giovedì 29 maggio 2008

NOVITÀ EDITORIALE: L'utopia laica di Philippe Grollet

E' uscito in questi giorni come pubblicazione dell'ADL su carta il volume "Laicità, utopia e necessità" di Philippe Grollet, esponente di spicco del movimento laico belga. L'edizione italiana del libro, apparso a Bruxells nel 2005, è stata curata da Vera Pegna che, insieme a Silvana Mazzoni, ha approntato anche la traduzione del testo di Grollet dal francese. E' il nono volume della collana "Tragelaphos", dedicata alla storia e alla teoria della pluralità culturale. Qui di seguito ne riportiamo la nota editoriale.

Per acquisti team@avvenirelavoratori.eu

Philippe Grollet, l'autore del presente volume, è avvocato presso il foro di Bruxelles e ha presieduto nel corso di quasi quattro decenni dapprima il Cercle du Libre Examen, poi l'associazione Bruxelles Laïque e infine il Centre d'Action Laïque. Siamo lieti e onorati di poter rendere accessibile il suo pensiero alle nostre lettrici e ai nostri lettori.

Laicità, utopia e necessità propone al pubblico italiano un resoconto di esperienze e di riflessioni che provengono dalla società civile belga impegnata in difesa dell'uguaglianza tra tutti i cittadini nel libero esercizio del pensiero, della parola, del culto e del pluralismo culturale.

Il presente volume contiene una preziosa Prefazione del professor Manacorda, che ringraziamo con deferenza; segue di tre anni l'altra nostra pubblicazione recente nel medesimo ambito tematico, intitolata La laicità indispensabile, in cui avevamo raccolto gli atti dell'omonimo convegno tenutosi a Roma nel 2003 per iniziativa dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti (uaar).

Tanto Laicità, utopia e necessità quanto La laicità indispensabile sono state curate da Vera Pegna, cui si ascrive anche il merito d’aver contribuito in modo determinante alla promozione del convegno romano del 2003.

Da allora sono trascorsi cinque anni, si sono moltiplicati gli incontri, sono apparse varie pubblicazioni: la laicità anche nel nostro Paese è ritornata al centro del dibattito. L'Italia laica accorcia così le distanze che tradizionalmente la separano su questo tema dall'opinione pubblica europea e internazionale.

Pietro Morettini - tra architettura militare e civile

La figura e l’opera di Pietro Morettini (1660-1737) in un volume curato da Marino Viganò edito da Casagrande con il titolo di “Petrus Morettinus Tribunus Militum”. Un ingegnere della valle Maggia all’estero. Nella fulgida carriera del ticinese si ha la dimostrazione di come, anche in passato, la volontà di cambiare ambiente riservasse all’emigrante con una buona dose di ingegno vantaggi, risorse e conoscenza.

di Giuseppe Muscardini
Della preparazione scientifica di Marino Viganò ci accorgemmo, ammirati, un giorno di ottobre del 2006, quando lo studioso prese la parola nell’ambito di un convegno per un interessante intervento dal titolo “Quarantecinq pieds de largeur, et quinte pieds de profondeur”… Misure e fabbriche della fortezza di Namur in contratti d’appalto di Pietro Morettini (1696- 1697). Non solo quell’intervento fu puntualmente pubblicato nello stesso anno all’interno del volume Le misure del Castello. Un percorso per la conoscenza dell’architettura fortificata. Atti del convegno di Studi Castellologici, a cura di Franca Manenti Valli, Felina, Istituto Italiano dei Castelli, 2006; ma ne segue ora un corposo volume edito in bella veste tipografica da Casagrande, dove lo studioso raccoglie il frutto di approfondite ricerche su Pietro Morettini. L’ampio studio di Marino Viganò, pubblicato grazie al Fonds national suisse de la recherche scientifique – Division des Sciences Humaines diretta dall’illustre professor Leonardo Benevolo presso l’Accademia di Architettura dell’Università di Mendrisio, costituisce il più aggiornato contributo sull’ingegnere che tanta parte ebbe nella progettazione e nella stessa edificazione degli apparati difensivi di diverse città europee fra Sei e Settecento.

