riceviamo e volentieri pubblichiamo
Quando il buon giornalismo salva la democrazia.
Riflessioni intorno all'ultimo film di Steven Spielberg.
di Oscar Bartoli
Gutta cavat lapidem. I nostri antichi progenitori romani amavano ripetere che, così come la goccia riesce a scavare la roccia, anche una ripetuta falsità può riuscire a condizionare la capacità di intendere di volere di milioni di persone.
È questo il principio motore della propaganda politica sfruttato dai dittatori di ogni epoca e regione.
Ed è questo quanto sta avvenendo qui negli Stati Uniti sottoposti come siamo al continuo bombardamento di accuse fatto dal presidente Donald Trump che, con la sua definizione di 'fake news', è riuscito a far credere che il mondo dell'informazione sia costituito da lestofanti.
Un contributo all'affermazione di questa accusa di dimensioni internazionali è stato offerto anche dalla categoria dei professionisti dell'informazione, molti dei quali, nonostante la mano sul petto e gli insegnamenti morali nelle scuole e università di giornalismo, non hanno esitato a farsi coinvolgere nella missione di leccaculismo del potente di turno. Anche perché inseguire la libertà e l'obiettività non solo è faticoso ma può essere anche rischioso a titolo personale.
Questo per dire che in un momento così delicato per quei mezzi di informazione che cercano di affrancarsi dall'elogio scontato al potente, un film come "The Post" del regista Spielberg rappresenta una ventata di aria fresca che attenua anche se per poco l'atmosfera violenta innescata da questa anomala presidenza Americana.
Il film si basa su la proprietaria del Washington Post, Catherine Graham, che si assunse la responsabilità di pubblicare le cosiddette carte del Pentagono che mettevano in luce come negli ultimi trent'anni i presidenti americani che si erano succeduti avessero taciuto sulla evidenza dimostrata dalle agenzie di intelligence che la guerra in Vietnam era senza sbocco e non sarebbe mai stata vinta dagli americani.
The Post non trascura la acerrima competizione tra il quotidiano della capitale e il New York Times, e le difficoltà di gestione economica del Washington Post che la Graham riesce a far quotare in borsa, convinta com'era che il profitto si ottiene con un prodotto di qualità.
Ed è per questa ragione che si era battuta per l'assunzione di 25 ottimi giornalisti nella staff del giornale.
La pubblicazione delle carte del Pentagono rischia di far andare in galera sia i responsabili del New York Times che del Washington Post che si sono avvalsi di una sola fonte di informazione alla quale hanno garantito assoluta sicurezza.
Il finale del film si conclude con la sentenza della Corte Suprema che per sei a tre stabilisce che i quotidiani non siano imputabili per quanto pubblicato anche se si trattava di documenti coperti dal top secret.
Gli applausi che spesso nascono spontanei al termine delle proiezioni affollate stanno a dimostrare che esiste ancora una buona parte della popolazione Americana che crede nei mezzi di informazione come garanzia di un corretto percorso democratico del Paese.