Badenerstrasse fino alle sette di sera, quindi chiudeva quello e correva all’altro, alla Josefstrasse che teneva aperto fino a tarda notte. Capito? E poi dovete dire ancora che alla notizia dell’arresto tutti facevano la spesa da Erminia, in segno di solidarietà coi fratelli Dezza. Oh, certo, c’erano anche di quelli che temevano di compromettersi a farsi vedere in negozio. Per Erminia fu un periodo davvero terribile. Ma lei rimase ferma e coraggiosa, come si confà a una vera mamma italiana. Ecco cos’è l’eroismo!».

Noi rimanemmo francamente un po’ delusi dall’esito della storia. Nonna Adele di solito ci raccontava di gesta eroiche molto, ma molto diverse. Guerrieri saraceni e paladini cristiani, gran maghi ed abilissime incantatrici, rocche inespugnabili e castelli fatati, spade possenti e orribili mostri, mantelli invisibili e cavalli lunari. Che roba era mai questa? A vendere polli e pollastre non ci voleva mica l’eroismo. Dicemmo alla nonna che questa storia ci sembrava non altrettanto bella quanto le altre.

Lei si schermì: «Ma quella che vi ho raccontato non è affatto una storia come le altre. È una storia dell’esperienza di vita. Questa è una storia vera. Di quelle che ci regala l’esistenza. Non bella tanto quanto i poemi epico-cavallereschi, ma certo è di quelle che più a fondo ci segnano e c’insegnano».

(4/4 - Fine)

martedì 18 novembre 2008

Di cavallier, gran dame ed eroi... E di come mio padre finì in galera

Dopo le mirabolanti avventure di Orlando, Astolfo e del suo Ippogrifo Nonna Adele racconta ai bimbi, che pendono dalle sue labbra, la storia di una misteriosa visita della polizia. Con arresto. Correvano gli ultimi mesi della prima guerra mondiale. Un'epoca lontana nella quale, se eri pacifista, ti scambiavano per un anarchico. E, se venivi preso per anarchico, potevi finire in galera come terrorista...