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La puntuale ricostruzione biografica del Morettini, ricca di rimandi alle fonti archivistiche, non lascia dubbi sul talento del personaggio, nato nei pressi di Cerentino nella val Maggia all’epoca in cui i luoghi in questione si configuravano territorialmente come baliaggio italiano della Confederazione svizzera. Nella cronologia, ma soprattutto nel contributo iniziale dal titolo Le petit Moretin, Marino Viganò ben inquadra il contesto geopolitico della val Maggia, consentendo al lettore di comprendere come all’epoca i giovani mirassero a sprovincializzarsi attraverso esodi in luoghi lontani, dove poter dare prova di professionalità faticosamente raggiunte. Nel caso di Pietro Morettini l’esodo a Namur, cittadina fortificata dei Paesi Bassi spagnoli, non fu invece una scelta volontaria ma obbligata. All’epoca il giovane prestava servizio come militare “francese”, in anni cioè in cui la fortezza di Namur era stata riconquistata (1692) da Luigi XIV. Da quel momento i diversi spostamenti in Europa lo consacrarono valido ingegnere e “Tribunus Militum”, impegnandolo nell’arduo compito di ampliare, ricostruire, progettare i sistemi difensivi in molte città europee, da Besançon a Nimega, da Savona ad Ajaccio, da Novi Ligure a Rapperswil e Lucerna. Ma si cimentò anche nell’architettura civile con rilevanti opere idrauliche, che nel Locarnese e altrove attestarono a lungo la sua capacità intuitiva, razionalmente supportata dalle buone conoscenze. Perizia che gli procurò un conveniente contratto d’appalto per l’apertura nel 1707 della galleria nella gola Schöllenen, nei pressi del passo del San Gottardo. Inaugurata nell’agosto del 1708, anticipando di molto le previsioni sulla data del termine dei lavori, la galleria aperta da Pietro Morettini vantava una lunghezza di sessantaquattro metri, e fu presto conosciuta con la denominazione di Urnerloch, la Buca di Uri.

Dell’ingegnere svizzero, di cui Marino Viganò ci fornisce informazioni desunte da ricerche scrupolose, non si hanno testimonianze iconografiche che possano dare un’idea del suo aspetto e delle sue sembianze fisiche. Ben nitide, invece, sono le iscrizioni sulla semplice lapide sepolcrale, posta nella navata sinistra della ex chiesa di San Rocco e San Sebastiano di Locarno, oggi sede dell’istituto Sant’Eugenio. Vi si legge con chiarezza che Petro Moretino militum tribuno morì il 16 marzo 1737, d’anni 76.

*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara e lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica di Ferrara. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Italianistica", "Filologia e critica", "Belfagor", "Letteratura & società", "Letteratura & Arte", "Dibattito Democratico", "IBC Informazioni commenti e inchieste sui beni culturali" e "Chroniques italiennes". Collabora inoltre con i periodici e media elvetici "La Regione Ticino", "Cartevive", "La Rivista del Mendrisiotto", Il Grigione italiano", "Il Bernina", "Quaderni grigionitaliani", "Terra cognita", "Seniorweb.ch", "Pagine d'Arte" e "Radio Campione International". È membro attivo dell'"Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ).

giovedì 22 maggio 2008

Olà, olà, viva la libertà!

Perle di lirica rumena
di Evgene Tanase
Ci andavano
come si va ad una partita di pallone,
pieni d’ardore;
felici della loro giovinezza in fiore…
E cantavano
“Olà, olà,
Viva la libertà!”
Hanno sparato su di loro,
molti cadevano,
ma come in un sogno
continuavano ad avanzare come sonnambuli
senza preoccuparsene affatto,
con il loro bel grido di guerra:
“Olà, olà,
Viva la libertà!”
Era la generazione di quel vile e famoso decreto,
i bambini che le madri non avevano voluto;
lo sapevano
e sembravano dire:
“È risaputo che non ci volevate;
ma siamo comunque venuti al mondo
per rovesciare il tiranno pazzo.
“Olà, olà,
Viva la libertà!”
Le mitragliatrici ricominciavano,
ma non le sentivano proprio,
non vedevano
niente
di ciò che accadeva.
No, marciavano
diritto contro le baionette,
contro i carri blindati;
molti cadevano
essendo di vedetta,
ma tutti cantavano
mentre spiravano:
“Olà, olà,
Viva la libertà!”
“È per voi, madri,
per le vostre pene
che cantiamo,
che moriamo;
è per restituirvi ciò che vi è stato rubato:
la Dignità,
la Libertà,
Olà, ol…!”

