lunedì 22 gennaio 2018

Lutto - Ciao, Mario

Ci ha lasciati Mario Perniola, uno tra i maggiori esponenti della filosofia italiana contemporanea

di Andrea Ermano

Pensatore di un sentire finissimo, di un'esemplare clarté e di una risata, ora bonaria, ora senz'appello. Con Mario Perniola, morto il nove gen­naio scorso nella sua casa romana, ci ha lasciati uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei. Indagatore trasgressivo, "più che sacro più che profano", profondamente partecipe della storia e della teoria dell'emancipazione del e dal lavoro, si era formato alla scuola ermeneutica torinese di Pareyson. Aveva esordito nel 1961 con un saggio su Samuel Beckett, pubblicato sulla rivista di Silone e Chiaromonte, "Tempo presente". Seguiva percorsi di ricerca sempre nuovi, orgoglio­sa­mente non di scuola, ma fedelissimo alla più rigorosa trasparenza argomentativa.

    Ha scritto Langone sul "Foglio": «Fino a ieri pensavo fosse il numero due e forse mi sbagliavo perché il filosofo numero uno, Emanuele Severino, scrive sempre lo stesso libro mentre lui scriveva ogni volta un libro davvero diverso, risultato di un'inesausta, quasi ragazzina curiosità. Oltre che per la sua anima prego dunque per l'uscita di un libro postumo: sarà un libro vivo.»

    È possibile che il libro postumo di Mario Perniola sia un diario di vita, viaggi e città al quale lavorava negli ultimi tempi. Non posso né vorrei riassumere qui la vita e l'opera in un "coccodrillo" giornalistico. Dirò solo che nel 2017 aveva pubblicato presso Bompiani un importante volume dal titolo Estetica italiana contemporanea. In esso Perniola si era dedicato a "trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant'anni". Anche di questo libro andava molto fiero, perché mostrava come il sentire, l'estetica «abbia giocato un ruolo essenziale nell'autorappresentazione della società borghese, al punto da costituirne l'inconscio politico».

    Il penultimo libro, un romanzo di "storiette" uscito nel 2016, reca titolo Del terrorismo come una delle belle arti e narra le vicende «comiche e grottesche di un militante trotskista argentino, condannato a morte dai suoi ex compagni di partito, con sentenza "da eseguirsi il giorno della rivoluzione". La folle avventura politica, esistenziale e nichilista dei membri dell'Armata rossa giapponese. La surreale compagnia di esaltati, anarchici, pazzoidi, bohémiens e filibustieri che si ritrova, negli anni Settanta, intorno alla redazione della rivista "Agaragar". Ma anche scrittori e artisti come Moravia e Pasolini, surrealisti e situazionisti. In questi testi autobiografici, né interamente veri, né interamente falsi, Perniola rivela le radici esistenziali della propria filosofia, mostrando la sua stretta connessione con alcune vicende storiche, politiche, culturali ed umane a lui contemporanee. Le storiette si rifanno da un lato al genere letterario, a metà tra il serio e il faceto, praticato dagli antichi filosofi cinici, dall'altro ai setsuwa dei monaci giapponesi e si basano sulla premessa buddhista della non sostanzialità dell'io, non meno che sul rifiuto di una narrativa ingenua e popolare, ignara del carattere enigmatico e paradossale della scrittura letteraria. La loro tonalità emozionale è un misto di terrore e di ironia, che unisce lo stile dell'avanguardia al distacco estetico, usando indifferentemente registri realistici e surrealistici in una combinazione che appartiene alla logica del simulacro.»


Mario e io ci eravamo conosciuti nel 1990 per "importare" Peter Sloterdijk in Italia. Promuovemmo presso Garzanti la pubblicazione della Critica della ragion cinica, per la quale Perniola compose all'epoca una notevole Presentazione, ripubblicata anche nella seconda edizione dell'opera, uscita presso Cortina nel 2013.

    Sottilmente, in questa Presentazione Mario metteva a fuoco, accanto all'amplissima summa cinica dell'autore tedesco, un'ulteriore causa della "sindrome weimariana" che negli anni Trenta diede luogo alla catastrofe nazista e che da un quarto di secolo ormai corrode la nostra democrazia.

