mercoledì 23 dicembre 2015

Da Collodi al Quarto Stato

Da Critica Sociale

 

AL CANDIDATO DI CRITICA SOCIALE L'AMBROGINO D'ORO 2015 ASSEGNATO DAL SINDACO PISAPIA

 

Giacomo, classe 1925 e chiamato così in onore di Matteotti, davanti al Quarto Stato nel Museo del '900 dove ora lavora dopo aver iniziato con una Trattoria al lato della Camera del Lavoro per 33 anni

    Giacomo Bulleri, conosciuto a Milano come “Da Giacomo”, è uno tra i principali ristoratori del capoluogo lombardo.

    Nato a Collodi, fa parte dell’emigrazione che dalla Valle della lucchesìa (sebbene la sua provincia sia Pistoia) giunge a Milano negli anni ’50.

  Partito 60 anni fa con una Trattoria al lato della Camera del Lavoro, ora presidia col suo lavoro l’ospitalità nelle maggiori istituzioni culturali di Milano, da Palazzo Reale con le sue Mostre, al Museo del Novecento con il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

    Socialista, figlio di socialisti, suo padre lo chiamò Giacomo in memoria di Matteotti con il cui nipote egli combattè fianco a fianco durante la Prima Guerra.

    Nato nel ’25, oggi a 90 anni riceve il riconoscimento dell’Ambrogino dal sindaco Giuliano Pisapia, selezionato tra le 15 medaglie d’oro assegnate su una proposta di oltre 150 candidati.

    La nostra rivista, che ottenne il riconoscimento oggi dato anche al suo candidato, già una prima volta nel 1966 e in seguito al suo direttore Giuseppe Faravelli nel 1971, ha promosso la mozione di candidatura assieme ai lavoratori del gruppo - ormai un migliaio - per due ragioni: restituire una “quota parte morale” a chi ha dato valore con il lavoro e con la creatività a quello che oggi si definisce il “Brand Milano”. La scuola del ristoratore-amico dei sindacalisti milanesi ed italiani per 30 anni, così come degli artisti che hanno frequentato la sua trattoria alla camera del lavoro, è infatti la stessa che oggi attira nei suoi locali personalità da tutto il mondo. Iniziando con Di Vittorio, Luciano Lama, Giorgio Benvenuto, oggi da lui siedono – dopo i Kennedy – Michelle Obama e John Kerry. Ma Giacomo non cambia.

    E infatti, a differenza di molti che trovando successo nella vita si dimenticano di dove vengono, (questa è la seconda ragione della nostra iniziativa di candidarlo) egli non ha rinnegato la sua disponibilità a farsi tramite dei simboli che comunicano, anche in modo inconscio al pubblico, una fede socialista che non esita apertamente a riaffermare usando anche la propria notorietà, in particolare all’estero.

    Questo il duplice messaggio dell’Ambrogino da noi tentato e promosso. E riconosciuto dal Sindaco Pisapia e dal Consiglio Comunale all’unanimità.

 

Vai al link l’intervista all’AdnKornos prima della premiazione

 

mercoledì 16 dicembre 2015

Salvini, Salvini, non approfittare dei bambini

 In Veneto si discute sull’opportunità o meno di celebrare il Natale nelle scuole, e subito Salvini si precipita a esaltare il Natale come simbolo dell’occidente cristiano. Non è proprio così : il giorno fondante del cristianesimo è la Pasqua, perchè a tutti capita di nascere, ma di risorgere no. Tutti i 4 vangeli parlano della Pasqua, solo Luca fa un accenno al Natale  ...

    Certo, il Natale, come il Ferragosto, appartiene alle feste antichissime dell’emisfero settentrionale, il Natale festeggia le giornate che cominciano a allungarsi, il ferragosto la ripresa della caccia e il ritorno alla carne fresca.

    Anche come giorno per il frenetico scambio di regali il Natale è di recente diffusione, insieme alla civiltà dei consumi: in alcuni paesi si scambiavano il giorno dell’Epifania ( in cui in effetti anche il Bambino ha ricevuto regali), in molte nazioni era più importante San Nicola, poi (forse per le pari opportunità...) diventato Santa Klaus. Prima che Salvini scenda in campo a difendere pure Babbo Natale come campione della nostra civiltà, sarà bene segnalargli che l’attuale raffigurazione nasce nell’ufficio pubblicità della Coca Cola, che un giorno di dicembre degli anni 20 si accorse di aver ordinato troppo panno rosso per una manifestazione aziendale, e si inventò il simpatico grassone con la barba bianca, i due colori della Coca Cola...

    Ma siccome Salvini cerca elettori anche al Sud, tra breve metterà tra le tradizioni della civiltà cristiana la processione del santo protettore del paese, con inchino della statua davanti al balcone del boss...

 Claudio Bellavita, e-mail

        

        

LETTERA

 A cinquant’anni dal Concilio

 La “Dichiarazione di Roma” è disponibile sul sito dell’associazione di base “Noi siamo Chiesa”

 Oggi è stato diffuso, a 50 anni dalla conclusione del Concilio, la “Dichiarazione di Roma” , cioè il documento che riassume i contenuti dell’incontro internazionale “Council50” che si è tenuto il 20-22 novembre a Roma. E un testo importante che esprime le opinioni dei principali movimenti che, nel mondo, si richiamano al Concilio Vaticano II, che vedono ora ripreso da papa Francesco dopo un lungo periodo di abbandono del suo spirito e dei suoi propositi riformatori. Il testo completo, con i firmatari, si può leggere sul sito di noisiamochiesa.

 Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale di “Noi Siamo Chiesa”

 

Un progetto europeo contro lo sfruttamento dei migranti

LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it

 Il progetto Agree coinvolge sindacati e centri di ricerca in Italia, Romania e Spagna. Il 14/12 la Fondazione presenta in Cgil i risultati di due anni di lavoro

 A cura della Fondazione Giuseppe Di Vittorio

www.fondazionedivittorio.it

 Favorire la creazione di una nuova cultura del lavoro agricolo contro lo sfruttamento, il caporalato e l’illegalità è l’obiettivo di fondo che negli ultimi due anni ha portato  avanti il progetto Agree, che giunge a conclusione con la conferenza finale del 14 dicembre a partire dalle ore 9, presso la sede della Cgil nazionale (Corso d’Italia 25 – Sala Santi).

