lunedì 21 dicembre 2009

DARIO ROBBIANI

DARIO ROBBIANI

NOVAZZANO 1939 - LUGANO 2009
La redazione dell'Avvenire dei lavoratori e la Società Cooperativa Italiana Zurigo nella scomparsa di Dario Robbiani esprimono il proprio profondo cordoglio alla moglie Sonya, ai figli Lara e Vito, ai nipoti Febe, Ada e Filippo.


Ciao, Dario!
 
È scomparso lunedì mattina all'Ospedale Civico di Lugano Dario Robbiani, giornalista e uomo politico ticinese famoso ben oltre i confini del suo Cantone e della Confederazione.

    Era popolarissimo presso la comunità emigrata per la trasmissione "Un'ora per voi", condotta insieme a Corrado e Mascia Cantoni.

    Si era formato alla scuola politico-giornalistica di Guglielmo Canevascini ed  Ezio Canonica, storici esponenti del socialismo di lingua italiana.

    Aveva svolto un ruolo di grande rilievo nella battaglia contro la xenofobia anti-italiana.
   Dario Robbiani aveva fondato e diretto il telegiornale svizzero "Telegiornale-Téléjournal-Tagesschau" durante tutta la sua prima fase a Zurigo. In seguito aveva fondato e diretto "Eurovisione-News" a Ginevra, "Euronews" a Lione e infine "Svizzera 4" a Berna. 

    Negli ultimi anni era notista politico e di costume presso il settimanale "Il Caffè".
    La sua carriera politico-parlamentare l'aveva condoto alla vice-presidenza del Partito Socialista Svizzero e alla presidenza della delegazione parlamentare socialista presso le Camere federali.

    Autore di diversi saggi, tra cui: "1918: il resto seguirà. Socialisti italiani in Svizzera" e "Ciao Ezio!" (biografia di Ezio Canonica scritta a quattro mani insieme a Karl Aeschbach).

    Negli ultimi anni Dario Robbiani si era molto dedicato alla memorialistica. Ta le sue pubblicazioni in quest'ambito: "Caffelatte, storie familiari e paesane di quando non c'era la televisione", "Rosso Antico, in politica è permesso sorridere" e "Cìnkali. Ci chiamavano Gastarbeiter, lavoratori ospiti, ma eravamo stranieri, anzi cìnkali".

    Di Cìnkali, che uscì presso le Edizioni ADL ed ebbe grande successo, ripubblichiamo qui il decimo capitolo "La targa della bontà".



La targa della bontà

DARIO ROBBIANI

NOVAZZANO 1939 - LUGANO 2009
Un gruppo di emigrati italiani mi ha attribuito un premio: la targa della bontà. Era il 1971. Ho riflettuto un poco prima di accettare. Sono contrario ai premi, alle medaglie, alle onorificenze e ai titoli. Non per snobismo (e chi sono? Jean-Paul Sartre, che rifiuta sdegnosamente il Nobel?) o per falsa modestia (ah, i mattacchioni che si dicono onorati e confusi, che non se l'aspettavano!) ma per principio.

    Non sono neppure uomo di principi. Della così detta morale faccio volentieri a meno, confortato da Bertrand Russell: «La moralità è una strana mescolanza di utilitarismo e di superstizione».

    Però a qualche principio mi attengo. Credo, per esempio, all'amore, alla giustizia, al coraggio, alla libertà e all'intelligenza. Combatto, prima di tutto in me stesso, l'intolleranza, la prepotenza e la supponenza. E anche la vanagloria, che di premi si nutre. Poi, l'attuale è un'epoca di patacche. Se le appuntano al petto, al collo e alla cintura anche i giovani pittorescamente rivoluzionari, e non sempre per ironica contestazione. Per restare al nostro mondo, quello dell'emigrazione: quanti premi! Associazioni e premi: la vita collettiva della comunità italiana in Svizzera soffre d'associazionismo e di premismo. Brutte malattie che spesso trasformano l'onorificenza in una citazione degli organizzatori attraverso i media.

    Ho accettato il premio perché conoscevo chi mi premiava (la Serenissima), e so che la targa è soltanto un aspetto, neppure il più importante, dell'attività di questo gruppo che riunisce italiani e svizzeri, perseguendo una maggior comprensione fra le due comunità.

