lunedì 25 maggio 2009

Calvino e "Un progetto di società"


"Un progetto di società", così s'intitola una mostra per ricordare il grande riformatore Giovanni Calvino a cinquecento anni dalla nascita. Uno degli effetti di lungo periodo della Riforma fu la nascita a Felonica Po di una comunità protestante fondata da emigrati. Si tratta di una singolare realtà operante da oltre un secolo, che ospiterà la mostra su Calvino fino al 2 giugno prossimo.

di Giuseppe Muscardini

Una mostra itinerante, nata e concepita per le manifestazioni legate alla celebrazione dei cinquecento anni della nascita di Giovanni Calvino, toccherà nel corso del 2009 diverse città italiane e svizzere. La stessa capitale e capoluoghi culturalmente significativi come Firenze, Bergamo, Genova e Torino, hanno già ospitato la mostra intitolata Giovanni Calvino (1509-1564). Un progetto di società. Ma non sono escluse dal percorso località più "decentrate" e ben rappresentative della diffusione del Protestantesimo in Italia. Fra queste vi è Felonica Po, in provincia di Mantova: millecinquecento abitanti e un’attiva comunità valdese insediata da oltre un secolo.
La diffusa iconografia di Giovanni Calvino ci restituisce del pensatore fattezze austere. In un’incisione ormai nota grazie alle molte manifestazioni organizzate quest’anno nell’ambito del quinto centenario della nascita, Calvino è avvolto negli abiti ampi e vaporosi del suo tempo. In atteggiamento pensoso sfoglia un corposo volume all’interno di un ambiente con le pareti tappezzate da libri, probabilmente uno scriptorium o una biblioteca. È questo l’accattivante logo utilizzato per la mostra itinerante ideata dal conservatore del Museo Valdese di Torre Pellice Marco Fratini e dal Pastore Giovanni Tourn, realizzata in otto copie per essere ospitata nelle sedi espositive delle chiese italiane e svizzere. Inaugurata il 1 febbraio scorso presso la Fondazione Centro Valdese di Torre Pellice e allestita contemporaneamente presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dove resterà aperta fino al 31 dicembre 2009, allestita poi a Genova nei locali della Chiesa Valdese e ancora a Torino, Bergamo e Roma, la mostra è approdata da qualche giorno nella sala espositiva del Comune di Felonica Po. Se si considera la specifica realtà rurale di questa assolata località in provincia di Mantova, Felonica vanta una singolare tradizione storica caratterizzata dalla pacifica convivenza di fedi e ideologie solo in apparenza stridenti fra di loro.
Da oltre cento anni un’operosa e ben aggregata comunità si raccoglie attorno ad una fede religiosa "importata" - per tradizione, influenze e cultura - da luoghi molto diversi dalle radure e dalle campagne della provincia lombarda, dove le rivendicazioni sociali ebbero un ruolo determinante nelle vicende politiche di Otto e Novecento. Eppure, sembra proprio che dalla storia delle lotte sociali si debba necessariamente attingere per comprendere le ragioni dell’affermazione in queste zone di una religione che agli occhi della gente si configurò come occasione privilegiata per il riscatto dei poveri, dei diseredati, degli emarginati e per quanti vedevano nella schietta fede evangelica i messaggi autentici di fratellanza, rispetto e semplicità, senza orpelli di facciata, senza proibizioni dogmatiche incomprensibili per gli umili abitanti del luogo, ai quali necessitavano invece aperture e idee da poter condividere, meglio se tra i banchi di una chiesa. Anche questa senza orpelli.
I testi dei dodici pannelli dove è efficacemente contestualizzato l’evolversi del pensiero di Giovanni Calvino, muovono dalla volontà di spiegare ai visitatori le aperture suggerite dal grande riformatore nel Cinquecento, stimolate da quella profonda cultura umanistica che divenne requisito indispensabile per un’attività intellettuale svolta in funzione sia teologica che civile. Il dettagliato percorso espositivo, dotato di appropriate immagini a corredo dei testi, è stato presentato domenica 17 maggio nei locali del Comune di Felonica Po alla presenza delle autorità municipali e dell’Amministrazione Provinciale, di Marco Ricca, membro della Tavola Valdese, e della Pastora Giusy Bagnato, che ha ricordato le valenze altamente morali del pensiero di Calvino in relazione a quelle idee, più tardi esplorate da Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, secondo cui il lavoro dell’uomo e il conseguente guadagno non dovrebbero andare nella direzione dell’arricchimento, bensì della piena consapevolezza dei doni offerti a chi vive, hic et nunc, la sua vicenda terrena. Rilevante a questo proposito ci appare allora l’azione intellettuale del Calvino polemista, con le aspre posizioni assunte nei confronti dei cattolici che all’epoca non vedevano di buon occhio il suo tentativo di indicare per la chiesa ginevrina modalità evangeliche, così come giudicavano pericolosa la tendenza calvinista a separare sul piano politico la Chiesa dallo Stato.