    Il progetto, co-finanziato dalla Direzione Affari Interni della Commissione europea, ha visto la realizzazione di studi e percorsi formativi ad opera di sindacati e centri di ricerca in Italia, Spagna e Romania. La Fondazione Giuseppe Di Vittorio (capofila del progetto) e Cittalia-Anci Ricerche hanno studiato gli effetti dello sfruttamento lavorativo dei migranti sulla coesione sociale dei territori, con particolare riferimento alla zona dell’Agro-Pontino al centro di un’azione di networking, formazione e sensibilizzazione degli operatori locali.

    Le azioni locali e l’analisi comparativa tra politiche e esperienze condotte nei tre paesi del progetto sono state l’elemento di partenza per la definizione di proposte di policy sui temi del contrasto allo sfruttamento dei lavoratori migranti, che saranno ufficialmente presentate nel corso della conferenza finale alle istituzioni europee e ai diversi stakeholder coinvolti nel fenomeno.

    All’incontro parteciperanno, tra gli altri, il capo del Segretariato europeo della Cgil Fausto Durante, il segretario generale della Flai-Cgil Stefania Crogi, il presidente di Cittalia-Anci Ricerche Leonardo Domenici, il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni, il presidente dell’Asgi Lorenzo Trucco e Albin Dearing dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea.

    Il rafforzamento delle reti locali degli attori sociali coinvolti nel settore e l’armonizzazione di politiche e interventi in favore degli immigrati e di contrasto al caporalato sono alcuni degli obiettivi realizzati dal progetto Agree attraverso una serie di azioni innovative di formazione degli operatori e di sensibilizzazione dei consumatori verso produzioni agricole realizzate in maniera etica e socialmente sostenibile.

    Creare consapevolezza tra l’opinione pubblica su tutte le forme di sfruttamento e illegalità nel settore agricolo rappresenta, secondo i partner del progetto europeo, il primo passo per favorire un reale contrasto del fenomeno dal basso, da unire alla necessaria riforma di normative europee e nazionali sulle modalità di organizzazione della produzione e sulle forme di intermediazione del lavoro.

 

Causeranno nuove ondate di profughi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 “La nostra avidità di energia ci spinge a intensificare sempre di più le esplorazioni e le estrazioni. Ci dimentichiamo tuttavia che le emissioni di gas serra di oggi saranno le principali cause degli esodi di domani.” – Per gentile concessione dell’Autore rilanciamo di seguito questo testo, originariamente apparso in lingua inglese su e poi, in italiano, su Internazionale.

 di Marco Morosini *)

 Mentre a Parigi si svolge la Cop21 (dal 30 novembre all’11 dicembre), quanti disperati cercheranno di raggiungere l’Unione europea per mare? Quanti purtroppo moriranno? Quest’anno quasi un milione di migranti hanno affrontato le acque del Mediterraneo meridionale a bordo di imbarcazioni precarie. Migliaia di loro sono morti annegati. Intanto, sotto quelle stesse acque, la scoperta di nuovi tesori d’idrocarburi alimenta la sete di un’accelerazione della crescita della produzione, dei consumi e del pil dell’Europa, il continente più ricco del pianeta. 

L’euforia con la quale il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ha recentemente annunciato la scoperta del più grande giacimento di gas del Mediterraneo ha trovato un ironico contraltare durante l’apertura della Cop21, durante la quale ha vantato il ruolo dell’Italia nella lotta contro i cambiamenti climatici. Da un lato si piangono le vittime dei “gommoni della morte”, dall’altra si esulta alla notizia della scoperta di nuove riserve di combustibili fossili. In pochi colgono il tragico legame tra questi due fenomeni. 

    Secondo i demografi, da qui a qualche anno, le attuali migrazioni in direzione dell’Europa ci appariranno assai modeste rispetto a quelle, future e probabili, di decine di milioni di migranti climatici. 

    La combustione di carbone, petrolio, gas fossile e legname rilascia nell’atmosfera sempre più anidride carbonica, il principale gas responsabile delle alterazioni climatiche causate dall’uomo, dopo il vapore acqueo. Queste alterazioni producono un numero talmente elevato di sconvolgimenti sociali, ecologici ed economici che quest’articolo non basterebbe per elencarli. Un unico esempio: in molti paesi, soprattutto i meno ricchi, il terreno diventa arido, i deserti si allargano, il bestiame muore e le risorse idriche diminuiscono o si contaminano. 

    L’attuale ritmo di emissioni potrebbe provocare un innalzamento di oltre un metro del livello dei mari in questo secolo, ma anche solo un innalzamento di qualche centimetro colpisce centinaia di milioni di persone, favorendo le inondazioni e causando l’ingresso d’acqua salata nelle falde freatiche d’acqua dolce. 

    Una proposta dalla Svizzera - In molti paesi, milioni di ex agricoltori o ex allevatori migrano verso le città, spesso provocando tensioni sociali. Rivolte e repressione determinano, a loro volta, ondate di violenza. La Siria, per esempio, ha conosciuto la sua peggiore siccità tra il 2006 e il 2011. Buona parte del bestiame è morta e uno o due milioni di abitanti hanno lasciato le campagne per riversarsi, senza lavoro, nelle città. L’acqua è diventata una merce rara e difficilmente accessibile. Le proteste della popolazione sono state represse nel sangue, il che è stato una delle cause della guerra civile per cui la popolazione siriana sta abbandonando il paese. 

    Se i rifugiati politici sono riconosciuti e protetti dalla Convenzione di Ginevra del 1951, i migranti vittime della degradazione dell’ambiente non godono di protezione giuridica. Per risolvere questa situazione, i rappresentanti di 75 stati si sono riuniti il 12 e 13 ottobre scorso a Ginevra per una conferenza globale durante la quale è stata presentata un’ “agenda di protezione” dei rifugiati climatici e vittime di catastrofi naturali. Quest’agenda è il risultato di consultazioni regionali portate avanti dalla Nansen Initiative, un organismo creato da Svizzera e Norvegia nel 2012. 

    Secondo il centro di ricerca svizzero Foraus, la Svizzera dovrebbe dare seguito alla Nansen Initiative per promuovere un adeguamento del diritto internazionale che permetta di riconoscere e proteggere i rifugiati ambientali. Parallelamente, Foraus incoraggia a ridefinire la migrazione come un fenomeno dalle molteplici cause, spesso provocato dall’interazione di fattori sociali, economici, politici e ambientali. 

    Il dramma dei rifugiati esige tre azioni ugualmente necessarie: il soccorso, la fine di alcuni comportamenti di cittadini, aziende, eserciti e governi dei paesi ricchi che provocano la fuga e la migrazione di milioni di disperati e, infine, la diffusione tra i cittadini europei di informazioni sulle cause vicine o lontane delle migrazioni forzate. Se si dimenticano le ultime due azioni, la prima diventa sempre più difficile. 

