martedì 18 marzo 2014

Il riformismo e la riformite

Da MondOperaio

http://www.mondoperaio.net/

di Alberto Benzoni

Nelle sue memorie Samuel Hoare (poi lord Templewood), esponente conservatore degli anni trenta, ricorda di aver proposto, da ministro degli interni (i poveri inglesi non hanno un ministro della giustizia), una legge di riforma del sistema carcerario. Legge che, per un insieme di circostanze, non potè essere approvata dal Parlamento; per essere poi varata, nel secondo dopoguerra (e con modifiche marginali) dal governo laburista.

“Poco male” (questo nella sostanza, il ragionamento di Hoare) “perchè la legge era giusta, ma al tempo mio non c’era ancora il clima politico e psicologico per farla passare”. E qui il Nostro esprime alla perfezione la dialettica tra conservazione e riformismo che percorre felicemente tutta la storia della Gran Bretagna.

Alla base, l’idea che le cose che esistono non sono solo un retaggio del passato (degno, per ciò stesso, di rispetto), ma sono anche portatrici di senso e di valore. E che di conseguenza qualsiasi proposta di cambiamento deve superare una specie di onere della prova: e non solo sotto il profilo della sua validità intrinseca ma anche del suo inserimento razionale nella realtà esistente.

E’ la migliore definizione del riformismo: tanto più se formulata da un conservatore. Altra cosa, e tutta diversa, è la “riformite”: cioè la versione distorta del riformismo che, in pratica e in teoria, ha segnato di sé tutta la storia della seconda Repubblica. Qui scompare la feconda tensione dialettica tra vecchio e nuovo: perché ciò che esiste è per definizione, male; e perché il “nuovo che avanza” avanza perciò nel vuoto più totale, sottratto a qualsiasi prova e verifica razionale. Il risultato finale è un sistema totalmente privo di forma. E perciò, astuzia della ragione, sostanzialmente irriformabile.

 

 

Da CRITICA LIBERALE

riceviamo e volentieri pubblichiamo

Papa Francesco, un conservatore sorridente

di Paolo Bonetti

Dopo l’intervista concessa qualche tempo fa al fondatore di “Repubblica”, il papa ne ha concesso un’altra al direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli: un’intervista meno fumosa della prima, in cui i due interlocutori si perdevano in un intrico di questioni filosofiche e teologiche poco trattabili sulle pagine di un quotidiano, e più attenta, invece, ai concreti problemi pastorali della Chiesa Cattolica, problemi che poi, a causa della persistente e negativa influenza che il cattolicesimo continua ad avere sulla legislazione italiana, diventano inevitabilmente problemi dell’intera società civile, con l’impossibilità di arrivare a soluzioni ragionevoli di questioni che in altri Stati sono già state risolte con il riconoscimento che i diritti fondamentali dei cittadini non possono essere condizionati e sostanzialmente misconosciuti per volontà di un’associazione privata qual è, nonostante la sua rilevanza sociale, la Chiesa di Roma.

Nell’intervista Bergoglio conferma ancora una volta la linea pastorale del suo pontificato fondata sulla misericordia e sull’accoglienza, ma fermissima nel ribadire la tradizione della Chiesa in materia di teologia morale. Il papa, che possiede fra l’altro la qualità inedita in un papa dell’autoironia, è consapevole della distanza che separa la Chiesa dalla sensibilità morale e dai costumi effettivi della società contemporanea. Nonostante i molti adulatori, credenti e non credenti, che vorrebbero farne, come lui stesso dice, “una sorta di superman”, e nonostante l’affetto sincero di milioni di uomini e donne che apprezzano la sua volontà di dialogo e la sua disponibilità ad ascoltare per cercare di capire, Francesco si rende conto, al contrario del suo predecessore, che la Chiesa non può limitarsi a giudicare e condannare dall’alto il mondo contemporaneo ed è convinto che essa debba invece svolgere un’opera terapeutica di paziente cura e guarigione dei molti mali della modernità. Ma la misericordia e la sollecitudine per coloro che patiscono nelle loro anime le ferite di un disordine spirituale di cui molto spesso non sono neppure consapevoli, non significano in alcun modo che la Chiesa è disposta a rinunciare ai principi della sua morale fondata su leggi che essa ritiene al tempo stesso divine, naturali e razionali. La Chiesa non è relativista e neppure storicista, le sue verità hanno un’origine extratemporale e non possono mutare come si evolvono e cambiano i costumi umani. Essa, dice Bergoglio, comprende e soccorre, ma non transige circa l’assolutezza dei valori che è chiamata a difendere.

