domenica 29 maggio 2016

Recuperata la lettera sulla scoperta dell'America

 La missiva, stampata nel 1493, viene ritenuta di eccezionale pregio storico-archivistico. Ha fatto la stessa strada del suo autore, cinquecento anni dopo: dall'Europa all'America… e ritorno. 
 
(Roma, 18.5.2016 / Ansa-ADL) - Rubata a Firenze, sostituita da una copia, e poi rivenduta al mercato nero delle opere d'arte, è stata recuperata dai carabinieri dei beni culturali (Tpc) la lettera con la quale Cristoforo Colombo annunciava la scoperta del "Nuovo Mondo". 
    Il prezioso documento, hanno ricostruito gli investigatori, era stato venduto all'asta negli Usa nel 1992 e acquistato da un privato, il quale aveva poi lasciato il reperto alla Library of Congress di Washingtion, cioè alla grande istituzione bibliotecaria collegata al parlamento degli Stati Uniti, che non aveva, dunque, "comprato" la lettera di Colombo, ma ricevuta attraverso una donazione. 
    In Italia l'indagine si è aperta nel 2012, partita da una denuncia di furto della Biblioteca Nazionale di Roma. Infatti, anche nella Biblioteca romana è stata trafugata una seconda copia del volume contenente la lettera, sostituito anch'esso da una sofisticatissima riproduzione. 
    Il ritorno del prezioso documento in Italia, hanno convenuto il ministro della Cultura Dario Franceschini e l'ambasciatore Usa in Italia John R. Phillips, è "un fatto simbolico che segna l'amicizia e la totale collaborazione che c'è tra i Paesi". Ma, a ben vedere, esso evidenzia anche il ruolo del "pubblico" nel riparare alle derive criminali insite nel "mercato".

Per la coesione culturale dell’Europa

 
Nel numero di maggio dell'edizione cartacea della nostra rivista abbiamo pubblicato un dossier ("Europa sconnessa") che dà conto del seminario promosso dal Gruppo europeo di Torino tenutosi nell'ambito del Prix Italia il 17 settembre 2015. Di seguito riportiamo il testo integrale del documento conclusivo del seminario stesso.
 