    Se la stampa, gli insegnanti e le personalità del mondo istituzionale e culturale ci ricordassero più spesso le nostre responsabilità passate e presenti nelle disgrazie che colpiscono il “sud”, forse un numero maggiore di cittadini sarebbe meno ostile nei confronti dei rifugiati e la loro antipatia potrebbe lasciare spazio a comprensione e generosità. 

    La triplice responsabilità dell’occidente - La responsabilità dell’occidente nelle migrazioni è triplice: il colonialismo, la globalizzazione e lo sconvolgimento climatico. Le invasioni militari finalizzate all’esercizio di un dominio politico, la tratta degli schiavi e lo sfruttamento delle risorse naturali hanno prodotto il colonialismo. Per fare un esempio, lo storico Stuart Laycock ha documentato come il Regno Unito, se si escludono 22 paesi, è intervenuto militarmente in tutto il mondo. 

    A volte abbiamo sfruttato i conflitti etnici a nostro favore, abbiamo arbitrariamente creato frontiere e stati, sviluppando delle strutture economiche solo a nostro vantaggio. Le numerose conseguenze dei crimini coloniali si fanno sentire ancora oggi e non sono compensate da certi apporti coloniali di modernizzazione né dai nostri modestissimi aiuti allo sviluppo. Al colonialismo è seguito il neocolonialismo: protezionismo economico, pratiche e accordi economici iniqui, esportazioni di armi verso i peggiori regimi, corruzione, lobbying nei confronti dei governi, sostegno ai dittatori, colpi di stato contro democrazie, bombardamenti e invasioni militari hanno destabilizzato interi paesi. 

    La globalizzazione, che è in buona parte americanizzazione ed europeizzazione, ha cambiato il mondo sia nel bene sia nel male. La sua ricetta è un mercato unico di beni di consumo uniformi, un mezzo di comunicazione dominante (internet), una lingua e una cultura ugualmente dominanti (anglosassoni) e infine un pensiero economico unico. Investendo centinaia di miliardi di euro in pubblicità, i paesi ricchi inondano il pianeta, compresi i paesi poveri, d’immagini mercantilistiche che promuovono uno stile di vita idealizzato, apparentemente accessibile a tutti e sinonimo di felicità e gioia. Come stupirsi allora che, tra i miliardi di poveri che finora si accontentavano di poco, centinaia di milioni siano pronti a tutto pur di raggiungere quest’eldorado? Volevamo consumatori, arrivano profughi. 

    Infine, gli effetti degli stravolgimenti climatici provocati dall’uomo sono una causa sottovalutata e sempre più importante degli esodi e delle migrazioni. Sfortunatamente, le popolazioni che sono più vittime del cambiamento climatico sono anche quelle che hanno meno contribuito a crearlo. In media pro capite, le loro emissioni di gas serra sono tra cinque e dieci volte minori di quelle cittadini dei paesi industrializzati. 

    Dal punto di vista scientifico e politico, non dovremmo considerare solo le emissioni antropiche recenti, ma anche quelle verificatesi dall’inizio della rivoluzione industriale, perché i loro effetti si trascinano per secoli. Considerando dunque le emissioni di cui sono storicamente responsabili i paesi industriali, lo scarto tra le responsabilità degli abitanti dei paesi ricchi e di quelli dei paesi poveri è ancora maggiore. Per questo motivo alcuni economisti e alcuni paesi spingono affinché le responsabilità e i diritti d’emissione di gas serra siano attribuiti indipendentemente dal luogo e dal tempo in cui un abitante del pianeta è vissuto, vive o vivrà. 

    Troppe energie fossili da bruciare – Un numero sempre maggiore di scienziati, tecnici ed economisti ritiene necessaria e possibile, nell’arco di vari decenni, la sostituzione di combustibili fossili con un misto di energie rinnovabili. Secondo i geologi, il limite delle riserve accessibili di combustibili fossili non è il loro esaurimento a breve termine. Ritengono infatti che l’umanità ne abbia estratti meno della metà. Il vero limite riguarda le catastrofiche conseguenze climatiche che si verificherebbero se bruciassimo tutti i combustibili fossili disponibili sul nostro pianeta. 

    “Il problema è che abbiamo troppi combustibili fossili”, dichiarava recentemente Marco Mazzotti, direttore dell’Energy science center del Politecnico federale di Zurigo. Nonostante i climatologi ci raccomandino di lasciare i combustibili là dove sono, la nostra avidità di energia ci spinge a intensificare sempre di più le esplorazioni e le estrazioni. Ci dimentichiamo tuttavia che le emissioni di gas serra di oggi saranno le principali cause degli esodi di domani. 

 

Traduzione di Federico Ferrone Versione italiana apparsa su Internazionale

 

*) è Senior Scientist in Sustainability Research presso il  Politecnico federale di Zurigo (ETH). Ha un blog sulle edizioni dell’Huffington Post in otto diversi paesi. Ha scritto per Le Monde, la Neue Zürcher Zeitung, per il teatro e la televisione.

mercoledì 9 dicembre 2015

L’odio, letame delle guerre

FONDAZIONE NENNI - http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

di Edoardo Crisafulli

 

Rischiamo di scivolare giù per la china: fanno di tutto affinché li odiamo con la stessa perversa intensità con cui loro odiano noi. Per fortuna non ci sono avvisaglie di pogrom antislamici. Ma episodi di intolleranza, quelli sì che accadono. E da cosa nascono, se non dall'odio o dal disprezzo verso un gruppo di nostri simili, umani come noi, ma denigrati perché colpevolmente diversi? Il bidello che in una scuola riminese avrebbe aggredito una bambina musulmana — per un garantista il condizionale è d'obbligo – urlandole "tornatevene a casa", è una faccenda odiosa, che dovrebbe azionare un campanello d'allarme.

    Non mi risulta che le bambine tedesche, figlie dei turisti che calavano a frotte sulla Riviera romagnola negli anni Sessanta, venissero insultate o guardate in cagnesco sulle nostre spiagge. Eppure appena un quindicennio prima milioni di soldati tedeschi avevano seminato morte e distruzione in tutta Europa. La seconda guerra mondiale, scatenata scientemente da Hitler e dai suoi numerosi scherani (il partito nazista contava milioni di iscritti), ha causato cinquanta milioni di morti, di cui una decina gassati o fatti morire di stenti nei campi di sterminio. Hitler, tra l'altro, era cattolico e ci sarebbe molto da dire sulle radici religiose dell'antisemitismo nazista, che sfocerà nella soluzione finale (per secoli, nella cristianità europea idealizzata dagli intellettuali teo-con, antigiudaismo teologico e persecuzioni antiebraiche sono andati a braccetto) – ma andrei fuori tema.