*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara dove lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Belfagor" e molte altre testate italiane e internazionali. È membro attivo della "Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ). Per le Edizioni dell'ADL ha pubblicato L'Empietà di Marte - Elogio dei giovani che ripudiano la guerra (Zurigo, 2007).

martedì 12 maggio 2009

Un intellettuale guelfo

Era nato a Savona l'8 marzo del 1925 da una ragazza madre, dalla quale prese il cognome Baget. Crebbe con gli zii materni, dei quali assunse il secondo cognome, Bozzo. È morto l'8 maggio 2009 Gianni Baget Bozzo, giurista, sacerdote, politologo consigliere di Craxi e due volte parlamentare europeo. Negli ultimi anni era divenuto un ideologo del centro-destra e un fautore dell'alleanza tra Berlusconi e papa Ratzinger.

di Andrea Ermano

Nel 1944 si era unito, diciannovenne, ai partigiani. Dopo la fine della guerra, laureatosi in giurisprudenza, si avviò alla carriera politica nella DC. Fu esponente della sinistra dossettiana. Poi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, mutò posizione e aderì alla destra anticonciliare che osteggiava sul piano dottrinale la riforma di papa Giovanni e sul piano politico l'avvento del primo centro-sinistra di Saragat e Nenni, considerati antesignani del comunismo.

    Contro il nuovo corso Baget Bozzo accarezzò anche il disegno di una scissione nella DC, scissione che avrebbe dovuto condurre -- di concerto con il prefetto del Sant'Uffizio card. Ottaviani -- alla fondazione di un secondo partito cattolico.  Abbandonata quest'idea, Baget Bozzo, ormai quarantenne, entrò in seminario e nel 1967 fu ordinato sacerdote, a Genova, sua città d'elezione, dal cardinale Siri.

    Ne seguirono anni d'intenso studio, culminati in una serie di pubblicazioni e progetti, tra cui la fondazione di una rivista teologico-filosofica insieme a Massimo Cacciari. La rivita non nacque mai, anche perché l'inquietudine profonda di Baget, alimentata dal fascino che egli subiva nei confronti dei leader carismatici, gli impedì di perseguire una vita meramente contemplativa.

    Nel 1978 si "innamorò" di Bettino Craxi -- in seguito all'esito tragico del Caso Moro, ma anche per contrastare la sinistra DC in odio alla politica del compromesso storico che aveva portato i comunisti nella maggioranza di governo.

    Sul piano teorico Baget Bozzo stava dalla parte del card. Joseph Ratzinger, il nuovo prefetto per la dottrina della fede, sul piano politico si dichiarava socialista, soprattutto impegnato però a fomentare la faida tra craxiani e berlingueriani.

    Alla caduta del Muro di Berlino egli fu tra coloro che più energicamente ispirarono la scelta -- folle e fatale per Craxi come per la Prima repubblica -- di chiusura dentro il recinto del "pentapartito".  Dopo Tangentopoli e la catastrofe che ne seguì per i partiti di governo, Baget Bozzo benedisse la collocazione a destra di parte consistente dell'apparato ex-Psi.

    Molti ministri, sottosegretari, sindaci, assessori, funzionari e portaborse che avevano raggiunto le loro posizioni in era craxiana e che non coltivavano legami né con il movimento sindacale né con le organizzazioni del socialismo europeo e internazionale – si rifugiarono massicciamente dentro Forza Italia, di cui il Baget Bozzo scrisse la Carta dei Valori.