Quando il papa afferma di non comprendere l’espressione “valori non negoziabili” e sembra prendere le distanze da Ratzinger che, invece, ha più volte insistito su questo carattere dell’etica cattolico-ecclesiastica, in realtà fa poi un’affermazione che, a considerarla con attenzione, risulta ancora più rigida di quelle di Benedetto XVI: egli dice che “i valori sono valori e basta” dal momento che, fra le dita di una mano, non si può dire che “ve ne sia una meno utile di un’altra”. E aggiunge di non capire “in che senso vi possano essere valori negoziabili”. E’ una affermazione questa su cui i commentatori non si sono soffermati con la necessaria attenzione: il papa, in sostanza, ha voluto dire che non solo alcuni, ma tutti i valori dell’etica cattolica non possono essere negoziati, poiché farlo significherebbe precipitare in quella “dittatura del relativismo” di cui ha parlato tante volte Ratzinger. La Chiesa comprende, accoglie e perdona, ma ammonisce gli Stati laici a non legiferare in contrasto con la sua morale che considera immutabile in ogni suo aspetto. La riprova di quanto dico sta poi nelle risposte che il papa dà sulle singole questioni che il suo interlocutore gli propone. I divorziati vanno aiutati a superare la loro condizione di crisi e di sofferenza e il loro dramma non può essere valutato con i criteri estrinseci della semplice casistica, ma questo non cancella in alcun modo il carattere sacrale e indissolubile del matrimonio, che è conforme alla legge divina soltanto quando unisce due persone di sesso diverso. “Il matrimonio è fra un uomo e una donna”, ribadisce il papa, che poi parla delle unioni civili come semplici tentativi di “regolare aspetti economici fra le persone”, negando in questo modo ogni carattere affettivo e ogni dignità morale a legami che non rientrino negli schemi di una morale cattolica considerata come l’unica davvero naturale e socialmente accettabile. Anche sulla condizione della donna nella Chiesa il conservatorismo di Bergoglio appare evidente oltre ogni vago riconoscimento circa l’origine e il carattere femminile della Chiesa. Se le donne chiedono di essere inserite nei luoghi di decisione della Chiesa, Francesco riconosce che il problema esiste, ma poi afferma che si tratterebbe, comunque, di “una promozione di tipo funzionale” con cui “non si fa tanta strada”. Sul tema del controllo delle nascite, dichiara che “la questione non è quella di cambiare la dottrina”, ma di far sì che “la pastorale tenga conto delle situazioni e di ciò che per le persone è possibile fare”. E’ la vecchia posizione di Paolo VI, di cui Bergoglio loda apertamente l’enciclica “Humanae Vitae”, dicendo che Montini “ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro”.

Anche sui trattamenti di fine vita e sul diritto di scegliere in anticipo, quando ci si venga a trovare in stato vegetativo, il modo in cui essere curati o non curati, la posizione di Francesco non si discosta da quella tradizionale della Chiesa, che rifiuta l’uso di mezzi straordinari nella fase terminale della malattia, ma preferisce insistere sulle cure palliative piuttosto che accettare un testamento biologico che sia veramente tale e obbedisca alla volontà del malato. Naturalmente non c’è da sorprendersi: per la Chiesa la vita è un dono di Dio del quale gli uomini non possono disporre liberamente, ma che debbono accettare senza beneficio di inventario. La morale cattolica resta una morale paternalistica che mette gli uomini sotto tutela: tanta misericordia o presunta tale, dal momento che non si tiene conto del concreto dolore e della concreta dignità delle persone, ma nessun riconoscimento del diritto di ogni uomo a decidere autonomamente sulla propria vita e sulla propria morte.