    Quale cronista, presenziai al battesimo della Serenissima. Di James Schwarzenbach non si parlava ancora, ma di Albert Stocker, il profumiere che per primo inquinò la vita svizzera col mefitico spray dell'odio razziale e della presunzione nazionalista. La televisione, fedele alla sua consegna d'informare completamente e obiettivamente, diffuse un'intervista con Albert Stocker. Il presidente della Serenissima, Alberto Carrara, scrisse alla televisione: «Gli italiani sono rimasti sconcertati ascoltando lo sproloquio dell'Antistranieri. Con questo signore, però, non abbiamo nessun rancore, anzi gli siamo riconoscenti, poiché abbiamo capito che la buona volontà non basta, dobbiamo cercare i motivi degli attriti fra svizzeri e italiani, eliminarne nel limite del possibile le cause, stabilire un contatto amichevole: noi emigrati italiani dobbiamo dimostrare agli svizzeri che non apprezziamo soltanto i loro franchi, ma desideriamo la loro stima, la loro amicizia, perseguiamo un miglior concetto di fraternità e di comprensione che superi le frontiere fisiche e mentali, create da preconcetti e da carattere e concezione della vita diversi».

    La Serenissima, quale risposta agli xenofobi, fondò un gruppo di donatori di sangue: «Per dimostrare concretamente che l'ammalato non ha passaporto e il gruppo sanguigno non è determinato dalla nazionalità, che gli emigrati hanno un cuore e non sono soltanto macchine operose». Sono parole di Alberto Carrara.

    Cinquanta "avisini" (membri dell'Avis, l'associazione italiana dei volontari del sangue), membri della Serenissima, offrirono il proprio sangue all'ospedale di Baden.

    «Un gesto» disse Carrara al tiggì «che nella sua sensibilità e profondo significato richiederebbe discrezione e silenzio, ma che vogliamo segnalare all'opinione pubblica svizzera per dimostrare che gli italiani non sono soltanto accoltellatori, stupratori, chiassosi e maleducati».

    Ritrovai la Serenissima e il gruppo donatori di sangue di Baden in una notizia: Salvatore Monaco, ospedalizzato per una grave malattia, verrà rimpatriato per desiderio dei genitori. Ma ha bisogno di continue trasfusioni. Un disperato appello dall'Italia: manca il suo gruppo sanguigno. Gli avisini di Baden offrono il loro sangue, trasportato d'urgenza da una staffetta della polizia.

    L'emigrazione è piena di lacrimevoli storie. Il povero emigrato commuove. La signora per bene e i signori dal cuore d'oro si emozionano. I giornali ne ricavano titoli e notizie struggenti. Questi, però, sono episodi che vanno oltre il gusto delle lacrime e il piacere della commozione. Sono qualcosa di più di un atto di carità cristiana. Sono la testimonianza concreta della solidarietà umana.

    E per questo che ritengo la Serenissima e il gruppo Avis che le è associato autorizzati a distribuire un premio della bontà. Ma io sono abilitato a riceverlo?

    La bontà è svalutata. Essere ricchi, essere furbi, saper vivere, arrangiarsi, ecco ciò che conta. Ma essere buono? Quasi una patente di stupidità!

    Ho cercato nel dizionario la definizione di bontà. Trovo che è gentilezza, cortesia, accondiscendenza, indulgenza, mitezza e mansuetudine. E allora, siccome certi colleghi mi chiamano l'orso, talaltri il padrino, mia moglie può testimoniare gli scatti d'ira, metto i piedi sulla scrivania, ho un caratterino, per arrivare a certi scopi non mi piego e non scodinzolo: forse, merito la targa della cattiveria!

    Ma di bontà trovo due sinonimi: umanità e generosità. E il vocabolario precisa: «Qualità di chi si adopera per il bene altrui».

    Noi tutti nella vita cerchiamo d'essere felici. E un modo d'esserlo è quello di chinarsi sulle sofferenze degli altri. Io sono nato in un paese fortunato che non conosce guerre e miseria. È triste perché appunto ha disimparato a soffrire e fatica a essere felice.

    Non è vero che in Svizzera solo gli stranieri sono malinconici e disperati. La solitudine colpisce prima di tutto il popolo di signori, in tutte le sue forme, dall'alienazione all'isolazionismo, dai disturbi neurovegetativi alle manie suicide, dalla frustrazione all'alcoolismo, alla droga.

    Gli emigrati hanno portato le miserie di una società contadina, i problemi della paga incerta e non soltanto dell'auto a rate, le angosce di chi deve sbarcare il lunario e non di chi si ribella all'oppressione del benessere. Gli emigrati sanno essere felici adoperandosi per chi sta peggio.