Il Gruppo europeo di Torino, costituito, su iniziativa di Infocivica nel settembre 2009 da alcuni accademici specialisti nel campo della comunicazione sociale di una decina di paesi europei, ha svolto i suoi lavori basandosi su rapporti tematici, settoriali e nazionali, e su dibattiti con i propri membri svoltisi in occasione di sei seminari a Torino nell'ambito del Prix Italia e un seminario a Lisbona. In base agli studi alle discussioni di questi ultimi sei anni,  ai quattro rapporti di base e al rapporto di sintesi finale  presentato e discusso lo scorso settembre a Torino, e tenendo conto delle proposte illustrate in Italia dall'Associazione Infocivica, nonché di quelle, in Portogallo, del Gruppo di ricerche e documentazione dell'Università Nova di Lisbona, e in Spagna del Gruppo di ricerche di Teledetodos, è pervenuto alle seguenti conclusioni e proposte operative, concordate con i propri membri.
    Il tradizionale modello duale europeo, che ha costituito un esempio di equilibrio virtuoso tra la concezione del servizio pubblico e le dinamiche commerciali, si trova di fronte ad un doppio e grave pericolo: da una parte il servizio pubblico, riconosciuto costituzionalmente in alcuni paesi europei (ma non in tutti) per il proprio carattere essenziale per il modello sociale europeo, sta attraversando la peggiore crisi della sua storia, tanto in termini di governance che  di offerta e di adattamento al nuovo ambiente digitale e che in termini finanziari e di ascolto.
    D'altra parte anche il settore privato (l'altra metà del sistema "duale") è messo duramente alla prova dall'arrivo di nuovi concorrenti e dal restringersi delle risorse complessive a disposizione. L'intero sistema televisivo e il futuro stesso dell'audiovisivo europeo, sono minacciati dall'espansione incontrollata di nuovi giganti globali e agenti audiovisivi digitali che – approfittando di importanti falle nel modello di legislazione dell'Unione europea – presentano un rischio grave per il settore della produzione, econ essa per l'identità e la diversità europee.
    Nella sua analisi il Gruppo europeo di Torino rileva che questa combinazione negativa di elementi e di processi, in corso, audiovisivi, sociali e tecnologici (ma anche economici e politici) è stata propiziata dalla mancanza di aggiornamenti e di coerenza sul piano della regolamentazione, e di politiche attive, nazionali ed europee in materia audiovisiva che, pur  mantenendo in questo campo una dottrina generale e una linea teorica corrette, non hanno saputo o potuto adattarsi alle grandi trasformazioni della comunicazione audiovisiva contemporanea: in particolare ai processi generalizzati di convergenza digitale e alla sua globalizzazione inarrestabile.
    Così, pur beneficiando della politica regionale attiva più longeva al mondo (sono ormai passati 26 anni dall'approvazione della prima direttiva europea e dal varo del programma MEDIA), i progressi nella costruzione del tanto auspicato mercato comune dell'audiovisivo rimangono modesti, e l'industria audiovisiva europea incontra crescenti difficoltà nel competere – nei propri mercati e sulla scena mondiale – con quella  statunitense e con quella dei paesi e delle regioni emergenti del pianeta.
    Inoltre la storia dell'integrazione europea manca di quei mezzi di comunicazione in grado di costruirla e diffonderla, capaci di porre in gestazione una sfera pubblica europea autenticamente democratica. In altri termini, si assiste al crollo dell'idea dei "campioni europei" che ha caratterizzato la politica industriale europea sin dalla nascita del Mercato unico: una politica che – soprattutto nel settore audiovisivo – ha mostrato la sua profonda inefficacia e dannosità, visto che gli ultimi tre decenni dimostrano che i media restano saldamente ancorati alle tradizioni linguistiche e culturali di ciascun paese. In questi trent'anni, contrariamente alle aspettative, nessun "campione europeo" (nè tantomeno globale di origine europea) è emerso nel settore dei media. In particolare, i nostri studi hanno verificato eccezionali asimmetrie nell'attuale normativa europea che tendono a sbilanciarne ogni volta i singoli elementi, e le componenti collegate tra loro: la tendenza diffusa a esercitare un ferreo controllo sul finanziamento del servizio pubblico, soprattutto per le sue attività on line, coincide con le omissioni da parte dell'Unione europea di iniziative sul piano normativo per assicurare la sua  indipendenza editoriale, la sua autonomia nei confronti dei governi e il suo adeguato finanziamento.
    Questo stesso sforzo, che tende a considerare il ruolo del servizio pubblico come sussidiario e complementare a quello esercitato dagli operatori commerciali, risulta in contraddizione con il lassismo in materia di verifica di conformità per gli operatori commerciali circa i loro obblighi in quanto servizi di interesse generale nel campo della produzione di origine europea e indipendente o della tutela dei consumatori per quanto riguarda i messaggi commerciali.  Soprattutto abbiamo accertato la gravità delle ripercussioni di un trattamento spesso ingiusto esercitato verso i radiodiffusori classici off line rispetto a quello nei confronti dei cosiddetti "service a richiesta" on line (che con il pretesto di voler incentivare il commercio elettronico stanno mettendo al riparo i nuovi entranti extraeuropei dagli obblighi propri del settore dei media): una decisione sorprendente dell'Ue che sta vanificando tre decenni di politica europea dei media e sta ponendo i radiodiffusori europei in posizione di inferiorità competitiva nei loro mercati, sollevando al contrario le attività degli attori globali dal rispetto di tutti gli obblighi in materia audiovisiva e nei confronti dei consumatori dai quali estraggono gran parte dei loro profitti, e portando per di più a situazioni di nuovi monopoli su scala europea (ben peggiori di quelli nazionali dell'era analogica), ad esempio nel settore della pubblicità on line, con punte di concentrazione fino all'80% per un solo operatore.