    Questa ulteriore causa cinica di crisi insisteva per Perniola nella rottura dell'aidôs, termine greco antico che significa "pudore", "timidità", "verecondia", "modestia", "rispetto", "stima", "venerazione", ma (in caso di mancanza di tutto ciò) può anche voler dire "vergogna" e "disdoro".

    La rottura cinica dell'aidôs è per Mario Perniola la causa del mancamento del presupposto pre-politico fondamentale in rapporto alla Politica tout court. Ed è perciò che «il compito storico di fronte al quale si trova la filosofia oggi presenta sorprendenti analogie con quel momento della filosofia antica».

    La catastrofe del "pudore" ateniese avvenne nel 399 a.C. con la condanna a morte di Socrate. La diagnosi di Perniola venne pubblicata mentre correva l'annus horribilis 1992. Da allora cresce al centro della nostra polis un alto monte di macerie e disgusto e vergogna e disdoro. E ora, senza Mario, non sarà certo più facile ricostruire l'aidôs fracassato.

“The Post” - Da "Letter from Washington DC"

riceviamo e volentieri pubblichiamo

Quando il buon giornalismo salva la democrazia.

Riflessioni intorno all'ultimo film di Steven Spielberg.

di Oscar Bartoli

Gutta cavat lapidem. I nostri antichi progenitori romani amavano ripetere che, così come la goccia riesce a scavare la roccia, anche una ripetuta falsità può riuscire a condizionare la capacità di intendere di volere di milioni di persone.

    È questo il principio motore della propaganda politica sfruttato dai dittatori di ogni epoca e regione.

    Ed è questo quanto sta avvenendo qui negli Stati Uniti sottoposti come siamo al continuo bombardamento di accuse fatto dal presidente Donald Trump che, con la sua definizione di 'fake news', è riuscito a far credere che il mondo dell'informazione sia costituito da lestofanti.

    Un contributo all'affermazione di questa accusa di dimensioni internazionali è stato offerto anche dalla categoria dei professionisti dell'informazione, molti dei quali, nonostante la mano sul petto e gli insegnamenti morali nelle scuole e università di giornalismo, non hanno esitato a farsi coinvolgere nella missione di leccaculismo del potente di turno. Anche perché inseguire la libertà e l'obiettività non solo è faticoso ma può essere anche rischioso a titolo personale.

    Questo per dire che in un momento così delicato per quei mezzi di informazione che cercano di affrancarsi dall'elogio scontato al potente, un film come "The Post" del regista Spielberg rappresenta una ventata di aria fresca che attenua anche se per poco l'atmosfera violenta innescata da questa anomala presidenza Americana.

    Il film si basa su la proprietaria del Washington Post, Catherine Graham, che si assunse la responsabilità di pubblicare le cosiddette carte del Pentagono che mettevano in luce come negli ultimi trent'anni i presidenti americani che si erano succeduti avessero taciuto sulla evidenza dimostrata dalle agenzie di intelligence che la guerra in Vietnam era senza sbocco e non sarebbe mai stata vinta dagli americani.

    The Post non trascura la acerrima competizione tra il quotidiano della capitale e il New York Times, e le difficoltà di gestione economica del Washington Post che la Graham riesce a far quotare in borsa, convinta com'era che il profitto si ottiene con un prodotto di qualità.

    Ed è per questa ragione che si era battuta per l'assunzione di 25 ottimi giornalisti nella staff del giornale.

    La pubblicazione delle carte del Pentagono rischia di far andare in galera sia i responsabili del New York Times che del Washington Post che si sono avvalsi di una sola fonte di informazione alla quale hanno garantito assoluta sicurezza.

    Il finale del film si conclude con la sentenza della Corte Suprema che per sei a tre stabilisce che i quotidiani non siano imputabili per quanto pubblicato anche se si trattava di documenti coperti dal top secret.

    Gli applausi che spesso nascono spontanei al termine delle proiezioni affollate stanno a dimostrare che esiste ancora una buona parte della popolazione Americana che crede nei mezzi di informazione come garanzia di un corretto percorso democratico del Paese.