    In una lettera all'ex ministro socialista Rino Formica, datata 16 giugno 2008, Baget Bozzo riassume questo percorso in chiave anti-comunista: "La linea che passa da Craxi a Berlusconi oltre il Psi, ma per la libertà e la democrazia contro il comunismo, è il cuore della politica italiana".

    Accanto all'ammirazione per i due leader, nel segno dell'anticomunismo, s'intuisce una certa freddezza psicologica per l'"esperienza socialista", che don Gianni dichiara essere stata "fondamentale", ma che evidentemente è considerata superata dall'avvento di Berluscioni: "La realtà falsifica tutti i progetti fondati sulla cultura del passato e questa è la ragione per cui Berlusconi e il centrodestra riescono dove la cultura politica di sinistra non riesce", annota ancora nella lettera a Formica.

    Con don Gianni Baget Bozzo scompare uno dei massimi strateghi del neo-guelfismo italiano, mentre la complessa costruzione del blocco sociale su cui si regge l'egemonia berlusconiana è giunta al suo apogeo. Ora potrebbe iniziare a sfarinarsi. Forse questo, e non altro, suggerisce la faglia familiare apertasi tra Arcore e Macherio. Anticipazione di eventi ulteriori? 

    E tuttavia, a prescindere da ciò, occorre domandarsi se sarà capace la destra neo-clericale italiana di reggere all'urto degli eventi, che sarà anzitutto un urto cosmopolitico?

    Molto dipende anche dalla credibilità delle forze progressiste, come dopo la Caduta del Muro. Vent'anni or sono, la capacità d'innovazione di Bettino Craxi si autodistrusse nell'immobilismo più totale. 

    Baget Bozzo procedeva senza rotta "passo per passo", per sua stessa ammissione: "Il mondo unito come una città politica e sociale, legato alla scienza e alla tecnica per la sopravvivenza, è una realtà impensata e oggi vissuta, ma non pensabile con le categorie razionali proprie della nostra comune tradizione", si legge ancora nella lettera citata.

    Che cosa intendeva Baget Bozzo negando ogni forza di pensiero alle "categorie razionali della nostra comune tradizione". Pensava dunque a un'altra tradizione, non a noi comune? Oppure pensava ai valori non razionali della fede?

    Fatto sta che in questi giorni, in queste ore, proprio la ragione viene invocata da grandi rappresentanti religiosi quale unico fattore in grado di rendere possibile un dialogo di pace tra le fedi che si affacciano sul catino ormai quasi bollente del Mar Mediterraneo. 

     Ma ragione e dialogo non presuppongono la filosofia di una "società aperta" con i suoi fondamenti di laicità e progressismo sociale? E come potrà allora un cattolicesimo politico tendenzialmente pre-conciliare aderire ai valori di laicità e progressismo sociale che sono propri di quella apertura multietnica e interculturale di cui esso si considera arcinemico?

    Chissà quali risposte immaginava don Gianni Baget Bozzo alle domande che si affacciano alla mente sulle sue ultime posizioni di teorico della politica italiana, un teorico molto impegnato, molto acuto e molto inquieto. 

martedì 5 maggio 2009

STORIA - Costante Masutti da Prata, un socialista rivoluzionario

E' apparso sull'ultimo numero della rivista "Mezzosecolo", edita a Torino dal Centro studi Piero Gobetti, dall'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea e dall'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, l'articolo di Gian Luigi Bettoli "Costante Masutti da Prata. Biografia di un socialista rivoluzionario".

Masutti, nativo di Prata di Pordenone, è stata una figura emblematica nella storia del movimento operaio, socialista e comunista del Novecento, non solo a livello locale, ma in mezza Europa.

    Fornaciaio e poi operaio edile emigrante in Svizzera e Germania nei primi anni del '900, Masutti entra in contatto con l'organizzazione sindacale in questi paesi. E' così che acquisisce quell'esperienza che, dopo la Grande Guerra, lo porta ad essere il responsabile della principale organizzazione sindacale friulana, la Lega degli Edili di Pordenone, oltre che dirigente cooperativo, amministratore socialista del Comune di Pordenone e presidente della Lega proletaria fra gli ex combattenti.