    Adoperarsi, ma in che modo? Sono giornalista e il mio compito è semplice, anche se non sempre facile o comodo. Registro dei fatti e delle situazioni. Lascio ad altri, ai politici, sindacalisti, sociologi ed economisti, di proporre le soluzioni e di dare una risposta alle denunce.

    Dobbiamo imparare, svizzeri e italiani, a giudicare in modo nuovo l'emigrazione, evitando il pietismo e il vittimismo. Si tratta di accettare le leggi economiche e sociali che rendono irreversibili i fenomeni migratori. La società contadina scompare o è dislocata. La società industriale abbisogna di manodopera. Le frontiere non possono opporsi a questo processo socio-economico che è diventato libera circolazione dei cittadini europei e emigrazione clandestina di extracomunitari disperati.      

DARIO ROBBIANI
NOVAZZANO 1939 - LUGANO 2009

IL MIO AMICO DARIO, UN  "ROSSO ANTICO" 

"Il rosso è nella radice del mio nome", amava ripetere Dario Robbiani. E lui stesso si considerava un "rosso antico", come il titolo intriso di ironica bonomia di un suo libro che recava come sottotitolo "Socialista, ma 'na brava persona". E questo è proprio ciò che di lui più ci mancherà. di Renzo Balmelli 

Il compagno Dario Robbiani, non è piu' tra noi. Ci ha lasciati all'alba del 14 dicembre, stroncato da un male inesorabile contro il quale ha combattuto fino a quando il fisico, debilitato dalla malattia, ha avuto la forza di resistere e di lottare.

    Com'era suo costume in vita, mai invadente, sempre rispettoso delle altrui difficoltà, ha scelto di andarsene in punta di piedi, quasi scusandosi per il disturbo.

    Lo sapevamo in condizioni difficili, ma la sua scomparsa ha lasciato percossi e attoniti tutti coloro che lo conoscevano, gli amici, i colleghi, i compagni di cordata di tante inziative al servizio del prossimo.

    Al Cooperativo di Zurigo, lo storico locale della sinistra al quale Dario Robbiani era legato da un forte sentimento di adesione ideale, ora un suo ritratto, dipinto da Mario Comensoli, uno dei maggiori esponenti del realismo elvetico, di cui fu grande amico, ne tiene vivo il ricordo.

    Il binomio Robbiani-Comensoli è d'altronde emblematico del suo modo generoso di affrontare i problemi, con un occhio costantemente rivolto al bisogno di migliorare le cose.

    Nato settant'anni fa, giornalista e politico di razza, Robbiani è stato anche scrittore di vaglia. Alcuni suoi scritti di successo, storie di varia umanità attraversate a volte da un sottile filo di malinconia, vennero stampati dalla casa editrice dell'Avvenire dei Lavoratori.

    All'AdL diede un notevole impulso, favorendone il rilancio a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quando la prestigiosa testata dell'antifascismo, che usciva ancora in edizione cartacea, si schiero' a fianco dell'emigrazione e di Ezio Canonica.

    Con Canonica condivise molte battaglie politiche e sindacali, nel guidare la campagna contro le orrende iniziative xenofobe di Schwarzenbcah.

    Fu direttore fino al 1979 del Telegiornale svizzero a reti unificate (nelle edizioni in tedesco, francese e italiano), poi alla testa di Euronews, il primo TG europeo trasmesso da Lione in sei lingue.

    Bruciò le tappe anche in politica, conquistando alla prima elezione un seggio di deputato nel Parlamento di Berna e subito dopo la carica di capogruppo socialista alle Camere. Grazie alla sua capacità innata di mediare tra le parti seppe evitare l'uscita del PS dal governo federale. Il PS era deciso ad aprire la crisi dopo l'affronto subito ad opera della destra che aveva bocciato la candidata ufficiale del partito per il seggio nell'esecutivo.

    A quei tempi i rapporti tra i due schieramenti erano tesi al punto da mettere fortemente in discussione l'alleanza quadripartita fondata sul principio della collegialità e della concordanza. Robbiani avvertì il pericolo, ne soppesò le conseguenze per gli equilibri del Paese, e riuscì con molta lungimiranza a evitare una frattura dai rischi incalcolabili.

    Il suo essere politico, fondato sul senso di un leale pragmatismo, gli valse la fama di costruttore di ponti. In un avversario politico Robbiani non vedeva il nemico da abbattere, ma una persona da rispettare e da sfidare sul piano delle idee.