    Fatto sta che nessuno ha mai chiesto seriamente di scacciare i tedeschi dall'Europa nel dopoguerra. Li abbiamo denazificati e ce li siamo tenuti. Decisione saggia oltreché giusta: la Germania è oggi uno dei pilastri più solidi dell'UE.

    Tornando all'odio e al disprezzo: sul web dilaga il culto postumo di Oriana Fallaci, Cassandra inascoltata, povera vittima della sinistra radical-chic e salottiera. Dopo le stragi io non ho cambiato idea: ero contro ogni fanatismo e intolleranza prima, e lo sono ancora; ero a favore di un multiculturalismo urbanizzato prima, e lo sono ancora. Ho sempre trovato insopportabile la demonizzazione della Fallaci, che, bisogna ammetterlo, proviene da una storia di sinistra: da ragazza fu partigiana nelle formazioni di Giustizia e Libertà, e la sua cultura politica è una sorta di anarchismo illuministico (il che dimostra che l'intolleranza non è appannaggio della destra e dei fanatici religiosi: ce n'è anche in certe pieghe nascoste della cultura laica). Non mi è mai andato a genio neppure il modo furbesco con cui la destra più retriva, quella guerrafondaia, l'ha arruolata per fomentare le sue campagne d'odio antislamiche.

    Sono d'accordo con Galli Della Loggia su un punto: è moralmente degna "una collera della giustizia". Questo genere di rabbia è liberatrice ed energetica: ci stimola a reagire all'ingiustizia. Ma, prosegue Della Loggia, di fronte a certi crimini contro l'umanità, anche l'odio è plausibile, quasi d'obbligo. "Non era forse giusto odiare i Kapò dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina?" ("Gli europei smarriti di fronte alla violenza", Corriere della Sera, 23/11/2015). Certo, questa è una reazione umanissima. Avremmo tutto il diritto di odiare anche i terroristi che uccidono innocenti. Attenzione, però: l'odio, che ci viene più spontaneo dell'amore, è un sentimento ribelle e prepotente. E' impossibile addomesticarlo. L'odio reclama vendetta, non giustizia. L'odio è cieco: colpisce a casaccio, senza guardare in faccia a nessuno.

    Proprio gli scritti della Fallaci esemplificano bene come l'odio, una volta evocato, sia impossibile da circoscrivere. "Ho e devo avere il diritto di odiare chi voglio". Lei però non odiava solo i Bin Laden e i kamikaze, cosa umanamente comprensibile. No, lei odiava anche i Noam Chomsky, i Michael Moore, personaggi della sinistra radicale apostrofati come "collaborazionisti", "traditori", "complici" dei terroristi. Questo è lo stesso linguaggio e lo stesso immaginario fideistico dei giacobini e degli estremisti — laici o religiosi non importa>>> Continua la lettura sul sito

 

martedì 1 dicembre 2015

Parole d’autore

FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/

  

Una nuova rubrica arricchisce il Blog della Fondazione Nenni. Grazie alla studiosa Francesca Vian ogni settimana sarà analizzata una "parola d'autore" di Pietro Nenni. Nel campo della politica, è nota la creatività oratoria del socialista Pietro Nenni, a cui sono riconosciute ardite e colorite doti di innovatore in campo lessicale e nel campo della comunicazione politica: a lui, ad esempio, sono ricondotte invenzioni linguistiche come, tra le altre, "stanza dei bottoni", "vento del Nord", "tintinnar di sciabole", "politica delle cose", ma non solo; sono tantissime le parole d'autore di Pietro Nenni. Un lavoro straordinario quello della dottoressa Vian che ci riserverà molte sorprese. Cominciamo con la parola "partigiano". 

 

di Francesca Vian

 

Pietro Nenni è il padre della parola partigiano, sia come sostantivo, sia come aggettivo. Gli assegna la paternità di questo termine il Grande dizionario italiano dell'uso, diretto da Tullio De Mauro.

    Nenni introduce la parola russa partizan in Italia, nell'accezione di "membro di gruppi armati irregolari che si battono contro i tedeschi", e insiste per farne il nome dei combattenti.

    Nell'agosto-settembre del 1941 scrive in "Lo stato operaio": "L'aggressione hitleriana contro l'Unione Sovietica; la guerra che ne è derivata, e nella quale l'esercito rosso e i "partigiani" bolscevichi hanno già scritto pagine memorabili di eroismo e di gloria". Partigiani è fra virgolette nel testo, segnale che Nenni sapeva di utilizzare una parola nuova, e voleva farlo. Una parola nuova per una drammatica circostanza "nuova", a scanso di equivoci. L'anno successivo, nel 1942, anche Palmiro Togliatti utilizza la voce partigiano.

    Dal 1943, Nenni cerca poi di imporre la parola. Non è facile stabilire quale nome assumere nella guerra contro i nazisti; i combattenti vengono chiamati in tanti modi, primo fra tutti "patrioti", ma questa guerra "non è affatto nazionalista o imperialista", scrive Nenni in "Una sola parola d'ordine", nell'Avanti! clandestino del 15 dicembre 1943. Nello stesso articolo insiste con la voce "partigiano": "Né è un caso che il popolo italiano si ponga spontaneamente in linea con le esigenze della guerra partigiana e assuma da solo, nell'assenza di ogni autorità costituita, l'iniziativa e la responsabilità della condotta di questa."

    "Esso si schiera idealmente al fianco dei partigiani dei territori occupati."

    "il Partito mobilita i compagni di tutta Italia e addita a essi una precisa direttiva da seguire: impiegare ogni energia, ogni uomo, ogni momento per la lotta partigiana". >>> Continua la lettura sul sito

 

mercoledì 25 novembre 2015

Vittoria Nenni, la biografia

FONDAZIONE NENNI - http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

27 novembre, Roma: Presentazione volume su Vittoria Nenni

 

La Fondazione Nenni è lieta di invitarvi alla presentazione della prima biografia su Vittoria, terzogenita di Pietro Nenni, vittima della barbarie nazifascista, morta ad Auschwitz nel 1943.

    Il saggio di 195 pagine è di Antonio Tedesco, arricchito dalla Prefazione del Segretario della UILPA Nicola Turco. Introduzione del Presidente della Fondazione Nenni Giorgio Benvenuto.