Infine, ci sono nell’intervista affermazioni papali quanto mai discutibili dal semplice punto di vista della loro aderenza alla realtà effettuale. Quando il papa afferma che, sulla questione degli abusi sui minori, “la Chiesa ha fatto tanto, forse più di tutti”, dimentica di aggiungere che questo è avvenuto dopo documentate denunce e lunghe pressioni del mondo laico, mentre per decenni ci sono stati, da parte del mondo ecclesiastico comprese le supreme gerarchie, colpevoli silenzi e ritardi nell’intervenire per porre fine agli abusi. La Chiesa non può rivendicare in materia alcuna superiorità morale: la denuncia del male non è partita dal suo interno e i provvedimenti risanatori sono stati presi per le ripetute condanne dell’opinione pubblica internazionale. Ancora oggi la Chiesa continua a cercare alibi per certi suoi deplorevoli comportamenti in fantomatiche persecuzioni a cui sarebbe sottoposta da organizzazioni internazionali che fanno semplicemente il loro dovere. C’è poi l’insistenza di Bergoglio sulla povertà come ideale evangelico da perseguire fermamente in un mondo che ha il culto del benessere materiale. Ma, anche in questo campo, è molto facile segnalare il contrasto che c’è fra questo francescanesimo teorico e la somma ingente di ricchezze e di privilegi che la Chiesa continua a detenere. Che il papa stia facendo molto per risanare la Curia da vizi ormai intollerabili, dalla sua pretesa di servire contemporaneamente Dio e Mammona, è senz’altro da riconoscere e da apprezzare. Ma tutto questo non conduce ancora a quella Chiesa povera che sembrerebbero essere il fine principale dell’azione papale: se, come dice Francesco, “la povertà allontana dall’idolatria, apre le porte alla Provvidenza”, non basta cacciare i mercanti dal tempio, bisogna anche recidere ogni legame con questi mercanti, mercanti del potere e mercanti della ricchezza. Questa virtù eroica dubitiamo che la Chiesa possa mai possederla. Abitare a Santa Marta, piuttosto che nei sacri palazzi, non basta.

Critica liberale

 

giovedì 6 marzo 2014

Un’altra Europa

Da MondOperaio

http://www.mondoperaio.net/

di Riccardo Nencini *)

Per la sinistra italiana il congresso di Roma del Partito del socialismo europeo rappresenta un punto di arrivo. L'adesione del Partito democratico, infatti, mette fine ad un'anomalia che non solo in questo secolo ne ha indebolito il ruolo. Ed è significativo che questo avvenga nel momento in cui alla guida di quel partito siede chi proviene da un'esperienza politica in seno alla quale molti esorcizzavano il rischio di dover "morire socialisti".

Evidentemente ora il rischio da esorcizzare è quello di morire tout court: un rischio che la sinistra italiana ha corso ogni volta che si è tenuta lontana dal socialismo europeo, e che ha condizionato non poco il ruolo che essa ha giocato nell'ultimo ventennio, e la stessa vitalità del sistema politico in cui ha operato, e che ora non a caso è giunto al capolinea.

C'è però un altro rischio dal quale è bene che il congresso di Roma ci consenta di stare lontani: il collasso dell'Unione europea. Il sogno e' finito da almeno un lustro. Il continente naviga in balia degli euroscettici: nazioni scosse da movimenti populisti e della destra estrema, mancanza di un progetto che non sia quello egemonico della Germania, crisi economica durevole. Non è l'Europa pensata sul finire del secolo passato. Si è allargata l'Unione verso est ma sono stati dimenticati gli ingredienti naturali per renderla protagonista, pur vivendo le relazioni internazionali una fase di straordinari cambiamenti. Non abbiamo avuto né una politica estera e di difesa comuni, né regole di mercato che tracciassero una via originale e certa, magari con la politica alla testa.