    Non solo: ma in seguito al fenomeno della convergenza fra media, telecomunicazioni e industria elettronica di consumo questo aggiramento delle norme europee da parte di attori extraeuropei sta portando ad una serie di dispute intersettoriali fra gli attori nazionali che finiscono per indebolire tutti i settori europei nel loro insieme: le telecomunicazioni contro i broadcastersper accaparrarsi porzioni di spettro e per poter distribuire contenuti senza l'impiccio dei diritti d'autore; la carta stampata contro i media elettronici nel tentativo di mantenersi in esclusiva il mercato dell'on-line; le televisioni commerciali contro quelle pubbliche per toglier loro la pubblicità. Una serie di battaglie di tutti contro tutti che stanno producendo come unico risultato quello di indebolire l'insieme dei settori esposti dalla convergenza alla concorrenza globale.
    Di conseguenza, il Gruppo europeo di Torino si rivolge alle istituzioni europee con una serie di proposte e raccomandazioni che consideriamo essenziali per discutere con urgenza come affrontare su basi concettuali nuove (che superino il concetto dei "campioni europei" e il Protocollo di Amsterdam) la progressiva costruzione di un efficace sistema audiovisivo europeo comune, che non sarebbe solo un grande mercato ma costituirebbe anche uno spazio pubblico di democrazia fondato sul pluralismo e sulla diversità delle nostre culture, di vitale importanza per la costruzione europea.
1.                Elaborazione di un Libro bianco per contribuire a definire e differenziare le rispettive competenze delle istituzioni dell'Ue e delle autorità nazionali in materia di servizio pubblico audiovisivo, ripensando tutta la normativa e le politiche attive in materia audiovisiva tenendo in considerazione l'evoluzione del sistema delle comunicazioni nel suo complesso.
2.                Superamento del Protocollo di Amsterdam del 1997 con un documento adattato all'era digitale e revisione profonda della comunicazione della Commissione del 2009 sul finanziamento dei servizi pubblici per promuovere la loro piena transizione verso il mondo online, con un proprio valore e in equilibrio con l'offerta commerciale .
3.                Realizzare una Conferenza europea sul servizio pubblico, con la partecipazione degli Stati, della Commissione e del Parlamento Europeo, ma anche delle associazioni, delle realtà professionali e del mondo della ricerca più vicine alle questioni del servizio pubblico. Il principale obiettivo di tale iniziativa dovrebbe essere quello di dibattere e definire, in un documento di valore rifondativo, una nuova politica industriale europea propria al settore dei media, al cui interno è indispensabile definire un nuovo quadro per gli obiettivi, l'offerta, il finanziamento e le norme che regolano i media di servizio pubblico in Europa, specialmente per quel che riguarda la "necessaria presenza del servizio pubblico nella società dell'Informazione". In particolare bisognerebbe in tale Conferenza definire un patto per lo sviluppo economico e democratico digitale fra servizi pubblici e Unione europea, da raggiungere attraverso una serie di progetti strategici per l'Europa digitale su cui lavorare insieme: dalla digitalizzazione e messa in rete degli archivi aallo sviluppo di progetti tecnologici di ricerca sul multilinguismo, la traduzione e l'indicizzazione automatica dei contenuti audiovisivi. In particolare sostituendo il concetto di "campione europeo" con quello di "messa in rete" degli attori nazionali, rafforzando tutti i meccanismi che favoriscano cooperazione, sinergie e collaborazioni transnazionali e plurilingue, a partire da piattaforme comuni Ott.
4.                Capacità legale per la Commissione e il Parlamento europeo di definire le condizioni elementari sine qua non per garantire media di servizio pubblico democratici in ogni Stato membro , e ciò al fine di evitare sperequazioni fra cittadini di serie A (quelli che possono accedere a servizi pubblici indipendenti, forti e di qualità) e cittadini di serie B (quelli che vivono in paesi dove l'interferenza dei partiti o di forze economiche è tale da limitare la qualità dell'offerta dei broadcaster pubblici.
5.                Definizione degli obblighi e delle missioni del servizio pubblico attraverso uno strumento legale efficace in ciascun paese (possibilmente anche attraverso la "costituzionalizzazione" dei servizi pubblici nazionali nei paesi dove ciò non è ancora avvenuto) ed attraverso la definizione del diritto di ogni cittadino europeo a ricevere un'informazione equilibrata e completa.
6.                Mandati e Convenzioni con scadenza a medio-lungo termine e Contratti di programma e/o di servizio a breve-medio termine approvati dai Parlamenti nazionali (con il coinvolgimento della società civile) per fissare le missioni di servizio pubblico.
7.                Proporzionalità del finanziamento pubblico al costo netto del servizio pubblico e trasparenza contabile sottoposta periodicamente a verifica, con possibilità di verifica ed intervento comunitario non solo (com'è avvenuto finora) nei casi di finanziamento eccessivo, ma anche in quelli (ben più numerosi) di sottofinanziamento. L'abolizione del Public Value test – per gli effetti distorsivi che sta producendo nei vari mercati nazionali – potrebbe essere un primo passo nella giusta direzione..
8.                Controllo esterno della gestione del servizio pubblico da parte di Autorità di controllo davvero indipendenti dai governi, con competenze specifiche sull'audiovisivo, dotate di mezzi e finanziamenti adeguati per perseguire questi compiti