Da "L'empietà di Marte" di Giuseppe Muscardini, Ed. ADL, Zurigo 2007

giovedì 8 maggio 2008

PUBBLICAZIONE: L'utopia laica di Philippe Grollet

Esce in questi giorni come pubblicazione dell'ADL su carta il volume "Laicità, utopia e necessità" di Philippe Grollet, esponente di spicco del movimento laico belga. L'edizione italiana del libro apparso a Bruxells nel 2005 è stata curata da Vera Pegna che, insieme a Silvana Mazzoni, ha approntato anche la traduzione del testo di Grollet dal francese. E' il nono volume della collana "Tragelaphos", dedicata alla storia e alla teoria della pluralità culturale. Qui di seguito ne riportiamo la nota editoriale.

Philippe Grollet, l'autore del presente volume, è avvocato presso il foro di Bruxelles e ha presieduto nel corso di quasi quattro decenni dapprima il Cercle du Libre Examen, poi l'associazione Bruxelles Laïque e infine il Centre d'Action Laïque. Siamo lieti e onorati di poter rendere accessibile il suo pensiero alle nostre lettrici e ai nostri lettori.

Laicità, utopia e necessità propone al pubblico italiano un resoconto di esperienze e di riflessioni che provengono dalla società civile belga impegnata in difesa dell'uguaglianza tra tutti i cittadini nel libero esercizio del pensiero, della parola, del culto e del pluralismo culturale.

Il presente volume contiene una preziosa Prefazione del professor Manacorda, che ringraziamo con deferenza; segue di tre anni l'altra nostra pubblicazione recente nel medesimo ambito tematico, intitolata La laicità indispensabile, in cui avevamo raccolto gli atti dell'omonimo convegno tenutosi a Roma nel 2003 per iniziativa dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti (uaar).

Tanto Laicità, utopia e necessità quanto La laicità indispensabile sono state curate da Vera Pegna, cui si ascrive anche il merito d'aver contribuito in modo determinante alla promozione del convegno romano del 2003.

Da allora sono trascorsi cinque anni, si sono moltiplicati gli incontri, sono apparse varie pubblicazioni: la laicità anche nel nostro Paese è ritornata al centro del dibattito. L'Italia laica accorcia così le distanze che tradizionalmente la separano su questo tema dall'opinione pubblica europea e internazionale.

Se può apparire curioso che a una vecchia editrice d'emigrazione, giunta al centodecimo anno d'attività, sia toccato il privelegio di fornire impulso al dibattito circa la laicità in Italia – tema sul quale durante gli anni Novanta gravava un plumbeo silenzio mediatico –, occorre tuttavia ricordare che l'impegno de L'Avvenire dei lavoratori su questo fronte non è certo nuovo. Per lungo tempo, durante il ventennio fascista, la nostra testata rappresentò l'unica voce libera di netta ed ininterrotta opposizione al regime mussoliniano, al clericalismo concordatario, alle persecuzioni religiose e razziali.

Le ragioni per cui oggi la "Questione laica" (insieme, per inciso, alla "Questione sociale") ritorna di bruciante attualità, le ragioni per cui ciò avviene ben oltre i confini nazionali, risiedono a nostro giudizio nel compito generale della politica contemporanea: l'umanità è posta di fronte all'esigenza, grande e drammatica, di costituire un governo pacifico dell'economia globalizzata e delle pluralità culturali. Si staglia all'orizzonte una sfida immane, alla quale proprio perciò ogni soggetto è chiamato a dare un contributo, per piccolo che esso sia.