    Nel maggio 1921 Masutti è fra i dirigenti della sinistra che organizzano la difesa di Torre di Pordenone, aggredita dalle squadre fasciste venete e giuliane. Un mese dopo, sfugge avventurosamente al tentativo notturno degli squadristi di eliminarlo, riuscendo anzi ad ucciderne il capo, il fascista padovano Salvato.

    In fuga dal Friuli, Masutti diventa il dirigente del sindacato edile del Sudtirolo e del Trentino, fino al definitivo espatrio. Inizia la peregrinazione che accomuna un'enorme massa di emigranti economici e politici in fuga dalla miseria e dalla violenza della dittatura: di nuovo la Svizzera a San Gallo, poi in Francia ed infine, individuato nuovamente dallo spionaggio fascista, in Unione Sovietica.

    Nell'Urss, di cui apprezza inizialmente le conquiste sociali e civili per la classe operaia, Masutti diventa un capo operaio stakhanovista, dirigente lavori edili in varie città ed autore di metodologie tecniche che gli fruttano pubblici riconoscimenti.
Durante le “grandi purghe” staliniane della seconda metà degli anni '30 Masutti finisce nel mirino della repressione, nella quale perisce il suo giovane genero Emilio Guarnaschelli. Con abili espedienti, Masutti è uno dei pochi che riescono ad espatriare.

    Nuovamente a Parigi, Masutti si impegna nella sinistra comunista trozkista e – successivamente – rientra nel Psi, dedicandosi alla denuncia degli effetti della repressione staliniana nelle file degli esuli comunisti italiani in Urss ed al lavoro di tutela ed organizzazione degli emigranti italiani.
Nel secondo dopoguerra, Masutti è di nuovo in Italia, impegnato nel ruolo di ricostruzione del sindacato edile della Cgil e del Psi. Antistalinista rivoluzionario, Masutti è il candidato al Senato del Fronte Popolare nel 1948 nel Pordenonese.

    Ritornato in Francia nel 1949, Masutti è segretario della Sezione di Parigi e poi della federazione francese del Psi, fino alla morte nel 1960. Non rinunciando mai al suo mestiere di muratore, muore senza ottenere quella casa popolare a Pordenone cui aspirava per passare i suoi ultimi anni di vita.

Mezzosecolo 15 - Annali 2003-2006, pp. 528,  
Franco Angeli Eidtore, Milano 2009.

Avanti, Rigoletto, alla riscossa

Riflessioni sulle novità sceniche portate sul palco dal regista zurighese Dieter Kaegi per Rigoletto, viste nell’ottica dei mutamenti epocali che hanno investito l’arte e la Storia.

di Giuseppe Muscardini *)

Le tragiche melodie del duetto finale del Rigoletto, epilogo infelice di fatti terribili accaduti alla Corte di Mantova, evocano le prime sequenze del film Novecento di Bernardo Bertolucci. Durante la lavorazione del film, nel 1976, il regista parmense decise di ricorrere alle note verdiane per solennizzare la nascita di due bambini, l’uno nella casa del facoltoso proprietario terriero, l’altro negli umili spazi dell’abitazione del mezzadro, dove gioisce l’intera famiglia patriarcale.

    Quelle note sono entrate così a far parte della colonna sonora di un film che meglio di altri evidenzia i soprusi ai danni di una classe sociale umiliata ma proprio per questo in rivolta, come ci racconta in effigie Giuseppe Pellizza da Volpedo nel celebre dipinto Il Quarto Stato, conosciuto anche per la precedente e profetica intitolazione de Il cammino dei lavoratori, e prima ancora come Fiumana. Il libretto originale del Rigoletto narra invece degli infami raggiri di cui è vittima un buffone di Corte che perde l’amata figlia per la perfidia di un gruppo di nobili annoiati.