- TERZA PARTE
di Ettore Cella-Dezza


«Adesso basta, zitti e ascoltate!» tagliò corto la nonna. «Stavano davanti alla porta. Suonavano. L’uscio di notte rimaneva sempre chiuso e loro suonarono una, due, tre volte».
«Perché tre volte?».
«Ma perché tutti ancora dormivano e nessuno li udiva. L’unico sveglio, il panettiere in cantina, non poteva sentire il campanello. Troppo distante. La prima a svegliarsi fu tua mamma, Ettorino. Chiamò il papà: “Enrico, suonano. Possibile che uno degli inquilini abbia dimenticato la chiave e non riesca a entrare? Enrico!! Ma che ore saranno?”. Guardò verso la sveglia, erano le sei di mattina. Enrico si levò dal letto, infilò i calzoni, andò alla porta, aprì, non c’era nessuno. Suonarono ancora. “Dev’essere qualcuno da fuori” pensò Enrico. E scese verso l’uscio. Attraverso la finestra delle scale vide delle ombre, delle teste, più di una. “Ma chi sarà mai?!” si chiese un po’ inquieto. Fuori era ancora così buio che non si riusciva a distinguere nessuno. Aprì. Aveva appena girato la chiave nella toppa, che quelli, da fuori, abbassarono subito la maniglia, spalancarono la porta. Enrico, dapprima sospinto nell’androne, venne poi riportato su fin nell’appartamento».
«Ma allora erano davvero dei briganti...».
«Era una rapina, nonna?».
«Che arma doveva scegliere lo zio Enrico?».
«La spada!».
«No, un revolver!».
«Ma no, non era una rapina. Quelli della polizia segreta fanno sempre così... così nessuno scappa».
«E perché lo zio Enrico voleva scappare?».
«Ma no, non ho mica detto che intendesse scappare. Non sapeva nemmeno che volessero questi uomini... Non gli sarebbe mai venuto in mente di scappare».
«Sì, ma perché non si è difeso come un cavaliere?».
«Perché non ha impugnato una sciabola?».
«Perché non si è battuto come un cavaliere errante?».
«Oh, bella! Avete mai veduto lo zio Enrico con una sciabola? Lui che non ha mai voluto arruolarsi, che ha sempre rifiutato le armi e la guerra perché non si deve mai uccidere nessuno. Enrico non è né un cavaliere né un brigante, lui è un “pacifista”».
«Ma, nonna, se i poliziotti volevano aggredirlo?».
«Aggredirlo? Non volevano per niente aggredirlo. Quello è il loro modo di entrare nelle case. E quando furono dentro l’appartamento gli domandarono se il suo nome rispondeva a Dezza Enrico. Lui annuì. E allora gli consegnarono un foglio col mandato d’arresto a suo nome. Gli ingiunsero di vestirsi e poi di seguirli. Tua madre li sentiva confabulare, senza capire che cosa veramente volessero. E tu, Ettorino, ti eri svegliato e messo a piangere».
«Perché piangevo, nonna?».
«Avevi fame. Tua madre allora si mise addosso la copertina e ti prese in braccio. Enrico ebbe modo vestendosi di spiegarle quel che stava accadendo. Le sussurrò in italiano che sicuramente si trattava di un errore e che presto sarebbe stato chiarito tutto. Non riusciva a immaginarsi di che cosa potessero accursarlo. Non erano stati neppure in grado di dirgli l’accusa. Poi si lasciò portar via dagli agenti senz’opporre alcuna resistenza».
«Secondo me, doveva saltare dalla finestra della cucina su uno dei due carri e poi in cortile: se scappava dal cortile non lo trovavano più. A parte il fatto che la scala del panettiere è molto buia e poteva benissimo nascondersi lì finché la polizia segreta non andava via!».
«Ma la volete capire una buona volta che questa non è una storia di guardie e ladri. Lo zio Enrico non aveva fatto niente. Tuo padre, vostro zio, non aveva certo bisogno di scappare!» esclamò nonna Adele un po’ spazientita. «Sicché dunque lo portarono via. Allora tua mamma Erminia si vestì, si mise un cappotto, infagottò ben bene anche te, Ettorino, e seguì quegli uomini. Non si fidava. Lasciando la casa vide che gli agenti con Enrico stavano imboccando la Langstrasse. Non voleva che la notassero. Rimase discosta, cambiando repentinamente lato della strada, da una parte all’altra. Eh, Ettorino, tua madre è sempre stata una donna molto, ma molto coraggiosa».
«Ha liberato il papà?» domandai io.
«E in che modo? Cosa avrebbe potuto fare contro un gruppo di agenti della polizia segreta? No, lei voleva solo sapere dove lo avrebbero condotto, il tuo papà. E si sentì un po’ meglio quando le fu chiaro che non lo conducevano alla stazione ferroviaria, perché avevano preso il sottopassaggio. Era già capitato che degli stranieri fossero stati trascinati in stazione e spediti al confine, dall’oggi al domani. Sicché dunque lei, adesso, seguì quegli uomini lungo la Militärstrasse. La percorsero fino alle caserme della polizia cantonale, dov’è la prigione».
«Ma allora lo zio Enrico è stato in galera?».
«Primo, non si chiama galera ma “custodia”. La galera è tutta un’altra cosa: perché in galera viene rinchiuso chi è stato condannato, chi è colpevole. Il giudice ha le prove della sua colpevolezza e lo manda in galera. In “custodia” ci va invece chi deve essere interrogato. Comunque, Ettorino, tua madre raggiunge l’edificio proprio nell’attimo in cui papà viene portato alla “custodia” da quegli agenti. Lei rimane lì, con te in braccio, davanti all’inferriata. Spera che tutto si risolva al più presto. Non ha un’idea del tempo necessario a risolvere una cosa di questo genere. Attende quasi mezz’ora davanti ai bastioni della Kaserne. Si sente un grande disagio, col bambino in braccio. Cercando di non farsi notare. Ma il tempo passa e non succede niente. Così decide di prendere il tram e andare ad avvisare lo zio Ernesto. Ma alla Badenerstrasse è ancora tutto sprangato: chiuso il negozio, chiusa la porta di casa, chiuso l’ingresso posteriore. In quel momento sopraggiunge però Cesarina Zavatti. Ti ricordi quella signora che abitava al piano di sopra. È agitatissima. Scende le scale a precipizio e apre la porta. Ha gli occhi gonfi di pianto e racconta di come quella mattina era venuta la polizia segreta e aveva bussato alla porta molto presto. Lei e il marito, svegliati di soprassalto, avevano sbirciato fuori dalla finestra. E subito le avevano chiesto di Dezza: “Un momento, dormirà. Adesso lo chiamo” gli aveva risposto lei. Ma quelli non capivano l’italiano e insistevano. Allora lei aggiunse semplicemente: “Nur ein Moment, bitte”. Chiuse la finestra. Suo marito le disse che a quell’ora poteva trattarsi soltanto dei “criminali”. Intendeva gli agenti della Kriminalpolizei. Andarono a svegliare Ernesto che sulle prime non capiva. Ma poi s’alzò e fece entrare gli uomini. Immaginatevi voi lo spavento e lo sconvolgimento di quando gli mostrarono il mandato d’arresto a suo nome... Né la signora Zavatti né suo marito riuscivano a capire perché arrestassero un Dezza. I fratelli Dezza erano sempre stati buoni con tutti. Era impossibile che avessero fatto qualcosa di male a qualcuno. Non erano gente di cose storte, loro. “Forse si tratta di politica” sentenziò infine il vicino di casa. Ernesto venne condotto via dopo aver consegnato le chiavi del negozio e di casa alla vicina.
“Eccole qui!” disse quella. “Avrei voluto portarle ad Enrico in mattinata. Ma visto che è venuta lei...”.
“Hanno arrestato anche Enrico” commentò Erminia.
“Non è possibile! Ma perché?!”.
“Solo Dio lo sa! Non ci hanno detto niente. E oggi è anche giorno di mercato. Cosa farò con la nostra bancarella all’Augustinerplatz?!”.
Erminia era disperata. Ma trattenne le lacrime. Ferma e coraggiosa come sempre: “Non possiamo deludere i nostri clienti” disse. “Adesso devo andare al mercato”.
“Ma, signora, come farà a trainare il carro?”.
“Eh, se solo non avessi da badare al piccolo...”.
“Lo dia a me, lo metto nel lettino con il mio Armando. Già si conoscono. Vada tranquilla. Gli bado io finché non torna. In questi casi bisogna aiutarsi, fra italiani. Eppoi, i fratelli Dezza, e il suo Enrico in particolare mi hanno sempre dato una mano. Mi facevano credito quando mio marito era in guerra. Mica l’ho dimenticato che ero sola, con due bambini, in cerca di lavoro, e non avevamo più niente da mangiare. Aspetti qui, ché Zavatti adesso si alza e prima di andare a lavorare le dà una mano con il carro fino al mercato”.
Così fu. Zavatti s’alzò. Erminia intanto andò a caricare la roba sul carro nel cortile, dispose ordinatamente tutte le merci che Enrico ed Ernesto avevano predisposto la sera prima pel mercato. Zavatti la raggiunse e si pose al traino. Erminia spingendo gli dava man forte come meglio poteva. Zavatti faceva il muratore. Era un uomo forte. Per lui non fu nessuna fatica tirare quel carro fino all’Augustinergasse. Per strada Erminia gli raccontò d’aver seguito gli uomini fino alla caserma. Gli disse che secondo lei si trattava di un equivoco e che presto tutto si sarebbe chiarito. Anch’Ernesto l’avevano certamente portato alla caserma e un po’ la consolava il fatto che i due fratelli avrebbero potuto darsi reciproco sostegno anche in quel frangente. Zavatti continuava a chiederle che cosa mai potesse essere successo. Ma lei non aveva una risposta. Forse poteva davvero esserci un motivo politico. Enrico è socialista. E questo a molti andava di storto. Ma non ha mai fatto niente di male. Anzi, ha sempre dato una mano a tutti e aveva aiutato anche la sua famiglia quando lui fu richiamato al servizio militare nella guerra del 1915-18.
Giunti che furono all’Augustinerplatz Zavatti diede una mano a montare il bancone. Erminia vi dispose il pollame fresco e le altre merci. Era una giornata di mercato come tante. Ma per tua mamma, Ettorino, fu terribile. Anche se molti amici vennero al bancone dei Dezza per farle coraggio. Volevano sapere qualcosa di più sui due arresti. Ma Erminia non era in grado di fornire spiegazioni. Tutti pensarono che, giunti a quel punto, il modo migliore per aiutare i due fratelli socialisti ingiustamente arrestati fosse quello di comperargli del pollame. Ed esaurire le scorte di polli e pollastre era la parola d’ordine che Erminia ripeté mentalmente a se stessa durante quell’intera mattinata da dimenticare. Eh, Ettorino, la tua mamma è proprio una donna saggia, dotata di buon senso: non per nulla proviene dai contadini rossi dell’Emilia...».


