In occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica dedicata alla vita e all’opera di Andrea “Andy” Rocchelli (1983-2014) tenuto a Zurigo il 5.6.2016.
di Elisa Signori
Sono stata più volte qui Zurigo a discutere di storia del Novecento, di antifascismo all’estero, di emigrazione italiana, di Resistenza, ma non avrei mai detto che un giorno mi sarebbe capitato di trovarmici per parlare di fotografie e di un fotografo ucciso due anni fa in Ucraina, mio figlio Andrea Rocchelli. Armato solo della sua macchina fotografica Andrea e il suo amico russo, Andrej Mironov, sono stati bersaglio di un lungo attacco con i mortai a Sloviansk nell’Ucraina nordorientale nel pomeriggio del 24 maggio 2014.
Quando è successo abbiamo avuto molti segni di solidarietà e tra questi indimenticabile un messaggio degli amici del Coopi che ci ha confortato e aiutato. Alla gratitudine di allora si somma questa di oggi per un’iniziativa che vuole insieme legare il problema della libertà dell’informazione e della qualità del linguaggio fotografico alla vicenda e all’opera di mio figlio. Grazie, dunque, di cuore a tutti coloro che hanno voluto questo incontro e che progettano di far conoscere le storie per immagini che mio figlio ha voluto raccontare.
Parliamo dunque di fotografia. Non sono un critico fotografico, ma ho visto da vicino il modo di Andrea di essere un fotografo e posso cercare di spiegarlo. Molte tematiche d’interesse coltivate in parallelo, molti, continui viaggi per andare vicino, molto vicino a vedere e capire quanto avveniva: fenomeni di costume in Italia – il velinismo – fenomeni di sfruttamento – i migranti in Calabria – la mercificazione dell’identità femminile – concorsi di bellezza agganciati a ideologie politiche, miss Padania – ma poi rivoluzioni, guerre, persecuzioni. I luoghi: la Libia e la Tunisia della primavera araba, l’Afghanistan, e poi l’Est Europa, Cecenia, Dagestan, Inguscezia, Kirghizistan, Mosca, l’eredità dell’implosione dell’Urss. Scenari drammatici che Andrea indagava con uno sguardo partecipe, dall’interno. Non solo scatti da reporter di guerra, non solo cronaca in presa diretta, ma storie di uomini e donne che quella guerra, rivoluzione, persecuzione vivevano. In qualche modo la violenza più che esibita in sé era riflessa nella dimensione dell’esistenza, dell’esperienza individuale e collettiva.
Per mantenersi in questi viaggi lavorava per ONG o aveva strategie fantasiose. Come in Russia quando si inventò come fotografo a domicilio e raccolse un’antologia di ritratti femminili sullo sfondo degli ambienti domestici scelti dalle stesse donne fotografate. Tutto era nato dall’incontro simpatetico tra Andrea e molte giovani e meno giovani donne russe, desiderose di avere un bel ritratto, per ragioni e necessità diverse. Scatti a prezzo contenuto, realizzati direttamente a casa, sono stati l’occasione di una esplorazione dell’universo femminile che ha poi assunto gradualmente la valenza di una ricerca antropologica. Volti e contesti, gesti e sguardi, tessuti e arredi compongono un mosaico di atmosfere private e parlano linguaggi di confidente intimità. Ogni scatto coglie il soggetto in una posa spontanea, liberamente assunta mentre racconta al fotografo della propria vita. E gli interni diventano la chiave per interpretare le aspirazioni di chi li vive, li ha scelti o li subisce. I motivi cromatici e gli attributi tattili degli oggetti arricchiscono ogni scena come quinte teatrali e le pagine si aprono come sipari a svelare, e a nascondere, sogni, ambizioni, solitudini. Ne è uscito un libro Russian Interiors, apparso ahimè postumo e le foto sono state premiate dal World Press Photo 2015.
In Ucraina nel febbraio 2014 si è trovato a documentare la cosiddetta “rivoluzione della dignità” di Maidan, ha vissuto con i manifestanti, li ha ritratti, uomini e donne di tutti i ceti, armati con arnesi da scontro medioevale, ha colto la rabbiosa reazione della polizia, le violenze, fino a trovarsi tra i primi all’epilogo, il vuoto di potere creatosi al vertice con la fuga dell’establishment.
E in Ucraina è voluto tornare qualche mese più tardi: insieme al suo amico Andrej Mironov, russo, attivista dei diritti umani, raccoglievano testimonianze sulla vita della popolazione civile, li intervistavano, li ritraevano. La serie dei bunker è l’eredità di quei giorni: la guerra è raccontata attraverso le immagini dei bambini rifugiati nei bunker, stipati tra i vasi di sottaceti e di marmellate, terrorizzati dai bombardamenti notturni, dalla perdita dei genitori o dei fratelli colpiti negli attacchi.