    Il lavoro della sua vita ha avuto come baricentro la comunicazione non intesa però come passerella per facili consensi, bensì come impegno continuo, fondato su valori veri, sulla filosofia morale di Bertrand Russell di cui era grande ammiratore e che amava citare.

    Dovendo riassumere la sua lezione, potremmo dire che Dario Robbiani è stato tante cose, ma soprattutto un socialista vero, genuino, un socialista riformista vicino a Pietro Nenni e a Willy Brandt, un socialista dotato di profonda umanità. È stato un " rosso antico", come il titolo intriso di ironica bonomia (l'ironia era la sua cifra) di una sua pubblicazione che recava come sottotitolo "socialista, ma una brava persona". E questo è proprio ciò che di lui più ci mancherà.

domenica 13 dicembre 2009

Strage piazza Fontana, Enel/Greenpeace, beni confiscati

 
Ipse dixit
 
C'era papà 
- «Era metà pomeriggio, stavo tornando a casa e mi sono fermato a far benzina. In effetti l'ho saputo da lui, dal benzinaio: "Ha sentito? Hanno messo una bomba alla Bna di Piazza Fontana". E come un lampo mi è venuto in mente che mio padre era là. Trattava lubrificanti per macchine agrico­le, quel giorno c'era il mercato. Ho girato la macchina e sono corso. Al cordone di po­lizia ho spiegato, mi hanno fatto passare. E così ho visto i primi morti. Ma lui non c'era. Neanche tra i vivi lì attorno però. A casa neppure. Ho pensato: disperso in gi­ro? In ospedale? Ma quale? Allora sono an­dato in questura, per chiedere. E ci ho tro­vato mio fratello Giorgio, arrivato lì per lo stesso motivo. Ci hanno mostrato un elen­co di nomi: niente. Stavo quasi per tirare il fiato. Finché invece un funzionario ci ha detto che "in realtà abbiamo un morto non ancora identificato". Ci ha accompa­gnato in obitorio. Hanno sollevato un len­zuolo. Sotto c'era papà».
 
- Paolo Silva, figlio di Carlo Silva, vittima della Strage di Piazza Fontana
 
 
 

VISTI DAGLI ALTRI

 

A cura di Internazionale - Prima Pagina

 

Enel chiede

risarcimento

a Greenpeace

 

La società energetica italiana Enel ha chiesto più di 1,6 milioni di euro di danni a Greenpeace per le presunte perdite dovute alle proteste organizzate dal gruppo ambientalista nel lugli scorso contro quattro centrali elettriche a carbone sparse sul territorio italiano. Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italy, ha annunciato che la sua organizzazione contesterà la richiesta di risarcimento.

Financial Times, Gran Bretagna
 
 
 

 

 

 

BENI CONFISCATI: AGENZIA E VENDITA 

NON POSSONO ANDARE INSIEME

 

"L'istituzione dell'Agenzia nazionale e la vendita dei beni confiscati non possono andare insieme". Lo dichiara il senatore del PD Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia.

    "La proposta di Maroni riprende quanto già condiviso in maniera trasversale in Commissione antimafia, con una semplice differenza: l'Agenzia deve servire a ridurre i tempi burocratici per il riuso sociale dei beni confiscati. Venderli sarebbe un regalo alle organizzazioni criminali, che potrebbero acquistarle attraverso dei prestanome. Così, infatti, oltre a favorire le mafie si indebolisce il movimento antimafia: il riuso sociale coinvolge e responsabilizza la società civile, che si organizza e costruisce nei territori legalità e sviluppo al servizio del bene comune". 

    "Se si vuole veramente sconfiggere definitivamente la mafia - continua il senatore del PD - il governo ritiri la norma sulla vendita dei beni, introduca la denuncia obbligatoria per i soggetti economici soggetti al racket delle estorsioni, preveda l'istituzione del conto dedicato per le aziende che si aggiudicano gli appalti, rafforzi il 41 bis riaprendo le carceri di Pianosa e l'Asinara e soprattutto ritiri le leggi vergogna sulla giustizia".