- (3/4 - Continua)



lunedì 17 novembre 2008

CENTRO ESTERO

L'Avvenire dei lavoratori / Quaderno doppio 2008.1-2
 Esce mercoledì prossimo il nuovo quaderno trimestale dell'ADL. Si tratta di un quaderno doppio, di 200 pagine, particolarmente denso e ricco di materiali storici, riflessioni politiche e testi letterari.

Il nuovo quaderno dell'ADL "su carta" propone all'attenzione delle lettrici e dei lettori un'ampia sezione storiografica, dedicata alla tematica del "Centro estero" con un saggio di Stefano Merli che ricostruisce l'attività di rifondazione intellettuale e morale del socialismo italiano svolta da Ignazio Silone quando egli dal 1941 al 1944 accettò di assumere la guida del Centro estero, trasferitosi a Zurigo dopo l'occupazione nazista della Francia.

Le trascrizioni dei due interventi di Filippo Turati al Congresso di Livorno offrono alcuni spunti di riflessione aggiuntivi sulla tematica delle cicliche crisi organizzative del Psi, tematica cui è imprerniato per inciso anche l'editoriale di questo nuovo ADL.

La seconda metà del volume, riservata alla sezione "Politica, economia e cultura", è inaugurata da un intervento di Paolo Bagnoli sulla necessità di salvare l'idea stessa di "sinistra" in Italia, senza la quale la parola socialismo perde il suo senso proprio.

Segue Felice Besostri con un'appassionante discussione del saggio di Raffaele Simone "Il mondo è di destra?". Si tratta della prima parte di un saggio più ampio cui Besostri sta lavorando nell'intento di chiarificare le ragioni del socialismo italiano, nonostante l'anatema che sembra incombere nel nostro Paese sulla questione socialista.

Nelle pagine della cultura Mario Barino traccia un primo bilancio degli "Incontri letterari del Cooperativo" introducendo due preziosi testi inediti e ricordando la nascita per iniziativa di Franco Facchini e Pietro de Marchi di questa iniziativa a sostegno della lingua e della letteratura italiana fuori d'Italia.

Il primo testo pubblicato è "Per resuscitare i morti" di Laura Pariani, una delle maggiori scrittrici italiane contemporanee, che qui tratteggia in modo scanzonato e affettuoso le impressioni raccolte al Cooperativo di Zurigo dopo l'incontro letterario che l'ha vista protagonista in una memorabile serata del 2006.