Avevano dei lasciapassare e Andrea fotografava postazioni e trincee che facevano pensare alla guerra di un secolo fa, registrava le parole di chi narrava come il conflitto li avesse sorpresi ignari ed estranei, una guerra voluta altrove, da qualcun altro. La retorica della guerra patriottica contro i separatisti s’infrangeva di fronte alle sofferenze di chi della guerra era solo una vittima. Mi disse che stava seguendo la storia di due ragazzi amici sin dall’infanzia che la guerra aveva trasformato in nemici schierati su fronti opposti, pronti a darsi vicendevolmente la morte. Non ho mai visto le immagini di questa storia.
Cosa è successo il 24 maggio 2014 ormai lo sappiamo. L’alibi della guerra ai confini ha sin qui consentito alle autorità ucraine una strategia elusiva e a tutt’oggi non si dispone nemmeno di una versione ufficiale dell’accaduto. Ma le dichiarazioni rese dai testimoni oculari sopravvissuti – del gruppo si è salvato un giovane fotografo e il taxista – i dati emersi – luogo / ora –, le tracce raccolte da giornalisti scrupolosi e impegnati lasciano pochi dubbi sulla dinamica fattuale e sulle responsabilità, mentre resta ignota la ragione dell’attacco contro giornalisti inermi, come pure la catena di comando che ha scatenato l’attacco contro di loro. Non sono incappati in una scaramuccia tra postazioni nemiche, ma armati solo delle loro macchine fotografiche sono stati oggetto di un fuoco accanito e metodico. Ciò che è accaduto a Andrea Rocchelli è parte di un’ampia casistica, di cui vorrei sottolineare due aspetti.
È entrata nell’uso la parola freelance per indicare chi come lui girava il mondo senza rete protettiva e senza un contratto fisso con una testata o una rete tv, ma la parola che fa perno sul concetto di libertà è fuorviante. Tutti i fotografi sono stati a forza spinti nello status di free lance dalla rivoluzione digitale che ha cambiato il mondo della stampa e ha destrutturato la loro professione: le testate hanno budget ridotti, usano foto di repertorio, lavorano in velocità, acquistano le foto che i fotografi propongono ma non li assumono, non esiste più la partnership giornalista-fotografo che nei decenni ha scritto la storia del giornalismo e fotogiornalismo nel mondo. Per questo Andrea aveva fondato con altri fotografi il collettivo autonomo Cesura, con l’ambizione dell’indipendenza e l’obiettivo di affermarsi grazie a un lavoro ben fatto. Una strada ardua e coraggiosa percorsa coltivando un’idea alta e eticamente impegnativa del lavoro di testimonianza e di informazione, ben lontana e diversa dalla superficialità stereotipata che ci è offerta dai media.
L’altra considerazione riguarda l’incolumità dei giornalisti e fotografi . Non è un caso che vengano rapiti, siano uccisi selettivamente nei contesti di dittature, di guerre, di violenze. Guerre anomale, non convenzionali e asimmetriche si moltiplicano nel mondo del terzo millennio.
La terza commissione dell’Assemblea Generale dell’Onu, quella sui diritti umani, ha approvato il 29 novembre 2013 all’unanimità una risoluzione sulla sicurezza dei giornalisti e ha istituito il 2 novembre come Giornata internazionale per porre fine all’impunità dei crimini contro i giornalisti.
Quando si creano giornate per qualcosa è segno che la situazione è incontrollabile e infatti l’escalation delle morti di fotografi e giornalisti continua, segnalata dai bollettini di Reporter sans frontières. Nel febbraio 2012 ricordo che Andrea andò a Parigi a intervistare la compagna del fotografo francese Remi Ochlik, 28 anni, ucciso da un bombardamento selettivo a Homs in Siria. Vidi la registrazione di quell’incontro, da cui emergeva il fatto che la casa dove erano Ochlik e i suoi colleghi, tra cui un’americana, lei pure uccisa, era nel mirino dei bombardamenti, era un obiettivo messo a fuoco con cura. I testimoni indipendenti, terminazioni del mondo libero esterno, dovevano essere annientati e così è stato. Una sorta di presagio, che mi è tornato in mente due anni più tardi. Ma quando si sparano cannonate contro i giornalisti si spara contro la nostra libertà di informazione, contro il nostro diritto di sapere e capire cosa succede.
Un fotografo, un giornalista che muore è una voce libera che si spegne, uno sguardo attento e coraggioso che ci viene tolto, che non andrà più per noi a documentare e a raccontare con le immagini la complessità del reale. Senza di loro siamo più indifesi di fronte alle manipolazioni del potere, agli stereotipi, alle ricostruzioni artefatte degli attori interessati. Non possiamo guardare a queste morti come a effetti collaterali e normali dei conflitti. Gli antichi dicevano de re nostra agitur: si tratta di noi.