    "Il governo - conclude Lumia - non può prendersi i meriti degli eccellenti risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine e allo stesso tempo tagliare loro le risorse e proporre provvedimenti come quelli sul processo breve, sulle intercettazioni e sullo scudo fiscale".

lunedì 7 dicembre 2009

Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960

Riceviamo e volentieri segnaliamo

Girolamo Li Causi, "Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960". Questa opera inedita di Girolamo Li Causi, terminata nel 1974, e non più rivista dall’Autore, è una lunga riflessione critica, ed autocritica, sull’attività svolta dal PCI e dalle classi dirigenti siciliane, negli anni della ricostruzione post-bellica, dai mesi immediatamente successivi allo sbarco delle truppe anglo-americane sino alla formazione dei governi Milazzo. Un arco di tempo lungo un quindicennio, durante il quale Li Causi assolse anche l’incarico di segretario regionale del partito. Da questo suo osservatorio privilegiato emerge il ritratto vivo e spesso pungente di uomini e vicende che hanno segnato la storia passata e presente dell’Isola.  Di seguito pubblichiamo la prefazione di Oliviero Diliberto.

La Prefazione di Oliviero Diliberto

Gli anni raccontati da Girolamo Li Causi in questo straordinario libro sono quelli decisivi della Repubblica italiana, quelli che l’hanno indelebilmente segnata, ne hanno condizionato il futuro sviluppo: anni che pesano ancor oggi. Dal 1944 al 1960, accade infatti praticamente tutto. La fine della guerra e la vittoria sul nazi-fascismo; la formazione dei primi governi democratici di unità nazionale e la successiva esclusione delle sinistre da essi; l’Assemblea Costituente e la nascita della Costituzione; l’attentato a Togliatti; la sconfitta delle sinistre nel ’48 e il centrismo; l’avanzata del Pci e delle sinistre a prezzo di lotte, politiche e sociali, grandi e terribili; le conseguenti repressioni di Scelba; la legge-truffa, e poi ancora la crisi del centrismo, le prime avvisaglie del nascente centro-sinistra, e infine la formazione dei governi Milazzo alla Assemblea regionale siciliana, resa possibile da una spaccatura all’interno della Democrazia cristiana, e la conseguente estromissione temporanea di questo partito dalle leve del potere.

    In questi primi anni si coglie soprattutto la fine di una stagione di speranze aperta dalla Resistenza, la constatazione che la classe dirigente sceglie allora di non rompere decisamente con il passato, di non voltare pagina – anche e soprattutto per via del contesto internazionale, il mondo diviso in due blocchi, la guerra fredda degli anni più cupi –, in un continuiamo deteriore tra passato e presente, tra apparati dello Stato gravemente collusi con il regime fascista e riciclati, a vario titolo, in quelli della nuova Repubblica. I nemici di ieri diventano "utili" in quel momento per contrastare i nuovi nemici, i comunisti: e certo non solo in Italia. Le conseguenze di quelle scelte sciagurate, in Sicilia come nel resto del Paese, le paghiamo ancor oggi.

    Li Causi racconta tutto ciò da un’ottica particolare, ma decisiva: la Sicilia del dopoguerra. L’autore narra, da protagonista, la battaglia contro la mafia, la connessione tra Stato, malavita organizzata, economia forte, le incursioni dei servizi americani. Oggi, tutto ciò ci appare più evidente. Sono emersi documenti, testimonianze, i fatti si delineano nella loro gravità e complessità: ma in Li Causi – attore protagonista tra i più importanti del periodo, a livello siciliano e nazionale – l’analisi è sin da quegli anni di una lucidità che oggi appare straordinariamente lungimirante. Aveva già chiaro tutto. E lo diceva.

    L’autore – è quasi superfluo dirlo, ma forse non è inutile sottolinearlo in questi tempi di perdita colpevole di memoria – è stato personaggio leggendario. Incarcerato nel 1928 dopo la condanna a 20 anni di reclusione comminata dal tribunale speciale del fascismo, liberato nel ’43, è subito tra i capi della Resistenza nel Nord Italia, poi dirige il partito e le lotte per l’occupazione delle terre (e non solo) in Sicilia, è autorevole parlamentare e membro della direzione nazionale del Pci.

    Popolarissimo e amatissimo tra le masse, Li Causi è l’alfiere della lotta contro la mafia, quando in certi ambienti politici (e giornalistici) essa non si poteva neppure nominare, negandosi addirittura la sua esistenza. Li Causi accusava apertamente di connivenza con la mafia i vertici dei partiti di governo in Sicilia, ad iniziare ovviamente dalla Dc, parlava delle collusioni con Cosa Nostra: lo faceva quando pochissimi, isolatamente, osavano farlo. Le prove giudiziarie sono venute a galla solo nei processi più recenti. Ma quelle politiche erano già allora di fronte agli occhi di chi voleva vederle. Li Causi univa dunque la capacità, straordinaria, di conoscenza e di analisi, ad un eccezionale coraggio.