    Una pubblicazione della Biblioteca della Fondazione Nenni in collaborazione con la UILPA e la Fondazione Buozzi.

 

mercoledì 18 novembre 2015

Italiani nel mondo - Una lettera dai Paesi anglofoni

 I sottoscritti Consiglieri della rinnovata Commissione Continentale per i Paesi Anglofoni Extraeuropei del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, in attesa di ricevere la documentazione di accompagnamento alla legge di stabilità ora all’esame del Parlamento, sulla base delle notizie finora pervenute sui nuovi devastanti tagli apportati a tutti i capitoli di spesa del MAECI relativi agli italiani all’estero, nonché alla discriminazione contenuta in un Decreto del MEF sulle detrazioni fiscali, chiedono agli esponenti del Governo e ai signori legislatori di rispondere chiaramente prima di tutto alla seguente domanda: l’Italia considera ancora come parte portante della sua proiezione all’estero i quasi 5 milioni di cittadini italiani iscritti all’AIRE e gli oltre 160 milioni di italo-discendenti, come calcolati da Piero Bassetti, nel suo Globus et Locus?

    Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, nel corso della sua missione in America Latina presuppongono una risposta positiva a questa nostra sollecitazione di chiarimento. Chiediamo dunque perché nella legge di stabilità e nel decreto regolamentare 21.9.2015 del MEF si proceda a:

•          diminuire ulteriormente, ben al di sopra del taglio del 10% imposto trasversalmente a tutti i Ministeri, i già esigui finanziamenti agli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero: Com.It.Es., Intercomites e CGIE, tagli che di fatto impediranno lo svolgimento dei compiti e l’effettuazione delle riunioni previste tassativamente dalle rispettive leggi istitutive, esponendo i loro componenti a commettere gravi infrazioni della normativa che li governa e ad essere perciò perseguibili senza alcuna colpa da parte loro;

•          ridurre oltre la soglia di criticità i contributi all’insegnamento della lingua e della cultura italiane all’estero, volani di italianizzazione dei gusti del mercato mondiale e strumento insostituibile di promozione del Sistema Paese, prevedendo un’erogazione di fondi che sono al disotto dell’1% delle risorse destinate da altre Nazioni a favore delle proprie lingue e culture. Questo mentre si continuano a convocare Convegni, organizzare Tavole rotonde, annunciare nuove politiche di intervento, garantire che la diffusione della nostra lingua e la promozione della nostra cultura costituiscono priorità assolute degli interventi da realizzare;

•          assegnare una mera elemosina all’assistenza indiretta per le rimanenti fasce più deboli delle comunità di più antica tradizione, negando i diritti di cittadinanza ed i princìpi di solidarietà sanciti dalla Costituzione italiana;

•          decretare che soltanto gli italiani che lavorano negli Stati membri dell’Unione Europea hanno diritto alle detrazioni per carichi familiari, mentre tutte le leggi finanziarie dal 2007 al 2014 hanno stabilito che tale diritto spetti a tutti i residenti fuori d’Italia che soddisfino le condizioni fissate per legge e il totale dei destinatari di tale agevolazione è costituito da un numero irrisorio di persone nel mondo.

 

Silvana Mangione, USA, Vice Segretario generale Anglofoni extraeuropei uscente; Franco Papandrea, Australia, componente del Comitato di presidenza uscente; Riccardo Pinna, Sud Africa, componente del Comitato di presidenza uscente; Rocco Di Trolio, Canada, componente Commissione Assistenza Sociale uscente; Vincenzo Arcobelli, USA, neoeletto.

 

martedì 10 novembre 2015

Ripartire dalla cultura?

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 Nel 2013, nonostante la crisi economica, 100 milioni di persone hanno visitato nel nostro paese un museo o un sito. Nel rilanciare il settore non si può che far tesoro di dati come questo. A patto di farlo con un minimo di organizzazione e di serietà.

 

di Stefano Landi

Presidente Sl&a Turismo e Territorio

 

Non è facile ricostruire la storia recente del turismo italiano, e soprattutto non è facile capacitarsi del perché, anche contro il senso comune, le cose vadano come vanno, perché le competenze siano così disorganiche, perché sia così difficile metterci mano in una logica di maggiore efficienza o quanto meno razionalità. Si sente spesso dire in giro che “il nostro futuro è nel turismo, e la cultura è il nostro il petrolio, ma non lo sappiamo sfruttare”. Un luogo comune che sempre più spesso si intreccia con le competenze del ministero per i Beni e le Attività culturali ed il Turismo, che il titolare Dario Franceschini ha definito “il più importante ministero economico italiano.

    La domanda che ci poniamo e a cui cerchiamo di rispondere con la ricerca “Turismo, vent’anni senza”: si può ripartire dalla cultura, per rilanciare il turismo? Proviamo a spiegarlo, ponendo in evidenza statistiche e numeri molto importanti e significativi. Secondo le ultime indagini ufficialmente disponibili, la motivazione culturale influenzerebbe quasi il 40% dei turisti internazionali: nel 2013 in 48 milioni hanno visitato il nostro Paese. Abbiamo quindi 18 milioni di stranieri attratti dalla cultura. Tra i turisti italiani, invece, la motivazione culturale di vacanza in Italia “pesa” per il 24%, su un totale di 55 milioni di viaggiatori 2013, e quindi spiega 13 milioni di turisti domestici. I “turisti culturali” sono pertanto soprattutto stranieri.

    Considerando ancora le ultime indagini disponibili sui vacanzieri (italiani e stranieri in Italia) e in particolare i dati sulla permanenza media e la spesa, si arriva a stimare una spesa complessiva dei turisti culturali pari a 9,3 miliardi, di cui il 60% generata dai turisti stranieri: sono sempre loro, quindi, i più grandi “consumatori” di cultura in vacanza. Applicando i moltiplicatori settoriali diretti e indiretti della produzione dovuta alla domanda turistica si stima che il valore aggiunto generato dalla domanda turistica culturale ammonta a oltre 6,3 miliardi di euro, e l’occupazione sostenuta da questa domanda raggiunge e supera 186 mila unità di lavoro.

    In Italia, nel 2013, nonostante la crisi che ha falcidiato anche queste spese, 100 milioni di persone hanno “effettuato un consumo di bene culturale”, visitando un museo o un sito. Di questi circa 52 milioni erano italiani (70% residenti o escursionisti, 30% turisti pernottanti) e 47 milioni stranieri (42,2 milioni turisti pernottanti, 4,7 milioni invece escursionisti, come i crocieristi). Si valuta che gli italiani siano stati in netto calo, gli stranieri invece in crescita; ma non ci sono dati precisi, perché incredibilmente non vengono rilevati. Di nuovo si verifica che il principale gruppo di “paganti in biglietteria” è costituito dai turisti stranieri… >>> Continua la lettura sul sito rassegna.it

 

mercoledì 28 ottobre 2015

Amore naturale e famiglia Mulino Bianco

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

Una dignitosa legge libertaria che consenta a persone dello stesso sesso di sposarsi porterà all’eguaglianza dei diritti, non all’apocalisse.