La cornice aurea in cui la sinistra deve muoversi oscilla tra la redistribuzione della ricchezza, il coinvolgimento popolare più largo possibile nell'assunzione delle decisioni più rilevanti, l'affermazione di un "tavolato comune di diritti e di doveri pubblici" cui attingano tutti i cittadini tutti. Non esiste una terza fase dell'Unione se non si fissano questi cardini. L'Unione europea nasce per combattere lo spettro del nazismo appena sconfitto e il fantasma del comunismo che aleggia su mezzo continente; infine per unire democrazie giovani e risorse - ferro e acciaio - indispensabili per la ricostruzione postbellica. La seconda tappa è a Maastricht, quaranta anni più tardi: moneta unica, gli Stati orientali che si avvicinano, la fissazione di un portolano per interpretare il futuro alle porte. E' il terzo tempo che manca, ed è una colpa grave. Senza bisogno di scomodare le tante epoche costruite dall'Occidente e offerte all'intero pianeta sotto forma di scoperte tecnologiche e riferimenti culturali, da ieri l'Europa non incide più nelle grandi questioni che affascinano e scuotono il mondo.

Una buona ragione perché il congresso si faccia eretico e consegni a Martin Schulz un mandato a osare: prima per coinvolgere e appassionare i cittadini europei in una campagna elettorale difficile e a tutt'oggi considerata di secondaria importanza; e poi, se eletto, per svincolarsi da un abbraccio, quello di Berlino, poco in linea con l'idea di Europa che i socialisti hanno infisso nella Carta di Lipsia. A cominciare dagli eurobond, da politiche economiche e finanziarie che non siano partigiane, e dall'armonizzazione delle politiche fiscali. Sono i mercati che vanno tenuti a freno, e va combattuta l'austerità a senso unico: questo deve fare il Pse.

Vi è un secondo nodo da sciogliere. Masse di migranti ci guardano con speranza. Sono un dovere irrinunciabile l'integrazione dei profughi che fuggono dalle guerre e dalla carestia e l'apertura delle nostre frontiere a chi intende studiare nelle nostre università e cercare un'occupazione. Non può esserci né una limitazione nel godimento dei diritti fondamentali né accondiscendenza verso forme di multiculturalismo lesive dei medesimi diritti. Le tradizioni e i costumi che confliggono con le fondamenta della civiltà vanno combattuti con fermezza. L'Europa deve impegnarsi nel Mediterraneo sostenendo quei movimenti che difendono l'avanzata dei valori di libertà e di democrazia. E' la strada maestra e va percorsa con decisione.

Infine, la nuova Europa va ribattezzata. Urge una legittimazione nuova delle istituzioni comunitarie. La scelta da parte del Parlamento del Presidente della Commissione Europea è un buon inizio. Un buon inizio, appunto. Ma in un'Europa che va dall'Atlantico ai confini con le steppe il tema della sovranità va ridiscusso, e vanno allargate le maglie della partecipazione democratica alle scelte più significative. Le procedure decisionali fissate nel Novecento sono superate. C'è bisogno di più unità politica, di maggiore incisività, di una efficienza più marcata. Un'opinione conclusiva. La presenza di forti partiti "estremi" in molti paesi - a partire da Francia, Italia e Grecia – incide profondamente nei sistemi politici nazionali. Il Pse deve sentire come un'urgenza il tema delle alleanze. Continuo a pensare che il mondo liberaldemocratico possa condividere con noi il cammino per governare le emergenze e per costruire dimensioni statuali più vicine al cuore dei cittadini.

*) Segretario nazionale del PSI, viceministro Infrastrutture e Trasporti