giovedì 19 maggio 2016

100 anni dopo Kiental - Uscire dai confini

Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra.

 

di Felice Besostri

 

Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra. Quella scelta rappresentò la fine dell’Internazionale socialista, un’organizzazione già percorsa da divisioni ideologiche provocate dal revisionismo da un lato e dalle tendenze rivoluzionarie dall’altro: una sfida all’ortodossia socialdemocratica e al suo marxismo minimo.

Una crisi politica, che significava crisi morale e rinuncia ai valori tradizionali di solidarietà di classe per adeguarsi al nazionalismo patriottardo.

    Come allora la crisi fu più acuta in Europa, la culla del movimento operaio e socialista, anche oggi è in crisi la sinistra in tutte le sue espressioni a cominciare da quella una volta dominante ed egemonica o, comunque, maggioritaria nella parte occidentale: il socialismo democratico. La caduta dei regimi comunisti non ha rafforzato la sinistra, ma l’ha indebolita complessivamente, basta fare un confronto tra la UE a 15 negli anni novanta del XIX e quella a 28 del secondo decennio del XX secolo.

    Certamente le insufficienze sono datate da tempo: inesistenza di una politica economica alternativa a quella imposta a livello planetario dal capitalismo finanziario e dalle multinazionali, quando con la crisi economica e finanziaria ha reso impossibile il mantenimento dello stato sociale. Tuttavia è ancora una volta nel tradimento dei principi di umanità e solidarietà sociale, come 100 anni fa del pacifismo e dell’internazionalismo, che segnano la crisi della sinistra e che la travolge in tutte le sue espressioni, comprese quelle più radicali.

    E’ un dato non contestabile che la perdita di consenso elettorale dei Partiti del PSE, soltanto in minima parte è andato a beneficio di formazioni alla loro sinistra, piuttosto ha alimentato l’astensione e/o il populismo xenofobo ed identitario o i partiti conservatori al limite reazionari come in Ungheria o in Polonia. Dove l’ignavia del PSE ha colpito in primo luogo il suo partito membro, come il Pasok in Grecia, l’alternativa di sinistra non ha raggiunto mai la maggioranza assoluta e ha dovuto accettare compromessi che ne hanno minato l’unità e costretta ad alleanze con formazioni di centro-destra.