Il secondo testo è "Cara Clarissa" di Silvia Ricci Lempen, protagonista di una matinée letteraria tenutasi nel maggio scorso. Romana di nascita e losannese d'adozione, Ricci Lempen ha un ragguardevole cursus honorum in lingua francese. In "Cara Clarissa - possibile inizio di un romanzo in lingua italiana" inizia magistralmente un suo percorso di riappropriazione della lingua madre.

Alcune osservazioni di carattere filosofico sono esposte quindi da Andrea Ermano a margine del confronto sul fascismo in corso all'interno del mondo cattolico, ma non solo in esso.

Suggella il volume il "Coro di deportati" di Franco Fortini, poesia apparsa per la prima volta sull'ADL del 15.4.1944.
Il Sommario
del nuovo quaderno ADL
I - Centro estero

    • Editoriale
    • Stefano Merli, Il laboratorio socialista de L'Avvenire dei Lavoratori
    • Filippo Turati, Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici
    • Filippo Turati, Una convergenza dovrà ricongiungerci tutti quanti in una azione comune

II - Politica, economia e cultura

    • Paolo Bagnoli, I socialisti e la sinistra italiana
    • Felice Besostri, Il mondo va a destra?
    • Mario Barino, I nostri "incontri" tra poeti, scrittrici e testi inediti
    • Laura Pariani, Per resuscitare i morti
    • Silvia Ricci Lempen, Cara Clarissa
    • Andrea Ermano, Il dibattito intorno al fascismo
    • Stanzetta lirica - Fanco Fortini, Coro di deportati

L'Avvenire dei lavoratori
Quaderno doppio 2008.1-2
Pagine 200, CHF 20.00, Euro 14.00
Qui sopra la copertina del nuovo quaderno dell'ADL sulla quale campeggia un'immagine di Ignazio Silone (1900-1978), che dal 1941 al 1944 diresse il Centro estero socialista.

mercoledì 12 novembre 2008

Commiato da un compagno - Sandro Rodoni -

(Biasca, 1.2.28 - Zurigo, 29.10.08)
È venuto a mancare mercoledì 29 ottobre Sandro Rodoni, figura mitica della sinistra di lingua italiana in Svizzera. Dirigente comunista, si batté negli anni Sessanta e Settanta contro la xenofobia, aiutando e assistendo schiere di emigrati. Con la moglie Lisetta aveva aperto la Libreria Italiana di Zurigo, contribuendo grandemente alla diffusione della lingua e della letteratura italiana oltre le Alpi. Il segretario della Fsis, Montana, ha fatto pervenire un messaggio di cordoglio alla famiglia, ricordando come Rodoni sia stato "per lungo tempo una bussola per chi arrivava a Zurigo". Rodoni era socio onorario della Società Cooperativa Italiana Zurigo, il cui presidente, Ermano, ha tenuto per desiderio della famiglia il discorso di commiato. Qui di seguito ne riportiamo il testo.

"1.) Non voglio nessuna cerimonia funebre né pubblica né privata. 2.) Nessuna presenza di religiosi. 3.) Pubblicazione sui giornali a cremazione avvenuta. Sandro Rodoni". Queste, caro Sandro, sono le "Disposizioni" che hai lasciato vari anni fa "in caso di decesso" su un semplice foglio a quadretti inserito in una semplice busta, scritto in calligrafia chiara e senza fronzoli, sette righe in tutto, compresa la firma autografa.

Forse sul primo punto ("Non voglio nessuna cerimonia funebre né pubblica né privata") abbiamo dovuto, caro Sandro, disobbedirti. Beninteso, questa non è una cerimonia e non possiede alcunché di cerimonioso. È il nostro stare insieme qui, fra di noi, tra persone che ti hanno conosciuto, ti hanno stimato, ti hanno voluto bene, ti hanno amato profondamente: siamo qui con tua moglie Lisetta, compagna di mille battaglie, con i vostri due figli André e Matteo, sempre presenti nei tuoi pensieri, uomini misurati, come te, dotati di grande sensibilità e intelligenza. Siamo qui con tuo fratello maggiore, Isio, che è voluto venire a salutarti, e con tuo fratello Stelio che ti ha sempre considerato un esempio di vita e che tu consideravi esempio di impegno civile nella vostra Biasca.

Biasca nell'alto Canton Ticino, il Monte di Mazzorino, l'incrocio delle tre valli, Riviera, Leventina e di Blenio, e dentro Biasca il rione "Canton Zoc": questi i nomi di luogo delle radici di Sandro Rodoni e della sua famiglia d'origine. E a Biasca, oltre a Stelio, storico municipale e vicesindaco, anche l'altro fratello, Edo Rodoni, scomparso lo scorso anno, è stato a lungo municipale. Questa tradizione familiare di impegno civile è portata oggi avanti da altri Rodoni della generazione successiva.

Tu, caro Sandro, eri "l'intellettuale di famiglia", mi ha detto Stelio, eri la persona di senno alla quale ci si poteva rivolgere per averne consiglio nelle decisioni complesse e difficili. Eravate cresciuti in una clima di grande armonia, coltivata da vostra madre all'insegna del monito: "Guai se non vi aiutaste!" e usava talvolta il congiuntivo come a dire: "Se non vi aiutaste sarebbe assurdo! Sarebbe un'onta!" La solidarietà è punto d'onore per i Rodoni non meno che la discrezione, il tatto, la misura.