 

di Edoardo Crisafulli

 

Il punto non è se Papa Francesco abbia ragione o torto (io, lo confesso, provo un’istintiva simpatia per questo personaggio carismatico che, con umiltà e coraggio, vuole riformare la Chiesa cattolica). Il punto è un altro: ha un’organizzazione religiosa – direttamente o tramite i suoi fedeli impegnati in politica – il diritto di imporre la propria visione morale allo Stato, ovvero alla totalità dei cittadini? Io, da buon laico, dico di no. Lo Stato ha un solo compito: far rispettare una morale laica universale, che è quella espressa nella sua Costituzione e nelle sue leggi.

    La questione del matrimonio omosessuale non ha nulla a che fare con la verità. Ha invece tutto a che fare con la libertà di scelta nella sfera umana la più intima, quella che riguarda gli affetti. Io non penso che la mia visione del mondo sia più giusta di quella cattolica o musulmana. So di essere fallibile! Rivendico solo il diritto sacrosanto di vivere secondo il mio concetto di moralità, giusto o sbagliato che sia per gli altri. Non temo il tribunale divino – dubito che esista quel Dio tirannico e capriccioso che alcuni religiosi evocano. Temo ben di più il tribunale degli uomini. Ed è per questo che sono lieto di vivere in una città secolare, in cui i giudici si occupano di questioni penali e civili, non di etica, che è affare privato. Papa Francesco ha un animo mite, e la Chiesa cattolica non è più sul piede di guerra – grazie a Giovanni XXIII ha fatto i conti con la modernità, benché non fino in fondo. Ma non dimentichiamo che lo Stato laico è una grande conquista di civiltà, e va sempre tutelato. Il principio laico-liberale è superiore a quello clericale in questo: se vince il laico, l’integralista potrà continuare a professare la sua fede; se vince l’integralista, il laico verrà menomato nelle sue libertà: la sua morale sarà fuori legge.

    Quando si discute, anche fra laici, di verità morale, mi viene in mente la formidabile domanda retorica rivolta da Ponzio Pilato a Gesù: quid est veritas? Noi liberal-socialisti, figli dell’illuminismo, dobbiamo molto allo scetticismo pagano. È ovvio che siamo debitori anche nei confronti del cristianesimo e dell’ebraismo – il concetto di caritas è la scintilla del nostro amore laico per l’umanità. Ma la caritas non può fugare il dubbio razionale che è in me. L’unica cosa di cui sono certo sono le mie incertezze (e infatti mi definisco agnostico: anche nella professione di ateismo c’è troppa sfrontata certezza). Per rimanere in tema: uno dei miei dubbi riguarda proprio le cosiddette sempiterne leggi di natura. Che la riproduzione fra maschio e femmina sia il meccanismo che consente la continuazione della specie è lapalissiano. Ma cosa c’entra questo con il matrimonio omosessuale? Una dignitosa legge libertaria che consenta a persone dello stesso sesso di sposarsi porterà all’eguaglianza dei diritti, non all’apocalisse.

 

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La “lunga marcia” di un’Idea che non muore

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

 

Ancora una volta il socialismo italiano si dimostra "un'Idea che non muore", come disse Matteotti. E non è poco, a fronte della crisi senza ritorno in cui versano le tradizioni politico-culturali che hanno sempre avversato il PSI, dal comunismo sovietico al fascismo, dal liberismo selvaggio al fondamentalismo religioso. Carlo Correr ha scritto una storia di quei socialisti italiani che, dopo il crollo del '93, si sono riorganizzati, rimanendo nel centro-sinistra, senza tuttavia confluire nel Pci-Pds-Ds. Il volume di Correr fornisce una memoria storica a chi voglia approfondire le vicende più recenti della più antica e nobile famiglia politica italiana, attualmente ridotta ai "minimi termini" e tuttavia ancora viva...

 

di Alfonso Siano

 

Il nuovo libro di Carlo Correr "Una lunga marcia", edito da MondOperaio, è il racconto dei socialisti italiani dal 1993 ad oggi, il racconto della lunga diaspora di un movimento e di un Partito che alle elezioni politiche del 1992 aveva ottenuto alla Camera oltre cinque milioni di voti, pari al 13,62% e che, due anni dopo, dopo gli eventi di Tangentopoli, era ormai crollato al 2,19%.

    Correr racconta dapprima le "avventure" dei socialisti rimasti nello schieramento di centrosinistra che si ritrovarono nello SDI di Boselli. Nato nel 1994, lo SDI è l'organizzazione che compie il percorso più importante, con tappe difficili, ma che la vedono comunque sopravvivere. Fino al disastro del 2008.

    All'epoca Veltroni preferì per le elezioni politiche l'apparentamento con l'Italia di Valori di Di Pietro, lasciando ai socialisti la scelta se entrare, in posizione subalterna e fortemente filtrati, nelle liste del PD o, viceversa, concorrere con il proprio simbolo. I socialisti preferirono andare avanti da soli ma fu una pesante sconfitta, con l'onta, la prima volta nella storia del movimento socialista, dell'uscita dal Parlamento, nel contesto di una disfatta mortificante per tutto il centrosinistra, tanto che Veltroni fu costretto alle dimissioni.

  

Il libro ricorda come alcuni militanti della destra invocarono allora, ironicamente, il "Santo subito" per Veltroni, replicando l'invocazione dei fedeli di Piazza San Pietro alla morte di Papa Woytjla tre anni prima. Il segretario dei DS, contribuendo alla nascita di una legge elettorale bipolare e poi escludendo dalla competizione i Partiti minori della sinistra, aveva ai loro occhi avuto il "merito" di prodotto in un solo colpo questo triplice risultato: la caduta del Governo Prodi, la cancellazione di socialisti e comunisti dal Parlamento e, a Roma, la vittoria di Alemanno con la candidatura di Francesco Rutelli.

    Di questo e di tanti altri episodi che hanno interessato i socialisti dal 1993 ai nostri giorni, ci racconta Carlo Correr dal suo privilegiato punto di osservazione. L'autore, che ha utilizzato per la sua opera anche corrispondenze e documenti riservati, ripercorre non solo le motivazioni profonde, ma fornisce anche i retroscena di tanti avvenimenti, senza tralasciare le note di colore.