    La più solida e consistente anche temporalmente, come la Linke in Germania, non è mai uscita dai Länder della ex DDR, ad eccezione della Saar, e comunque i governi che si basavano su un’intesa SPD- Linke, meno di quelli numericamente possibili, non hanno quasi mai trovato una conferma elettorale democratica alla scadenza. Soltanto in Spagna si era profilata una possibile intesa tra sinistra tradizionale PSOE e nuova (Podemos e sue varianti), fallita e rimandata ad una prova d’appello, molto più difficile, se non vengono sconfitti l’autosufficienza socialista andalusa e il secessionismo a egemonia borghese della Catalogna. A differenza di 100 anni fa alle frontiere non si scavano trincee dalle quali spararsi reciprocamente, ma si erigono muri verso masse di disperati e si stipulano accordi di contenimento, come con la Turchia, con costi economici, per non parlare di quelli umani, superiori a quelli di un’integrazione programmata e una politica di corridoi umanitari. Su questo l’Europa si gioca il suo futuro, ma il fallimento di quest’Europa, che l’ha cercato e meritato, non aprirà nuovi spazi alla sinistra, ma alla destra come dimostrato dai successi della FPÖ al primo turno delle presidenziali austriache.

    La sinistra aveva un progetto federalista europeo, che trova il suo fondamento, nel Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, da adeguare alle sfide epocali e planetarie dei cambiamenti climatici e alle migrazioni di massa, ma non riscoprire il nazionalismo ammantato da sovranità democratica e monetaria. L’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis indica una strada di riforma dell’Europa senza tentazioni nazionaliste, continua una tradizione di federalismo socialista, la cui massima utopia di era espressa con la parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa nell’immediato secondo dopoguerra mondiale.

    Soltanto l’immaginazione romanzesca di Guido Morselli in Contro-passato prossimo aveva legato la vittoria dell’Austria-Ungheria nella Prima Guerra mondiale ad una rivoluzione che avrebbe trasformato la doppia monarchia nella prima Federazione Socialista Europea, centro della trasformazione socialista mondiale al posto dell’arretrata Federazione Russa: un trionfo dell’austro-marxismo sullo stalinismo. Quelle utopie non hanno più rapporto con la realtà quando e impossibile distinguere i socialdemocratici austriaci e slovacchi da un fascistoide come Orban, leader di un partito del PPE.

    Cento anni fa i socialisti che avevano rifiutato la guerra seppero tentare almeno un riscatto morale e politico organizzando a Zimmerwald nel 1915 e a Kiental nel 1916 due conferenze internazionali, grazie a compagni come gli svizzeri Robert Grimm, e Ernest Paul Graber o gli italiani Oddino Morgari, Giuseppe Emanuele Modigliani, Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, ma guidati dall’ebrea ucraina, naturalizzata italiana, Angelica Balabanoff.

 

Ebbene il centenario di quell’evento è stato ricordato dall’associazione degli storici svizzeri dell’Università di Berna e da una Conferenza lo scorso 30 aprile del Partito del Lavoro svizzero. Vogliamo tentare, uscendo dai nostri confini identitari, di ricostruire una sinistra cui debbono concorrere tutti i suoi filoni ideali storici, socialista, comunista e libertario, arricchiti dal pensiero ambientalista, femminista e dei diritti umani. Filoni ideali, perché se scendiamo sulle realizzazioni storiche dobbiamo constatare che sono fallite o esaurite. Pura utopia? Ma c’è un’alternativa?

    Cominciamo da dove viviamo, dalle nostre città, a cominciare dalle metropoli come Milano, Roma, Napoli, Torino e Bologna, facendo delle differenze una ricchezza. La difesa della democrazia dalle leggi elettorali come l’Italicum e dalla deforma costituzionali sono un collante forte di una sinistra capace di coniugare libertà, lavoro, democrazia e giustizia sociale. E chiediamo dal basso una conferenza internazionale come quella di cent’anni fa.

 

martedì 10 maggio 2016

Ieri e oggi il Giorno del Ricordo

Da Avanti! online - www.avantionline.it/

  

Il Giorno del Ricordo ricorre nei giorni della rivolta del Ghetto di Varsavia. L’immagine-simbolo scelta dalle Comunità Ebraiche è un percorso di fili spinati a forma d’impronta digitale umana.