Laicità, utopia e necessità, chiusa in stampa dal dicembre scorso, esce con qualche mese di ritardo rispetto ai programmi editoriali 2007. Ce ne scusiamo con gli abbonati: abbiamo preferito evitare una possibile, ma impropria, funzionalizzazione di questo libro nella spettacolarità elettorale in atto. Predisponendo l'uscita del presente quaderno a urne chiuse intendiamo lanciare un appello alla coscienza politica di tutti e di ciascuno affinché la "Questione laica" cresca anche in avvenire come istanza – utopica e necessaria – di Giustizia e di Libertà. (AE / Zurigo, 3 aprile 2008)

martedì 6 maggio 2008

LO STATO D'ISRAELE HA SESSANT'ANNI

Dibattito - La sinistra e Israele

di Claudio Vercelli
Qualche considerazione sull’articolo di Vera Pegna "Sionismo o pace: la scelta è vostra" (ADL 28.4.08), tenendo ferma la legittimità dello Stato d’Israele, che il 14 maggio compie sessant'anni. La sua nascita nel 1948 non è l’esito di una «proclamazione unilaterale». Nessun paese si è formato senza attriti con coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione. Il vero problema, per i palestinesi non è quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato.

Si può spiegare la nascita di uno Stato e, ancor di più, le ragioni per le quali continua ad esistere? C’è un presupposto che renda legittima, una volta per sempre, la sua presenza sulla terra, nel consesso internazionale? Perché tali quesiti vertono sempre sull’azione e l’esistenza medesima di alcuni Stati – uno in particolare - e mai sugli altri? Sono queste, tra le altre, le domande che ci si pone leggendo l’articolo di Vera Pegna dedicato a Sionismo o pace: la scelta è vostra.

Già il titolo, stabilendo un legame avversativo e una reciprocità inversa tra ciò che viene definito «sionismo» (un complesso di fatti storici ma, soprattutto, un insieme di condotte ripetute nel tempo, corroborate da convincimenti ideologici basati sulla volontà di sopraffare) e una ipotetica pace (che si darebbe in alternativa al sionismo medesimo), induce a riflettere su quale sia l’indirizzo che l’autrice intende affermare fin da subito con le sue parole. Che sono una cortese raccolta di luoghi comuni su Israele, irritante come lo sanno essere quei giochi di carte, fatti da abili prestigiatori, che nel prometterci la possibilità di una qualche vittoria ci defraudano anticipatamente di ogni reale possibilità in tal senso.

Ancora una volta, se mai occorresse, ci troviamo dinanzi alla manifestazione di quello che è un assunto di principio, un assioma tolemaico tenacemente diffuso (Israele è un Stato abusivo), non molto diversamente da come, fino al XVI secolo, per i più la terra era piatta. Se allora c’era una falsa evidenza, derivante dalla percezione empirica, quella di poggiare i piedi su una striscia piana e continua, oggi per certuni c’è l’inossidabile certezza che Israele sia solo ed unicamente un’«entità sionista». La si desume, nella lettura dell’articolo, dalla misura in cui il dato storico della nascita e della crescita di una paese è ridotto alla concreta manifestazione di un «progetto» (una intenzione preordinata non solo cronologicamente ma anche e soprattutto logicamente), quello per l’appunto sionista, fondato sull’evidente intendimento di disconoscere i diritti di chi ebreo non è. In tale volontà, sostanzialmente razzista (come definirla, altrimenti?) si sostanzierebbe l’intera parabola d’Israele, la sua intima ragione d’essere, il suo vizio d’origine che si trasforma in torto d’esistere.

Dalla confusione tra i due piani Vera Pegna, invece, fa discendere immediatamente un viatico per la delegittimazione tout court di una società che viene descritta come il prodotto artificiale di una volontà eterodiretta, il «sionismo», per l’appunto, che governerebbe arcanum imperii la logica dei fatti e la dinamica delle scelte. Dimenticando, inoltre, la cogenza dei fattori regionali, a partire dalla conclamata ostilità dei paesi circostanti.