    E la sua ricostruzione non si limita solo ai socialisti che dopo al 1993 hanno militato nel centro sinistra, ma narra anche le vicende di quegli ex esponenti del Psi che – essendo inizialmente scesi in campo a fianco di Silvio Berlusconi, attratti dalla promessa di una "rivoluzione liberale" e alla ricerca di un argine garantista al cosiddetto "partito dei giudici" – sono poi rimasti delusi dal leader del centro-destra tanto da finire per rientrare nella casa comune.

    "Una lunga marcia" fa emergere come il movimento socialista, anche se ridotto ai minimi termini dopo il 1993, abbia sempre rifiutato la semplice confluenza nel PCI-PDS-DS, sforzandosi di mantenere posizioni autonome per preservare lo spirito riformatore che lo distingueva dal fratello maggiore del centrosinistra. Sono così nate nel tempo varie alleanze elettorali con valenza tattica e nella necessità di superare gli sbarramenti elettorali: da quella con Rinnovamento Italiano di Dini, a quella con i Verdi, all'esperienza della Rosa del Pugno con i Radicali di Pannella.

    Nel 2008 Riccardo Nencini succede a Boselli alla guida dell'organizzazione, che ritrova il suo nome originario: Partito Socialista Italiano. Viene scelto un nuovo simbolo e Nencini si riappropria anche della testata Avanti!, che comincerà ad essere quotidianamente presente in rete.

    Cinque anni dopo i socialisti rientrano in Parlamento, ma è dal 1993 ormai che stanno conducendo una lunga marcia per garantire la sopravvivenza di una organizzazione politica autonoma. E proprio la necessità impellente di sopravvivere, il comprensibile rifiuto di annullarsi nel Partito degli ex comunisti, li hanno portato nel tempo ad alleanze con realtà politiche anche distanti nel rischio permanente di diaframmare la loro riconoscibilità politica.

    Correr è fiducioso nel futuro del PSI e si dice convinto che la lunga marcia continuerà ancora. Dietro l'angolo potrebbe esserci una riedizione della "Rosa del Pugno" e dunque una nuova alleanza con i Radicali, sempre al fine di superare l'ennesimo sbarramento elettorale del 3% previsto stavolta dall'Italicum. Quest'alleanza darebbe nuovo impulso alle battaglie sui diritti civili ma, al contempo, potrebbe piacere di meno all'elettorato che invece guarda ai socialisti come tutela attiva, competente ed efficace sulle politiche sul lavoro, senza contare il ruolo storico del PSI come punto di equilibrio riformista tra le spinte alla scolarizzazione selvaggia e le controspinte dell'immobilismo valoriale.

    In uno scenario in cui il Partito Democratico a trazione riformista potrebbe subire la concorrenza elettorale di un soggetto che potrebbe nascere a sinistra con Fassina, Civati, Landini, esponenti di Sel su posizioni più tradizionali, non sarebbe forse preferibile rafforzare l'alleanza con il PD? In fondo con esso i socialisti condividono l'adesione al PSE oltre che una consonante esperienza di Governo.

    Solo il tempo dirà se il gruppo dirigente nenciniano, che fino ad ora ha mostrato la capacità di sopravvivere, sia anche in grado di rilanciare il PSI in una prospettiva di rilievo vero e determinante.

    In attesa di ciò, il lavoro di Correr colma un vuoto e può certamente contribuire al dibattito politico italiano, mai così bisognoso di Storia e di Idee.

 

Carlo Correr, Una lunga marcia - I socialisti italiani dopo il 1993

Nuova Editrice MondOperaio – pagg. 298 – euro 14

Si può acquistarlo in libreria oppure rivolgendosi direttamente a:

mondoperaio@mondoperaio.net - carlocorrer@avantionline.it

 

lunedì 7 settembre 2015

Io, nipote di profughi

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

Noi che una patria, per quanto sgangherata, ce l’abbiamo; noi che una casa, pur modesta, ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.

di Edoardo Crisafulli

Mia nonna paterna, Edwige Schwartze, mi raccontava spesso la storia della nostra famiglia: “quand’ero bambina vivevamo in pace in Transilvania, la nostra Siebenbürgen, nel cuore dell’Impero austro-ungarico. Eravamo di lingua e cultura tedesca, ma ci sentivamo ungheresi. Eravamo felici e sereni. Poi deflagrò quell’orribile guerra, nel 1914. Pochi anni dopo, con la sconfitta degli Imperi centrali, il nostro mondo crollò. Iniziarono i disordini, e si cominciò a patire la fame, a noi sconosciuta fino ad allora. La Transilvania venne ceduta alla Romania, che aveva combattuto contro l’Impero austro-ungarico.

L’Ungheria precipitò nel caos, sembrava che stesse per scoppiare una rivoluzione. Il bolscevico Bela Kuhn andò al potere, e proclamò la Repubblica sovietica ungherese. Lì iniziò il nostro calvario. Eravamo benestanti e perdemmo tutto, dalla mattina alla sera. Vivevamo nel terrore. Tuo bisnonno Emil fu imprigionato e obbligato ai lavori forzati dai comunisti ungheresi. Era un borghese, un proprietario terriero, e andava punito in maniera esemplare. Sottoposto a crudeli privazioni, si ammalò gravemente. Intanto cominciava un’altra guerra, questa volta tra Ungheria, Cecosolovacchia e Romania: Bela Kun, nel 1919, occupò parte della Slovacchia e tentò di riprendersi la Transilvania. Ma non ci riuscì. Senza più proprietà e reddito, ora eravamo anche apolidi, senza patria. In fondo, continuavamo a sentirci ungheresi di etnia tedesca. Ma l’Ungheria era in mano ai bolscevichi. E la Transilvania era rumena. Decidemmo di fuggire da una terra che la nostra gente abitava da secoli. Portammo via con noi poche cose, stipate su un carretto: qualche mobiletto, qualche ricordo, gli abiti, l’argenteria. Iniziò così un lungo e terrificante viaggio: il papà era ammalato e la mamma doveva occuparsi di 6 figli – il più piccolo aveva tre anni, il più grande dodici. Iniziarono le peregrinazioni nei Balcani, nei territori di un Impero in disfacimento, dove emergevano gli odi interetnici a lungo repressi. Subimmo soprusi e crudeltà da parte di tutti: dai rumeni (in quanto ungheresi), dai serbi (in quanto ‘austriaci’), dai croati (in quanto protestanti). Finché non arrivammo ad Abbazia, che era da poco passata all’Italia. La conoscevamo bene perché era una importante meta turistica come lo è Riccione oggi.