 

Da ieri sera fino alla giornata di oggi, in tutte le comunità ebraiche del mondo si ricorda il “Giorno del Ricordo della Shoah e del Coraggio” (Yom HaZikaron laShoah ve-laGvura) dedicata alle vittime e agli eroi che combatterono con tutti i mezzi a loro disposizione contro i nazisti. La data è quella della la rivolta del ghetto di Varsavia

L’immagine del Giorno del Ricordo è un percorso di fili spinati a forma d’impronta digitale che rappresentano simbolicamente il segno indelebile del popolo ebraico del passato, del presente e del futuro.

    Questo il motto della Giornata: “Non dimenticheremo e faremo in modo che i nostri figli facciano lo stesso nella speranza che questo terribile ricordo appartenga alla memoria condivisa per rafforzare l’unione con il popolo ebraico nella lotta incessante e senza quartiere contro l’antisemitismo e contro ogni forma di odio di natura religiosa, etnica, di genere”.

 

Vai al sito dell’avantionline

 

martedì 3 maggio 2016

Migranti, dietro la paura

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

 C’è un diritto a emigrare come si evince da diverse convenzioni sull’argomento. L’emigrazione come fattore di liberazione e di emancipazione.

 

di Enzo Russo

 

Da anni l’Ocse e le organizzazioni delle Nazioni Unite raccomandano la ripresa dell’Emigrazione per compensare l’invecchiamento della popolazione nei paesi ricchi della Unione Europea – uno dei paesi con la popolazione più vecchia del mondo. A tal fine serve non solo l’inserimento nel mercato del lavoro ma anche la piena integrazione.

    Ricordo il discorso che la direttrice della sezione demografia dell’Istat, una ventina di anni fa, pronunciò alla Società degli economisti pubblici (Siep) a Pavia: ci disse che il fabbisogno di forze nuove per ottenere l’equilibrio demografico era stimato in circa 500 mila persone all’anno.

    Dopo le dichiarazioni della Merkel del settembre 2015 uno dei 5 saggi che consigliano il governo tedesco in una intervista al Sole 24 Ore ha detto che l’analogo fabbisogno della Germania è pari a 700 mila persone all’anno. Dal lato della domanda, per citare solo due casi, ci sarebbe in teoria ampio spazio per assorbire gli attuali flussi emigratori.

    Il problema più grave è dal lato dell’offerta, e la situazione dell’offerta si è aggravata con la crisi del 2008-09 che in Europa si trascina ancora sino ad oggi. La crisi ha prodotto secondo i calcoli dell’ILO (Ufficio internazionale del lavoro) 61 milioni di disoccupati in più rispetto alla situazione del 2008, colpendo in modo grave le aree del Sud dell’Asia e l’Africa a Sud del Sahara. E nei prossimi cinque anni la disoccupazione è vista peggiorare portando i disoccupati a 212 milioni nel 2019. Durante la sessione primaverile del G20 la direttrice del FMI, Christine Lagarde, ha confermato la gravità della situazione. Emma Bonino la settimana scorsa ha detto che 60 milioni di persone potrebbero emigrare dall’Africa.

    C’è la globalizzazione che velocizza i meccanismi di trasmissione e, come noto, c’è una flessione della crescita mondiale. E la ripresa in Europa è vista molto debole se non proprio di stagnazione complessiva. C’è anche l’accresciuta debolezza del movimento sindacale a livello mondiale. C’è l’inadeguatezza strutturale delle istituzioni sovranazionali che si occupano di questi problemi: Onu, Fmi, Banca mondiale e del sistema delle banche regionali che si occupano dei problemi della crescita e dello sviluppo, G7, G8, G20 – ora abbiamo anche il G5…

    All’assemblea generale dell’Onu prevalgono paesi dittature, nei paesi europei prevalgono governi di centro-destra. Ci sono alti tassi di disoccupazione nella UE: la crescita langue. Persino negli USA si teme la stagnazione secolare. Il Rapporto dell’ILO denuncia l’aumento delle diseguaglianze, calcola che al 10% più alto della popolazione va il 30-40% del reddito totale mentre al 10% più povero solo qualcosa tra il 2 e il 7%. Ovunque cala la fiducia nei governi ed è aumentato fortemente il disagio sociale dall’inizio della crisi globale.