Liquidare poi la nascita d’Israele, nel 1948, come l’esito di una «proclamazione unilaterale» è una affermazione priva di senso, che si smentisce da sé. Intanto va detto che, in linea di principio, la nascita di una nazione è storicamente sempre il risultato di una spinta di una parte, di contro alle resistenze altrui. Non esiste nessun paese che si sia formato senza attriti verso e contro coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione. Basti pensare al processo di formazione degli Stati Uniti, sia con gli effetti devastanti nei confronti delle comunità autoctone amerindie, sia con la dissanguante Guerra di secessione che spaccò la popolazione in fronti contrapposti. Oppure, in scala più modesta ma non meno tumultuosa, le cosiddette «insorgenze» delle popolazioni del sud d’Italia contro l’unificazione sabauda. Ma non è neanche questo il vero punto. Più volte si è detto che la risoluzione 181 delle Nazioni Unite stabiliva la divisione in due delle terre contese. Era questa l’unica, ragionevole soluzione praticabile. Va però aggiunto che alla nascita dello Stato d’Israele, per parte ebraica, corrispose la deliberata volontà, da parte araba, di non far nascere uno Stato palestinese. I calcoli era chiari e inequivocabili: non solo l’«entità sionista» si sarebbe disgregata sotto i colpi di maglio degli eserciti arabi ma nessuna istanza nazionalista palestinese avrebbe dovuto avere un qualche riconoscimento. Si dimentica quest’ultimo aspetto, che sta alla base delle asimmetrie successive.

Da ultimo, ci sia concessa una digressione sul destino dei profughi. L’apolidia, come segnalava Hannah Arendt, è la condizione peggiore nella quale un essere umano abbia potuto trovarsi nel secolo, il Novecento, degli Stati nazionali. Ma il vero problema, per molti (tra i questi i palestinesi) non è quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato. Ciò che rende l’individuo un profugo è non solo l’abbandono dei luoghi natii bensì la mancata accoglienza in quelli di approdo. Su questo capitolo, ad onore del vero, meriterebbe che si aprisse una riflessione sulla politica degli stati arabi che scelsero allora di usare i palestinesi come merce da baratto (e lo stesso continuano a fare oggi). Così come sarebbe bene ricordare che all’abbandono delle proprie terre da parte delle popolazioni arabe, a partire dal 1948, corrispose l’espulsione in massa delle comunità ebraiche dai paesi arabi. Se una disgrazia non lava l’altra, va comunque da sé che il destino dei secondi (l’integrazione, pur tra mille difficoltà, in Israele) di contro alla dispersione dei primi è il nocciolo vero del conflitto israelo-palestinese. Laddove alla volontà integrazionista di Gerusalemme ha fatto sempre da risconto la calcolata indifferenza delle capitali arabe.


lunedì 5 maggio 2008

Sionismo o pace: la scelta è vostra

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
invitando a un dibattito sul tema

di Vera Pegna

«Col vostro appassionato contributo possiamo combattere con successo ogni indizio di razzismo, di violenza e di sopraffazione contro i diversi, e innanzitutto ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele». Queste parole pronunciate dal presidente della Repubblica il 25 gennaio 2007 in occasione della celebrazione del “Giorno della memoria” fanno venire in mente chi come Martin Buber, Albert Einstein, o Judah Magnes, criticò invece con forza il progetto sionista e chi se ne dissociò e lo combattè tenacemente come Moshe Menuhin (padre del grande violinista).

In Italia “Il Vessillo israelitico”, portavoce dell’ebraismo emancipato, prendeva posizione contro il sionismo e il Rabbino Eude Lolli dichiarava sul Corriere israelitico: «Ogni idea di nazionalità politica deve essere da noi abbandonata perché non risponde né al sentimento né al bisogno nostro e solo minaccia di farci perdere la giusta via». Sia Menuhin che gli altri ebrei contrari al sionismo erano persone profondamente religiose per le quali il sionismo significava il ritorno a Sion (la collina dove si erge Gerusalemme) per mantenervi vivi i valori essenziali del giudaismo.