Essere oggi insieme qui, al Nordheim di Zurigo, dobbiamo ammetterlo, seppure non s'intende a mo' di cerimonia, tuttavia vibra di una partecipazione emotiva che basterebbe a nutrire di contenuto umano molte e poi molte cerimonie. Perciò ci scusiamo, Sandro, se non ci è possibile accomiatarci da te senza incontrarci, in questo luogo e in quest'ora, piena di mestizia, ma solidale.

Non è mio compito tratteggiare oggi un profilo biografico di Sandro Rodoni. Non ce ne sarebbe stato il tempo. Di ciò dovranno occuparsi gli studiosi in sede di riflessione storica sulle vicende della sinistra di lingua italiana in questo Paese. Il mio compito qui e ora può soltanto consistere nel fare menzione alle passioni fondamentali e alle idee forza che hanno caratterizzato la tua esistenza, caro Sandro. Cercherò di parlarne come avresti desiderato tu, cioè nel modo più sobrio e verecondo che mi sia possibile.

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Cara Lisetta, cari André e Matteo, cari Isio e Stelio Rodoni, cari familiari in lutto, gentili astanti, noi tutti sappiamo che la politica è stata la passione fondamentale di Sandro, accanto agli affetti privati e non disgiunta da essi. Come dimostra la prima azione politica di Sandro Rodoni, che possiede un valore a ben vedere emblematico.

Anno 1942. Rodoni è un ragazzo quattordicenne. E intorno a lui, fuori dai confini di questo Paese, il mondo brucia. L'Europa è occupata dalle armate hitleriane che avanzano verso oriente. Il nazi-fascismo sembra ormai destinato a trionfare, ma in agosto la marcia su Mosca si ferma. Stalingrado. La città sul Volga subirà sei mesi di assedio nel durissimo inverno russo. Stalingrado viene messa alla fame e demolita a cannonate dalla furia nazista, giorno dopo giorno, quartiere dopo quartiere, casa per casa. Ma non cede. A guerra finita, verranno ritrovate diverse scritte di soldati russi sui muri caracollanti tra le rovine di Stalingrado: "Muoio ma non mi arrendo". Nel 1942, nel mezzo di questo incendio cosmico, Sandro chiede con urgenza una riunione di famiglia. Ordine del giorno: acquisto di una radio. Per ascoltare radio Londra, radio Mosca. Perché bisognava assolutamente "capire", "conoscere". informarsi".

All'epoca una radio era un mobile ingombrante. A Biasca ce n'erano pochissime. Una radio costava intorno ai 400 franchi, cifra che bastava a vivere due o tre mesi, in tempo di guerra! E non era nemmeno chiaro dove potevi comprarla, una radio. Ma quel ragazzino fu talmente convinto e convincente circa la necessità della radio che la famiglia Rodoni l'acquistò.

Sandro voleva "capire", "conoscere". informarsi". Capire le cose non veniva per lui prima della trasformazione politica: capire le cose è la prima trasformazione politica, capire le cose significa prenderne coscienza, non solo quindi anticipare il futuro, ma anche resistere alla tentazione di distogliere lo sguardo sul presente e avere il coraggio di ricordare e non dimenticare.

Che ciò su cui si fonda l'esperienza umana sia il coraggio è stato detto, permettetemi quest'osservazione, duemila trecento cinquanta anni fa dal filosofo per antonomasia, Aristotele: "Dalla percezione si sviluppa il ricordo", scriveva quel sommo pensatore greco: "I ricordi, molti per numero, si costituiscono come una esperienza... E come, quando in battaglia l'esercito è volto in fuga, un [combattente] si ferma, poi si ferma pure un secondo [combattente], poi un altro ancora e si giunge [di nuovo] allo schieramento", così si giunge a una esperienza. E si potrebbe qui chiosare aggiungendo che così si giunge?anche a una esistenza..

L'esperienza dunque dal ricordo, il ricordo dalla percezione, e tutte queste cose per noi necessarie nascono dal coraggio, dalla stessa sostanza manifestata in quelle scritte anonime di anonimi eroi russi sui muri di Stalingrado: "muoio ma non mi arrendo". Non solo la nostra libertà, dunque, ma anche il sapere, discende dal coraggio: di non fuggire, ma fermarsi e resistere.

Ecco, la parola "resistere" aveva per Sandro un significato emozionale profondo: configurava il sistema di valori e di ideali che egli aveva abbracciato ragazzo e sui quali aveva tenuto fermo tutta la vita con pulizia morale, senza facili ottimismi, senza illusioni, senza attese di contropartita, senz'alcun fanatismo.

Accettò negli anni Cinquanta di dirigere la Federazione comunista, fu in prima fila nella lotta contro la xenofobia negli anni Sessanta. Sandro ha dato anche, a partire dal 1961, con la fondazione della Libreria Italiana insieme alla moglie Lisetta e grazie al sostegno di Giangiacomo Feltrinelli, un crescente contributo alla diffusione della lingua e letteratura italiana oltre Gottardo. La libreria diventa un punto di riferimento per l'emigrazione italiana. Vi transitano diverse personalità del mondo dell'arte e della cultura, come Leonardo Sciascia o Mario Comensoli e molti altri. Non per caso è proprio nella Libreria dei Rodoni che Saverio Strati dà inizio a "Noi lazzaroni", celebre romanzo del 1972.