    Un’efficace versione dei fatti musicati da Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, ci viene in questi giorni dal regista zurighese Dieter Kaegi, che ha saputo portare in scena il melodramma in tre atti servendosi di suggestive scenografie virtuali. Frutto di attenti studi di arte scenica, le alterne situazioni che si susseguono sul palco colpiscono lo spettatore per la rapidità con cui l’ambiente si trasforma, grazie alla proiezione su invisibili schermi degli sfondi davanti ai quali i molti personaggi si muovono o si dibattono.

Con questa innovativa scenografia e la cura esecutiva dei valenti musicisti dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza diretta da Giancarlo De Lorenzo, nel corso del 2009 Dieter Kaegi farà conoscere il suo Rigoletto ai frequentatori del Teatro Comunale di Vicenza e del Teatro del Giglio di Lucca, dopo la “prima” al Teatro Sociale di Rovigo del 3 aprile scorso.

    L’entusiasmo del pubblico rodigino, che ha lungamente applaudito il baritono Silvio Zanon nel ruolo di Rigoletto e il soprano Anna Guarnieri, interprete di Gilda, lascia ben sperare in un nuovo successo di questa operazione culturale dove la resa scenografica gioca un ruolo non secondario. Sono convinto che Verdi sarebbe stato lieto, se non entusiasta, di utilizzare tutte le innovazioni tecnologiche che avesse avuto a disposizione, e che avrebbe sfruttato ogni possibilità per permettere ai personaggi delle sue opere di esprimersi appieno nel loro contesto con una “mobilità” senza precedenti, ribadisce Piero Mioli, docente di Storia ed Estetica musicale, dalle pagine dell’utilissimo libretto distribuito a quanti erano presenti alla “prima” del 3 aprile. E se questa convinzione a prima vista ci sembra un poco forzata o quantomeno fantasiosa, la perplessità va gradualmente scemando rimpiazzata dai fatti.

    Il pubblico è testimone delle buone risultanze del nuovo impianto scenico, che si avvale della più moderna tecnologia per suggerire ambientazioni in cui lo spettatore può calarsi con maggiore immediatezza, fruendo così pienamente della vicenda, del modo di cantarla e di interpretarla. Con la regia di Dieter Kaegi, il Rigoletto di Giuseppe Verdi si appropria di valenze psicologiche in grado di provocare nello spettatore il piacere di immergersi in ambientazioni ancor più persuasive, dove tutto si svolge senza pause e in assenza di cambiamenti fuorvianti.

    Anche i melomani più tradizionalisti e intransigenti, aprendosi al nuovo, incontreranno facilità nel seguire le tristi vicissitudini di Rigoletto, specie nell’ultima scena, quando, irradiato dalle luci intermittenti (e virtuali) di un temporale in dissolvenza, invoca con strazio il nome della figlia morente: Mia colomba, lasciarmi non déi! / Se t’involi, qui sol rimarrei. / Non morire, o ch’io teco morrò! / Oh, mia figlia! Oh, mia Gilda! Per poi cadere sul corpo della figlia, strappandosi i capelli. Nessuno fra il pubblico della “prima”, imitando il protagonista, è uscito dal teatro facendo altrettanto. Al massimo qualcuno avrà scosso la testa sdegnato, ma in generale ha prevalso la soddisfazione di aver assistito, restando nella tradizione lirica, ad una validissima novità scenica.

    Del resto, non era forse una novità scenica anche quella a cui aderì il già nominato Giuseppe Pellizza da Volpedo dipingendo Il Quarto Stato, esempio di pointillisme inaugurato dal Divisionismo, che in pittura consentiva di riprodurre le addizioni di luce con una separazione minuta delle tinte complementari? Non era una novità comparabile a quella scenico-virtuale anche il gioco di luci sugli abiti dei contadini e delle donne in primo piano, con le tenui pennellate di bianco e di rosa? All’epoca nessuno si scandalizzò. A parte qualche conservatore e qualche agrario, che si sentirono minacciati dall’avanzare della gran fiumana di contadini ed operai, fieri e compatti. Ma era per altri motivi, non certo per l’evolversi delle tecniche pittoriche.

*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara dove lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Belfagor" e molte altre testate italiane e internazionali. È membro attivo della "Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ). Per le Edizioni dell'ADL ha pubblicato L'Empietà di Marte - Elogio dei giovani che ripudiano la guerra (Zurigo, 2007).