Contro il progetto sionista di “Eretz Israel”, il Grande Israele, si espressero altresì degli esponenti politici di comunità ebraiche europee (ricordo che il sionismo politico nasce in Europa in risposta alle persecuzioni che avevano colpito gli ebrei nei secoli) con dichiarazioni di una lungimiranza impressionante. E' il caso di David Alexander, presidente del Consiglio dei parlamentari ebrei britannici e di Claude Montefiore, presidente dell’Associazione anglo-ebraica, i quali, a proposito della dichiarazione del ministro degli esteri Lord Balfour che dava il pieno appoggio del Regno Unito al progetto sionista della creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, affermano a nome del loro Comitato Congiunto: “Dagli albori della loro emancipazione in Europa, il reinsediamento della comunità ebraica in Terra Santa ha rappresentato per gli ebrei una delle loro preoccupazioni maggiori e hanno sempre coltivato la speranza che il loro impegno potesse rigenerare sulla terra di Palestina una comunità ebraica degna delle loro grandi memorie e fonte di ispirazione spirituale per tutti gli ebrei».

Ciò premesso, però, Alexander e Montefiore spiegano il duplice motivo della loro opposizione: «Il primo riguarda la rivendicazione che sia riconosciuto un carattere nazionale in senso politico agli insediamenti ebraici in Palestina. Se si fosse trattato di una questione prettamente locale, la si sarebbe potuta regolare nel quadro delle esigenze politiche generali legate alla riorganizzazione del paese da parte di un nuovo potere sovrano... Ma la rivendicazione attuale ... fa parte integrante di una teoria sionista più ampia la quale considera che tutte le comunità ebraiche del mondo costituiscono un’unica nazionalità priva di una patria (homeless), incapace di identificarsi completamente sul piano sociale e politico con le nazioni in cui vivono, e viene sostenuto che questa nazione senza patria abbia bisogno di disporre sempre di un centro politico e di una patria in Palestina. Con forza e con impegno (protestiamo) contro questa teoria. Gli ebrei emancipati di questo paese si considerano innanzi tutto una comunità religiosa e hanno sempre fondato la loro richiesta di uguaglianza politica con i concittadini di altri credi su tale assunto e sul suo corollario - ovvero che non hanno altre aspirazioni nazionali in senso politico. Considerano il giudaismo un sistema religioso che non ha niente a che fare con il loro status politico e affermano che, in quanto cittadini dello stato nel quale vivono, si identificano pienamente e sinceramente con lo spirito e gli interessi nazionali dei loro paesi. Ne consegue che lo stabilimento in Palestina di una nazionalità ebraica fondata su tale teoria di assenza di una patria ebraica conduce immancabilmente a marchiare gli ebrei come stranieri nei loro paesi natii e a compromettere la loro posizione faticosamente raggiunta di cittadini e sudditi di quei paesi. Inoltre, una nazionalità politica ebraica portata alla sua conclusione logica non è altro, nelle attuali circostanze mondiali, che un anacronismo. Essendo la religione ebraica la sola prova certa di ebraicità, la nazionalità ebraica si dovrà fondare sulla religione ed essere da questa circoscritta. E' inconcepibile supporre per un solo istante che qualsiasi gruppo di ebrei possa volere un commonwealth governato da prove religiose e limitativo della libertà di coscienza; ma può una nazionalità religiosa esprimersi in qualsivoglia altro modo? La sola alternativa sarebbe una nazionalità ebraica secolare, reclutata in base a qualche vago e oscuro principio di razza o di particolarità etnografica; ma ciò non sarebbe ebraico in nessun senso spirituale e il suo insediamento in Palestina sarebbe la negazione di tutti gli ideali e di tutte le speranze grazie ai quali la rinascita di una vita ebraica in quel paese alimenta la coscienza ebraica e la simpatia verso gli ebrei... Il secondo punto del programma sionista che ha suscitato le apprensioni del Comitato congiunto riguarda la proposta di attribuire ai coloni ebrei in Palestina determinati diritti speciali in aggiunta a quelli di cui gode il resto della popolazione; ...non è certo auspicabile che degli ebrei richiedano o accettino tale concessione basata su privilegi politici e preferenze economiche. Questa situazione si tradurrebbe in una vera e propria calamità per tutti gli ebrei. Nei paesi nei quali vivono per essi è vitale il principio di uguali diritti per tutte le comunità religiose. Qualora in Palestina dessero l’esempio di trascurare questo principio si dimostrerebbero colpevoli di averci fatto ricorso per ragioni puramente egoistiche. Nei paesi dove essi lottano ancora per l’uguaglianza si troverebbero irrimediabilmente compromessi, mentre in altri paesi dove questi diritti sono loro garantiti avrebbero grandi difficoltà a difenderli. La proposta è tanto più inammissibile perché gli ebrei sono e probabilmente per molto tempo rimarranno una minoranza della popolazione palestinese e perché verrebbero così coinvolti nelle dispute più aspre con i loro vicini di altre razze e religioni il che ritarderebbe il loro progresso e avrebbe echi deplorevoli in tutto l’Oriente. Né tale schema è necessario per gli stessi sionisti. Se gli ebrei prevarranno in una competizione basata su diritti e possibilità perfettamente uguali, essi stabiliranno la loro preponderanza nel paese nel corso del tempo e lo faranno su una base molto più solida che non su quella resa possibile da privilegi e monopoli».