    Emerge a tutto tondo la figura di Li Causi comunista. Ma anche di Li Causi siciliano. Di quella Sicilia che ha dato straordinarie figure di dirigenti, nel corso dei decenni, al Pci nazionale, ma che ha visto protagonisti anche migliaia di donne e uomini meno noti o sconosciuti, militanti e dirigenti locali, politici e sindacalisti, che hanno dedicato al riscatto della propria Isola tutta la loro vita, non di rado mettendola concretamente a repentaglio e talvolta perdendola, proprio in nome e per via delle battaglie antimafia. Un nome per tutti: Pio La Torre.

    Guttuso – altro siciliano illustre – amava ripetere, con la civetteria dei siciliani colti e cosmopoliti, che anche quando dipingeva una mela, c’era dentro la Sicilia. Se la portava dietro ovunque fosse e qualunque cosa facesse. Saudade isolana, ma anche coscienza della propria identità forte, delle radici che non si recidono, di valori che urlano dentro di sé. Ed è proprio in Sicilia che Li Causi matura alcune delle sue convinzioni più profonde, ad iniziare dall’adesione senza tentennamenti, e da subito, alla svolta togliattiana del ’44, la nascita del partito nuovo, capace di unire sempre la protesta alla proposta, l’identità e le alleanze. Li Causi è sempre attento all’unità delle masse, mai velleitario, nemico giurato del massimalismo. Egli crede e si batte per un partito che aderisse pienamente ai valori e ai principi della nuova Costituzione, scegliendo di tenere uniti democrazia e socialismo.

    Li Causi fu dirigente comunista di prima grandezza. Pieno di umanità e partecipazione personale ai drammi del sottosviluppo, della povertà, dell’emarginazione sociale. In lui, nelle sue pagine, si avverte come prioritaria gli appaia la lotta contro le ingiustizie, i soprusi, le prepotenze dei potenti contro gli umili: Manzoni avrebbe detto le soperchierie. Passione politica, dunque, unita sempre alla tensione morale. Ma dal libro si chiarisce anche che nei comunisti siciliani la battaglia per la legalità e quella per il riscatto sociale non siano mai astrattamente scisse, anzi esse appaiono indissolubili tra loro: pena la sconfitta su entrambi i terreni.

    Un esempio, dunque, ancora oggi vivissimo. Queste riflessioni politiche inedite, che commentano e si incrociano con alcuni passi significativi della sua vicenda autobiografica postbellica, sono quindi utili, feconde, istruttive. Ne dobbiamo essere grati ai brillanti curatori, che allegano anche pagine particolarmente struggenti, come le lettere di Li Causi dal carcere e le testimonianze dei compagni e dei dirigenti del Pci, seguite alla sua scomparsa.

    Concludendo la lettura, mi viene spontaneo pensare (ripensare, ancora una volta) allo scioglimento di quel partito – il Pci – al quale Li Causi e intere generazioni di comunisti in Italia hanno dedicato l’intera propria vita. Anche questo straordinario libro, infatti, testimonia la grandezza e i meriti storici di quella comunità di donne e uomini che lo costituivano. Vi ho riflettuto con amarezza.

    Ma è motivo di ottimismo e di speranza pensare anche che questo libro possa esser letto, e meditato, da una generazione ancor più giovane: quella che viene dopo la mia e non ha conosciuto il Pci, per un ovvio fatto anagrafico. A questi giovani, che oggi hanno vent’anni, e nascevano quando crollava il Muro di Berlino, questo libro insegna che ciò che è stato fatto era giusto farlo e che i comunisti italiani sono stati i protagonisti della lotta per la democrazia, la legalità, l’emancipazione del popolo: in definitiva, per un’Italia migliore.

    In definitiva, questo libro ci insegna, ancora una volta, quanto sia straordinariamente vitale il vecchio principio che i filosofi ci ripetono da un migliaio di anni. Noi, oggi, riusciamo a vedere più lontano di chi ci ha preceduto non perché siamo più bravi, ma semplicemente perché siamo nani issati sulle spalle di giganti.

Girolamo Li Causi, "Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960". A cura di Davide Romano. Presentazione di Italo Tripi. Prefazione di Oliviero Diliberto, ed. La Zisa, pagg. 224, euro 9,90 (ISBN 978-88-95709-28-4)