"Erano gli anni del Telegiornale, e per noi redattori ", annota Renzo Balmelli con gratitudine, "la Libreria di Sandro divenne un cenacolo, un punto di riferimento insostituibile per restare all'ascolto dei fermenti, delle novità e anche delle contraddizioni che percorrevano la cultura, la letteratura, il giornalismo e l'editoria della società italofona ed europea. Gli incontri con Sandro e la frequentazione della Libreria ebbero l'effetto vivificante di un Bildungsroman vissuto in diretta".

A Zurigo Rodoni era sbarcato diciannovenne, nel 1947, dopo avere concluso la maturità commerciale a Bellinzona. In una intervista a "Radio Uno" rilanciata ieri sera dal canale della Svizzera Italiana, Sandro stesso ricorda di esserci arrivato per imparare il tedesco: "poi le cose si sono accavallate e ci sono rimasto per sempre". Le cose si sono accavallate. Per sessant'anni. Una vita: la vita di un uomo rimasto fedele a se stesso, mi ha pregato di puntualizzare André.

Giunto a Zurigo, aveva iniziato amministrando un'attività d'importazione. E per molti anni ha poi condotto con buona amministrazione e correttezza verso i propri dipendenti le attività dell'Agenzia Viaggi. Ma un tempo ragguardevole della sua vita, Rodoni lo ha dedicato all'attività di giornalista militante. Scrisse su vari fogli d'emigrazione: "Il Lavoratore", "L'emigrazione italiana", "Agorà" e "Realtà Nuova", dove pubblicò una storia a puntate del PCI all'estero. Sandro tenne anche una rubrica della memoria sull'Avvenire dei lavoratori, una galleria ideale di uomini democratici, tra cui Ernesto Rossi e Hans Rotter.

Sotto lo pseudonimo di Ettore Spina fu a lungo corrispondente dell'Unità. Erano i tempi in cui Rodoni andava spesso a Milano e a Roma in macchina. E quando poteva si portava dietro André, ancora bambino, la cui pazienza era messa a dura prova dalle lunghissime ore d'autostrada. E pensare che, come ricorda il fratello Stelio, una volta, dalla direzione del glorioso quotidiano fondato da Antonio Gramsci proposero a Sandro di andare come corrispondente in Cina, ma lui rifiutò. Troppo lontano da Biasca! Matteo tira ancor oggi un sospiro di sollievo al pensiero dello scampato pericolo.

Su quegli anni, al "Vorwärts", l'organo del "suo" Partito del lavoro, Rodoni ha rilasciato un'intervista memorabile, entrata negli annali. Perché ci fornisce un'idea di quell'epoca, nella quale i comunisti italiani e di lingua italiana, sotto la guida di Sandro Rodoni, andarono a costituire la struttura portante della sinistra antagonista in Svizzera.

Erano anni, ricorda il figlio André, nei quali anche un bambino si accorgeva che ogni tanto c'era la macchina degli agenti a seguire lui e il papà. Erano gli anni nei quali per un emigrato italiano leggere l'Unità era di fatto vietato. Iniziavano i pedinamenti, le schedature. Prima o poi rischiavi l'espulsione. E lo stesso valeva se partecipavi a un incontro di partito. Per proteggere i suoi compagni, Rodoni allora organizzava riunioni volanti, per esempio sotto le pensiline di una stazione, dove i membri d'esecutivo di questa o quella sezione convenivano come per caso, magari con i figlioletti alla mano. La posta veniva controllata? E le telefonate? Come scoprirlo? Molto tempo dopo si sarebbe appresa la verità, dai quattordici chili di schedature dedicate al solo Rodoni, dalle tonnellate e tonnellate di carte uscite dagli scantinati dello spionaggio d'Elvezia.

Alla Militärstrasse, dove negli anni Sessanta si concentravano la sede della Cooperativa, delle Colonie Libere e della Libreria Italiana, gli agenti, come nei film d'intelligence, affittarono un intero appartamento, sembra, per tenere d'occhio chi entrava, chi usciva, chi parlava con chi.

L'impegno politico-giornalistico più notevole di Sandro fu la fondazione e la redazione dal 1960 al 1966 de "La Voce". Si aggiunsero così i viaggi bisettimanali a Ginevra, dove il periodico veniva stampato. E il responsabile organizzativo del partito per l'emigrazione, Fontani, ricorda il primo di questi viaggi: "Zurigo Ginevra con Rodoni senza una parola". Divennero grandi amici, ma all'inizio Sandro era fatto così, rimaneva "muto come un sasso", per usare le parole di André.

Se però aveva qualcosa da dire, Rodoni non taceva. Mario Barino ha appreso da Mario Comensoli l'aneddoto che segue. Nel 1962 Sandro accompagnò l'amico Comensoli a Roma in vista dell'esposizione dedicata al grande artista presso la Galleria San Luca. Al vernissage Carlo Levi aveva introdotto il pubblico della capitale alla pittura comensoliana parlando di "una grande forza onesta e operosa che è coerenza con se stessi, acquisto di personalità, fedeltà a una cultura operaia, coscienza morale, coraggio". Giorgio Amendola ironizzò allora sulla capacità degli "svizzeri" di comprendere questi valori popolari. Rodoni, come pochi altri impegnato nel sostegno ai lavoratori italiani pagando un prezzo alla sua attività "antielvetica", ritenne ingiusta l'osservazione di Amendola e gli chiese pacatamente ma con fermezza di ritirarla, facendo presente all'alto dirigente comunista italiano che molti "svizzeri" non meritavano per impegno e serietà irrisione alcuna. Amendola capì, e si scusò.