Eravamo nel 1917. Da allora la storia europea e mediorientale è stata segnata da grandi e orribili eventi: la seconda guerra mondiale, il nazismo che massacrò milioni di polacchi, di russi, di ungheresi, di francesi, di italiani perché di religione o di origine ebraica, ma anche zingari, oppositori politici (comunisti e non), omosessuali, disabili; la cacciata dei palestinesi dalla loro terra ad opera delle formazioni sioniste fra le quali l’Irgun capeggiato da Livni, padre dell’attuale ministro degli esteri israeliano.
Nel 1948 fu proclamata unilateralmente la fondazione dello stato d’Israele che per legge riconosceva a tutti gli ebrei del mondo il “diritto al ritorno” ma rifiutava lo stesso diritto ai palestinesi che vi erano vissuti da sempre, fino a pochi giorni o pochi mesi prima. Dunque il carattere sionista del nuovo stato veniva chiaramente definito dall’inizio. Israele nasceva come stato ebraico e non come lo stato dei cittadini che vi vivevano. E nasceva altresì come stato di tutti gli ebrei del mondo i quali avevano il diritto di stabilirvisi e di ottenerne la cittadinanza. La definizione di chi era ebreo fu delegata ai rabbini i quali sentenziarono che ebreo è chi nasce da madre ebraica, condizione tutt’ora valida per ottenere la cittadinanza israeliana. Le apprensioni dei due esponenti britannici sopra citati venivano così avverate.

Nel 1962 nasce in Israele un partito antisionista, il Matzpen la cui storia e raccontata nel dvd “Zionism or Peace: it’s your choice” e lo si può richiedere all’indirizzo: (aki_orr@netvision.net.il). Uno dei suoi fondatori, Akiva Orr, vive tutt’ora a Tel Aviv e continua la sua battaglia nonostante gli anni e una salute cagionevole. Ma forse l’esponente più autorevole e tenace dell’antisionismo israeliano è stato Israel Shahak, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, professore universitario e presidente della lega israeliana per i diritti dell’uomo. Shahak denunciò le discriminazioni cui erano sottoposti per legge i cittadini palestinesi di Israele spiegando come ciò fosse la conseguenza inevitabile della natura stessa dell’ideologia sionista ispirata al mito biblico del “popolo eletto” e della “terra promessa”. Shahak distingueva nettamente le critiche al sionismo provenienti dall’occidente dall’antisionismo che talvolta copriva un antisemitismo sempre vivo in paesi come la Russia e la Polonia. In quanto all’antisionismo degli arabi e a quello dei palestinesi in particolare, asseriva che altro non era se non la reazione naturale di quelle popolazioni alla fondazione dello stato di Israele nonché al terrorismo sionista che l’aveva preceduta. Non era il solo a pensarla a questo modo.
Lo stesso Moshe Dayan aveva affermato: «Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Ci considerano, con ragione dal loro punto di vista, degli occidentali, degli estranei, degli invasori che si sono impossessati di un paese arabo per trasformarlo in uno stato ebraico».