Ci sistemiamo in una pensioncina e non sappiamo più a che santo votarci. I nostri soldi sono carta straccia. L’argenteria l’abbiamo già venduta. Papà si aggrava. Mamma ha i nervi a pezzi. I carabinieri italiani ci hanno appena controllato i nostri documenti. Abbiamo il batticuore: ci maltratteranno anche loro? Ci cacceranno via anche loro? Capiamo poco di quel che ci dicono. Ci paiono così strani, con quelle divise buffe e quell’aria così poco marziale. Guardano i bambini e confabulano fra di loro. Noi ci stringiamo tutti assieme. Se ne vanno. Dopo una mezz’oretta si sente bussare alla porta. I carabinieri sono tornati. Mamma ha un tonfo al cuore. Apre la porta, tenendo la mia sorellina Ruth in braccio. I carabinieri gesticolano indicando dei contenitori di latta che hanno con sé. È il latte per i bambini, dicono. Noi scoppiamo a piangere. È la prima volta che veniamo trattati con umanità. Poco dopo papà ha una crisi, e viene ricoverato in ospedale. Sul letto di morte dice a mamma: ‘lasciate perdere l’Austria. Rifugiatevi in Italia. Sono certo che vi troverete bene. Gli italiani sono un popolo che ha cuore.”

Se non fosse stato per quell’episodio di generosità io probabilmente non sarei mai nato. La mia famiglia ungaro-tedesca sarebbe finita a Vienna, com’era nelle intenzioni iniziali. Mia nonna invece si stabilì in Italia con tutta la famiglia e sposò un siciliano, così nacque mio padre. La scelta non fu facile: all’epoca una ragazza ungaro-tedesca, per giunta protestante, agli occhi di un siciliano appariva esotica quanto una cinese o una afgana oggi. Mia nonna è rimasta una profuga nell’animo per tutta la vita. Non ha mai voluto possedere una casa. Non ha mai smesso di rimpiangere la sua amata Transilvania. Il dramma dei profughi lo devi toccare con mano, per capirlo. Io l’ho vissuto attraverso le narrazioni sofferte di mia nonna.

In questi mesi ho letto cose sui profughi da far rabbrividere. ‘Sono pericolosi. Ci portano malattie infettive’; ‘sono bugiardi, non scappano da guerre: vengono da noi per farsi mantenere’; ‘si lamentano e poi hanno tutti il telefonino’; ‘fra loro pullulano i criminali e i terroristi’. È questo, mi chiedo, lo stesso popolo che accolse la famiglia di mia nonna negli anni Venti del secolo scorso? Certo, ci sono le migliaia di volontari della Caritas e di altre organizzazioni benefiche. Tanti italiani si rimboccano le maniche, si prodigano e si commuovono alla vista dei disperati che cercano rifugio in Italia. Ma gli indifferenti sono tanti, troppi. È la crisi che ha indurito il cuore degli italiani? No, è il benessere che ci ha resi egoisti. Rispetto ai tempi di mia nonna abbiamo molto di più eppure siamo disposti a dare molto di meno. Diciamo che non possiamo permetterci di aiutare gli stranieri, e poi sprechiamo ogni anno tonnellate di cibo senza battere ciglio; ci arrabbiamo se i profughi rifiutano un piatto di pasta e osano pretendere un vitto diverso (cosa dovremmo dar loro, il rancio con un tozzo di pane secco?) e poi stiamo a nostro agio in una società iper-consumista, traboccante di beni superflui, che ci invita ogni giorno a sprecare e a buttare via.

Diciamola una verità scomoda: non è vero che non potremmo accogliere più profughi. È che non vogliamo farlo. Ecco perché la destra leghista e xenofoba è riuscita a scatenare una guerra fra poveri: i disoccupati e i bisognosi italiani contro i profughi e gli immigrati. I veri miserabili sono coloro che si accaniscono contro gli stranieri, i diversi per raccattare un pugno di voti. Ignobile il titolo di Libero del 27 agosto 2015. “Ai clandestini i soldi dei disabili”. Dove eravate, cari leghisti, quando per decenni di vita repubblicana impiegati, docenti, operai con i loro magri salari finanziavano le scuole e gli ospedali ai grandi evasori fiscali, tutti italianissimi? C’è una sola grande, vera ingiustizia sociale nell’Italia d’oggi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E voi che fate? Ve la prendete con i reietti, con gli ultimi, con i diseredati.

Intendiamoci: non sono un sostenitore dell’etica del Buon Samaritano a oltranza. Quando la coperta è corta, e tutti vogliono tirarla dalla loro parte, bisogna fare scelte dolorose. Comprendo l’amarezza e la delusione del disoccupato italiano che si sente trascurato dal proprio Stato. Agli italiani onesti, in regola col fisco, va riconosciuto un diritto di priorità nell’assistenza sociale. Mi pare sacrosanto. Non possiamo mica accogliere tutti: i migranti economici (quelli in cerca di lavoro) e i clandestini senza fissa dimora non hanno il diritto di rimanere in Italia a spese nostre. Ma nei confronti dei profughi e dei rifugiati politici abbiamo un obbligo morale di assistenza. Dal mio popolo mi aspetto molto di più. Voi che temete un’invasione barbarica pensate – almeno per un istante – alle sofferenze dei poveri disgraziati che fuggono dalle dittature, dalle violenze. Non vi chiedo di tornare indietro con la memoria a cent’anni e più fa, quando erano i vostri nonni e bisnonni a emigrare con le valigie di cartone. A voi, che siete orgogliosi delle radici cristiane dell’Europa, a voi che inorridite al pensiero che il canto del Muezzin rimpiazzi il suono delle campane, chiedo uno sforzo mentale in più. Vi chiedo di dedicare un momento di riflessione ai tanti profughi senza nome e senza tomba, affogati in mare.

Io, nipote di profughi, non posso dimenticare che senza la generosità degli italiani non sarei neppure nato. Voglio tramandare questa mia storia famigliare. Prima di escogitare soluzioni pratiche, prima di parlare di lotta (giustissima) agli scafisti, intendo testimoniare la sofferenza e il dolore del profugo, dell’apolide che perde tutto – a volte anche la sua stessa vita – per scappare da guerre e rivoluzioni che non ha scatenato e che lo hanno travolto. Noi che una patria, per quanto sgangherata, ce l’abbiamo; noi che una casa, pur modesta, ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.