E dunque: fu Sandro un "comunista tutto d'un pezzo", come ha scritto Dario Robbiani in questi giorni? Da un certo punto di vista sì. Sandro fondò la Libreria per "servire la manodopera italiana emigrata". Al servizio dei lavoratori, senza populismi o demagogie, con le proprie sostanze, senza aiuti dello stato, e anzi perseguitato talvolta dallo stato per questo. Dedicò l'esistenza al servizio dei lavoratori. In questo senso sì: comunista tutto d'un pezzo. Ma per quanto ne so, non fu senza dubbi, tormenti, notti in bianco, per Budapest, per Praga.

Sento il dovere di ricordare qui che il movimento comunista è stato fatto da persone rispettabilissime come Sandro Rodoni. Ha avuto dirigenti come il comandante Ernesto Che Guevara, che Sandro conobbe in Polonia negli anni Cinquanta. È stato anche un nobel per la pace al segretario generale del Pcus Michail Gorbaciov. Milioni di donne e uomini, non sconfitti militarmente, che decisero di porre fine all'esperienza sovietica, riconoscendone apertamente gli errori e gli orrori, ma senza rinnegare i propri ideali.

Io devo ricordare questo dato storico per amor di verità, non come amico personale di Rodoni, ma proprio come socialista democratico, esponente della più antica organizzazione della sinistra italiana. Ed è in questa veste che intendo oggi tributare il mio omaggio a Sandro Rodoni, dirigente comunista, uomo democratico, per il suo coraggio civile, per la volontà laica di capire, per la fedeltà ai propri ideali.

Pertanto, dopo queste inadeguate parole di ricordo, tra pochissimi istanti, ascolteremo per desiderio della famiglia le note dell'Internazionale, in uno spirito che non divide, ma unisce.

Nel concludere, vorrei dire brevemente della vecchiaia e delle malattie che avevano attaccato diversi organi vitali, per curare i quali occorrevano medicine che miglioravano la situazione di un organo e peggioravano quella di un altro organo. E i medici stupefatti che un ottantenne resistesse così dignitosamente, con tanta lucidità e tanto a lungo all'accerchiamento dei mali.

Penso profondamente vera la testimonianza dei figli, secondo cui in quest'ultima resistenza molta energia sia venuta a Sandro dallo spirito combattivo di un matrimonio nel quale Lisetta ha sostenuto il marito senza risparmio, accudendolo, incalzandolo, discutendo, cercando di capire, senza distogliere lo sguardo, con coraggio, con un amore che non finisce oggi e che non finisce qui.

Andrea Ermano
Zurigo, 3.11.2008

lunedì 3 novembre 2008

Di cavallier, gran dame ed eroi...E di come mio padre finì in galera

 
Il narratore che qui riproproniamo è Ettore Cella-Dezza (1913-2004). Grande uomo di teatro, cinema e televisione, amico di Brecht, Silone, Strehler e Maria Callas, fu tra i fondatori della televisione svizzera, promosse la diffusione  di Brecht  in Italia e di Pirandello in Germania, ma anche collaboratore per tutta la vita dell'ADL, di cui il padre Enrico Dezza fu redattore a più riprese nella prima metà  del secolo scorso. Cella-Dezza ricostruisce nel quarto capitolo del romanzo "Nonna Adele" (che qui  riproduciamo a puntate) alcune scene di vita familiare e d'emigrazione negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. In queste pagine i bambini di famiglia "pendono dalle labbra della nonna" nella quale essi hanno scoperto doti di grande narratrice non solo per ciò che concerne le fiabe e la poesia cavalleresca, ma anche in rapporto a "storie vere". - SECONDA PARTE

di Ettore Cella-Dezza

  
Ricordo ancora il tempo in cui furoreggiava l'epos selvaggio della rocca e del castello dove il poeta Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano aveva combattuto la sua lotta di successione per ottenere giustizia. Una volta il Boiardo, volendo raggiungere i suoi nobili amici a Ferrara, onde sfuggire ai tanti nemici in loco senza che questi potessero avvedersene, fece scavare un passaggio sotterraneo congiungente la rocca al convento dei cappuccini che si trovava un bel po' fuori paese. In tal modo, così raccontava nonna Adele, il conte-poeta non poté più esser colto di sorpresa dalla famiglia avversaria che lo osteggiava con ogni mezzo. Storie traboccanti di suspense che amavamo più di ogni altra. Nonna Adele ci raccontava del Boiardo come se l'avesse conosciuto di persona.
   D'altronde era un fatto che la nonna da giovane frequentasse il caffè Boiardo sulla piazza di Scandiano insieme a sua sorella. Tutto ciò che usciva dalla sua bocca ci appariva ancor più vero della realtà:
 
Tristano e Isotta dalla bionda trezza,
Ginevra e Lancillotto del Re Brando;
ma sopra tutti il franco conte Orlando.
 