Due anni fa durante la guerra del Libano il quotidiano israeliano Yediot Aharonot scriveva: «Vincere o morire. Israele deve affrontare una dichiarazione di guerra lanciata da due organizzazioni terroristiche: Hamas, sunnita, a sud, ed Hezbollah, sciita, a nord. Entrambe non riconoscono ad Israele il diritto di esistere; entrambe sono radicate in territori da cui le truppe israeliane si sono ritirate unilateralmente; entrambe sollevano le folle e mettono a dura prova l’esercito e la popolazione israeliani. Se dovessero uscire a testa alta da questa guerra e sventolare il vessillo della vittoria, significherebbe la fine del progetto sionista». Ed è vero poiché tranne il piccolo partito comunista nessun partito o uomo politico israeliano si è mai dissociato dal progetto sionista del Grande Israele, né ha mai dichiarato quali dovessero essere i confini definitivi di questo stato. Anzi va rilevato che parole tanto chiarificatrici quanto pericolose a questo proposito sono state pronunciate da Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri di Israele. Riferendosi a suo padre ha dichiarato: «Sulla lapide della sua tomba si legge: “Qui giace il capo delle operazioni dell'Irgun” e sulla lapide compare anche una mappa del Grande Israele, di cui fanno parte entrambe le sponde della Valle del Giordano. Molti mi chiedono se il compromesso dei Territori non sia contrario all'ideologia di mio padre, e io rispondo che egli mi ha insegnato a credere in un Israele democratico, patria del popolo ebraico, dove tutti possono godere di pari diritti. Sono però giunta alla conclusione che si deve effettuare una scelta e io ho deciso di creare una patria per il popolo ebraico, ma soltanto in una parte della terra di Israele... Israele è nato come patria per il popolo ebraico. Questo dovrebbe essere l'autentico significato anche del futuro Stato palestinese. Dovrebbe essere la risposta per tutti i palestinesi, ovunque essi siano, quelli che vivono nei Territori e quelli che sono trattati come pedine politiche nei campi profughi. In altre parole, quindi, la nascita dello Stato palestinese dovrebbe risolvere quello che i palestinesi chiamano “il diritto al ritorno”».

Dunque il progetto sionista rimane in piedi, leggermente ridimensionato dal punto di vista territoriale ma intatto in suo esclusivismo che preferisco non qualificare. (Come vogliamo chiamare la condizione "ebraica" da soddisfare per diventare cittadini dello “stato ebraico”?) Inoltre il diritto dei profughi al ritorno nelle loro case, sancito dal diritto internazionale, non verrà riconosciuto ai palestinesi che sono stati «messi in condizione di fuggire» come diceva Begin.

In questo scritto ho evitato ogni considerazione riguardante la situazione mediorientale odierna per concentrarmi su ciò che ha significato il sionismo in passato e sull’ostacolo alla composizione del conflitto che continua a costituire oggi anche se, nei 60 anni trascorsi dalla fondazione dello stato d’Israele, sono andati emergendo innumerevoli altri problemi che hanno complicato la realtà. Il principale fra questi è la capacità di resistenza del popolo palestinese che ha preso i sionisti in contropiede; d’altronde il disprezzo dell’occupato da parte dell’occupante che lo considera incapace di anelare alla libertà è una costante della storia. Ho ricordato le voci ebraiche critiche del sionismo, pochissimo note grazie al lavoro paziente e talvolta spietato svolto da ciò che Menuhim chiamava «la macchina sionista che diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori», la quale non esita ad accusare di antisemitismo chiunque (in particolare se di ascendenza ebraica) osi criticare il progetto sionista; accusa talmente infamante da chiudere la bocca ai più. Ed è anche per dimostrare la strumentalità di tale accuse che ho riferito unicamente voci ebraiche critiche del sionismo.

Tuttavia il sionismo non riguarda solamente gli ebrei. Riguarda chiunque abbia a cuore i diritti umani, la legalità internazionale e la pace, ma anche la sicurezza dello stato di Israele, sicurezza che può essere garantita solo ponendo fine alle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal sionismo crudele e da chi lo appoggia e ne copre gli intenti. Il titolo del dvd del Matzpen: “Sionismo o pace, la scelta è vostra” e tutt’ora valido.