    In questo scenario si acuiscono i problemi della emigrazione per motivi politici, per scappare dalla fame, dalle persecuzioni, dai conflitti interni….

    Dopo 40 anni di neo-liberismo nei paesi ricchi è fortemente aumentato l’egoismo e si è ridotta la solidarietà supposto che ce ne sia stata a sufficienza prima.

    Ricordo che la solidarietà non funziona in contesti di aree regionali molto larghe (continenti), figuriamoci a livello globale.

    Come economista preferisco ragionare in termini di reciprocità, di interesse comune ma, come sappiamo dall’esperienza, molti soggetti non riconoscono l’interesse comune neanche nel contesto ristretto locale.

    Cosa non funziona? Non funziona la governance mondiale, non funzionano i governi di centro-destra e, non di rado, neanche quelli di centro-sinistra. A livello globale, in un modo o nell’altro, prevale un consenso contrario all’intervento diretto della Stato nell’economia per cui non si adottano le politiche economiche più adatte a promuovere crescita del reddito, della occupazione e lo sviluppo sostenibile.

    Come sappiamo non c’è una tendenza spontanea del mercato alla piena occupazione. Al contrario, agli imprenditori fa comodo avere un esercito industriale di riserva – anche in Cina.

    Gli immigrati dicono alcuni rubano posti di lavoro ai locali. Ma il vero problema è che se c’è disoccupazione e c’è anche uno squilibrio demografico grave, i governi responsabili dovrebbero perseguire una politica economica in grado di creare posti di lavoro a sufficienza per i residenti e per gli immigrati.

    Se non si fa questo, si alimenta la nascita e crescita dei movimenti populistici e xenofobi. È quello che avviene un po’ dappertutto anche in Europa e in Italia. Ma da noi abbiamo l’apparente paradosso delle regioni del Nord che chiedono deroghe per consentire l’ingresso di immigrati perché questi, in pratica, non hanno diritti o sono costretti a non rivendicarli perché rischiano di essere rimandati indietro.

    Con alta disoccupazione e molti immigrati anche i lavoratori locali debbono accettare la riduzione dei loro diritti se vogliono continuare a lavorare.

    Lo ripeto: il problema è globale. Manca una politica economica idonea a produrre la crescita del PIL e dell’occupazione. Non funziona la governance mondiale? Oppure le sue istituzioni sovranazionali e i governi e/o i poteri forti che le egemonizzano non vogliono farla funzionare nell’interesse della stragrande maggioranza dei lavoratori per favorire la minoranza dei ricchi e dei potenti?

    Un’ altra riflessione riguarda il lancio da parte del governo italiano di un Patto per l’emigrazione con emissione di eurobond per il finanziamento di programmi di sviluppo nei Paesi africani. Secondo me, si tratta solo di una proposta che la Germania vede come provocatoria o come grimaldello per introdurre uno strumento che ha sempre avversato. Come si fa a pensare che l’UE possa emettere eurobond per finanziare lo sviluppo di Paesi africani quando non l’ha voluto fare per la Grecia o altri paesi cosiddetti periferici della stessa UE?

    Se riteniamo che il problema della crescita e dello sviluppo sostenibile è problema di carattere globale che interessa, in primo luogo, l’Africa ma anche altri paesi del mondo, perché l’UE non spinge per mobilitare le organizzazioni specializzate delle NU a partire dalla Banca Mondiale e dalle banche regionali di sviluppo? Queste hanno una lunga esperienza in materia e si finanziano con l’emissione di obbligazioni nei mercati finanziari. Con il QE (l’allentamento monetario) in America e in Europa ci sono “oceani di liquidità” ma questa non viene utilizzata per gli obiettivi più importanti. Perché l’UE non spinge per incrementare le risorse della Banca Mondiale, dell’African development Bank e dell’Asian Development Bank – senza dimenticare il Banco interamericano di sviluppo ? Per questo motivo ritengo che la proposta del governo italiano è solo fumo negli occhi degli altri partner europei.