Nonna Adele non poteva non aver conosciuto personalmente Angelica, il Circasso Sacripante, Agricane, re di Tartaria. Ma poi anche Agramante, Mandricardo, figlio di Agricane, Rodomonte, re di Sarza. E Marsilio, re di Spagna. Senza dimenticar Ranaldo né il fratel d'Angelica, il feroce Argalia...
   Che lotte! Che forsennati assalti! Quante frecce fatate, assedi, cavalier cristiani e saraceni! Quanti duelli tra Orlando e il cugino Ranaldo! Gl'incantesimi, le magie, i viaggi favolosi, la straripante schiera di personaggi ed episodi! Le fonti magiche che fanno innamorare i protagonisti, o disamorare, tra ardimento guerriero, eroismi completamente fini a se stessi e nobil gentilezze...
   Nonna Adele narrava della rocca e del suo eccelso poeta, ma anche del passaggio sotterraneo e delle rime... Più tardi, quando fummo in grado di leggere, ci donò i poemi del Boiardo e dell'Ariosto,  L'Orlando innamorato e L'Orlando furioso: e allora capimmo la fonte di tanta meraviglia di "cavallier" monaci e pagani, di draghi e ippogrifi, di spade incantate e magiche illusioni... Attingeva al poema inconcluso di un grande che un altro grande volle completare.
   Un giorno, molto tempo prima, nell'apice di un racconto in cui i cavalieri disputavano circa le prigioni nelle quali volevasi rinchiudere la bella Angelica, io interruppi: «Anche mio papà, anche mio papà è stato in prigione! Anche lui è un cavaliere! Oppure è un brigante!». Mi sentivo indicibilmente fiero di questa straordinaria scoperta. La nonna, invece, rimase completamente confusa. Ricordo perfettamente il suo spavento negli occhi. Ma gli altri bambini vollero sapere, insistendo molto, perché mai lo zio Enrico, che sembrava una persona così ammodo, sarebbe stato un cavaliere se non addirittura un brigante.
   Insistemmo tutti un bel po' affinché nonna Adele ci raccontasse di queste avventure. Lei però recalcitrava. Prima cosa, voleva sapere donde avessi appreso una simile notizia. Perché, in secondo luogo, quella era una storia "molto grave", alla quale non le piaceva pensare "proprio per niente". Poi, però, udendo che io l'avevo saputo dalla vicina del piano di sopra, la nonna ci ripensò e le parve opportuno rivelarci quel che era successo veramente, affinché l'apprendessimo da una persona di famiglia, senza "sofisticazioni".
   «Mio figlio Enrico, cioè tuo padre, Ettorino, non è mai stato né brigante né cavaliere, personaggi che non ci sono più. Ma come tutti i Dezza è sempre stato una persona onesta, un galantuomo dall'animo leale. Quindi sì, quel che una volta veniva definito un "prode paladino", questo può dirsi oggi tuo padre. Però ci sono persone che per nobiltà e rettitudine, per bontà ed onestà, devono pagare un caro prezzo!».
   Tutto questo proemio ci appariva abbastanza incomprensibile ed astruso. Incalzammo la nonna affinché ci dicesse della galera.
   «Tu, Ettorino, eri molto piccolo. Abitavi con mamma e papà alla Josefstrasse, dove c'era il secondo negozio, nel quinto distretto. Ma forse non ti ricordi neanche più...».
   «Sì che me lo ricordo, invece! Lì davanti avevamo il negozio, dietro c'era il retrobottega, poi il soggiorno, la camera da letto, sempre calda perché nella cantina sotto c'era il forno del panettiere col negozio proprio accanto al nostro. E mi ricordo anche della cucina: dietro verso il cortile sulla sinistra!».
   «Sì, era proprio così!» confermò Ettorone. «Me lo ricordo anch'io benissimo, perché dalla finestra della cucina si poteva saltare sul carro pel mercato, e da lì con un altro salto arrivavi sul cortile».
   «Anzi, davanti alla finestra della cucina» riprese la nonna «i carri dovevano essere due. Io lo so bene, anche se in quel momento non mi trovavo in Svizzera, lo so perché così mi hanno raccontato».
   «Sì, sì. Noi ce ne stavamo sempre lì a giocare. E su ognuno dei due carri c'era l'insegna della ditta: Fratelli Dezza. Vini & commestibili». La più grande, Laura, che sempre sapeva tutto meglio degli altri volle aggiungere: «Sulla tabella c'erano anche gli indirizzi dei due negozi: Badenerstrasse e Josefstrasse».
   «Voi, a quanto vedo, rammentate esattamente sia la casa che i dintorni» constatò la nonna. «Ebbene, una mattina, prestissimo, era ancora notte fonda, qualcuno suonò alla porta».
   «Briganti feroci?».
   «No, non erano briganti, era la polizia segreta».
   «Che cosa significa polizia segreta?».
   «Poliziotti che per non farsi riconoscere...».
   «...si erano travestiti!».
   «No, vestivano "in borghese", portavano dei vestiti normali, senza divisa, sembravano comuni cittadini».
   «Che carogne! Ma erano o non erano poliziotti?»
 
 
  - (2/4- Contnua)