martedì 28 novembre 2017

Inaugurazione della mostra su Andy Rocchelli - DISCORSO PER MIO FIGLIO

In occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica dedicata alla vita e all’opera di Andrea “Andy” Rocchelli (1983-2014) tenuto a Zurigo il 5.6.2016.

 di Elisa Signori

Sono stata più volte qui Zurigo a discutere di sto­ria del Novecento, di antifascismo all’estero, di emi­grazione italiana, di Resistenza, ma non avrei mai detto che un giorno mi sarebbe capi­ta­to di tro­varmici per parlare di fotografie e di un foto­gra­fo uc­ciso due anni fa in Ucraina, mio fi­glio Andrea Roc­chelli. Armato solo della sua mac­­china foto­grafica Andrea e il suo amico rus­so, Andrej Miro­nov, sono stati bersaglio di un lun­go attacco con i mor­tai a Sloviansk nell’Ucrai­na nordorientale nel pomeriggio del 24 maggio 2014.

Quando è successo abbiamo avuto molti segni di solidarietà e tra questi indimenticabile un mes­sag­gio degli amici del Coopi che ci ha confortato e aiu­tato. Alla gratitudine di allora si somma que­sta di oggi per un’iniziativa che vuole insieme le­gare il problema della libertà dell’informazione e della qualità del linguaggio fotografico alla vicen­da e all’opera di mio figlio. Grazie, dunque, di cuo­re a tutti coloro che hanno voluto que­sto in­con­­tro e che progettano di far conoscere le storie per immagini che mio figlio ha voluto raccontare.

Parliamo dunque di fotografia. Non sono un cri­ti­co fotografico, ma ho visto da vicino il modo di An­drea di essere un fotografo e posso cercare di spie­garlo. Molte tematiche d’interesse coltivate in parallelo, molti, continui viaggi per andare vi­ci­no, molto vicino a vedere e capire quanto av­ve­ni­va: fenomeni di costume in Italia – il velini­smo – fe­no­me­ni di sfruttamento – i migranti in Ca­labria – la mer­cificazione dell’identità fem­mi­ni­le – con­cor­si di bellezza agganciati a ideologie po­litiche, miss Padania – ma poi rivoluzioni, guer­re, per­se­cu­zioni. I luoghi: la Libia e la Tu­ni­sia della pri­mavera ara­ba, l’Afghanistan, e poi l’Est Europa, Ce­cenia, Da­ge­stan, Inguscezia, Kir­ghi­zistan, Mo­sca, l’eredità dell’implosione del­l’Urss. Scenari dram­matici che Andrea indagava con uno sguardo par­tecipe, dal­l’in­terno. Non solo scatti da reporter di guerra, non solo cronaca in presa diretta, ma sto­rie di uomini e donne che quel­la guerra, rivo­lu­zio­ne, persecuzione vivevano. In qualche modo la vio­lenza più che esi­bi­ta in sé era riflessa nella di­men­sione del­l’esi­sten­za, del­l’e­spe­rienza in­di­viduale e collettiva.

Per mantenersi in questi viaggi lavorava per ONG o aveva strategie fantasiose. Come in Rus­sia quando si inventò come fotografo a domicilio e raccolse un’antologia di ritratti femminili sullo sfondo degli ambienti domestici scelti dalle stesse donne fotografate. Tutto era nato dall’incontro simpatetico tra Andrea e molte giovani e meno giovani donne russe, desiderose di avere un bel ritratto, per ragioni e necessità diverse. Scatti a prezzo contenuto, realizzati direttamente a casa, sono stati l’occasione di una esplorazione del­l’u­ni­verso femminile che ha poi assunto gra­dual­mente la valenza di una ricerca antropologica. Vol­ti e contesti, gesti e sguardi, tessuti e arredi compongono un mosaico di atmosfere private e parlano linguaggi di confidente intimità. Ogni scatto coglie il soggetto in una posa spontanea, liberamente assunta mentre racconta al fotografo della propria vita. E gli interni diventano la chia­ve per interpretare le aspirazioni di chi li vive, li ha scelti o li subisce. I motivi cromatici e gli at­tributi tattili degli oggetti arricchiscono ogni scena come quinte teatrali e le pagine si aprono come sipari a svelare, e a nascondere, sogni, am­bizioni, solitu­di­ni. Ne è uscito un libro Russian Interiors, ap­par­so ahimè postumo e le foto sono state premiate dal World Press Photo 2015.

In Ucraina nel febbraio 2014 si è trovato a do­cu­mentare la cosiddetta “rivoluzione della di­gni­tà” di Maidan, ha vissuto con i manifestanti, li ha ri­tratti, uomini e donne di tutti i ceti, armati con ar­nesi da scontro medioevale, ha colto la rab­bio­sa rea­zione della polizia, le violenze, fino a tro­varsi tra i primi all’epilogo, il vuoto di potere creatosi al vertice con la fuga dell’establishment.

E in Ucraina è voluto tornare qualche mese più tar­di: insieme al suo amico Andrej Mironov, rus­so, attivista dei diritti umani, raccoglievano te­sti­mo­nianze sulla vita della popolazione civile, li in­ter­vistavano, li ritraevano. La serie dei bunker è l’e­redità di quei giorni: la guerra è raccontata at­tra­verso le immagini dei bambini rifugiati nei bun­­ker, stipati tra i vasi di sottaceti e di mar­mel­la­te, terrorizzati dai bombardamenti notturni, dal­la per­dita dei genitori o dei fratelli colpiti negli at­tac­chi.

Ave­vano dei lasciapassare e Andrea fotogra­fa­va postazioni e trincee che facevano pensare alla guerra di un secolo fa, registrava le parole di chi narrava come il conflitto li avesse sorpresi ignari ed estranei, una guerra voluta altrove, da qualcun altro. La retorica della guerra patriottica contro i separatisti s’infrangeva di fronte alle sofferenze di chi della guerra era solo una vittima. Mi disse che stava seguendo la storia di due ragazzi amici sin dall’infanzia che la guerra aveva trasformato in nemici schierati su fronti opposti, pronti a darsi vicendevolmente la morte. Non ho mai visto le im­magini di questa storia.

Cosa è successo il 24 maggio 2014 ormai lo sappiamo. L’alibi della guerra ai confini ha sin qui consentito alle autorità ucraine una strategia elusiva e a tutt’oggi non si dispone nemmeno di una versione ufficiale dell’accaduto. Ma le dichia­ra­zioni rese dai testimoni oculari sopravvissuti – del gruppo si è salvato un giovane fotografo e il taxista – i dati emersi – luogo / ora –, le tracce rac­colte da giornalisti scrupolosi e impegnati la­sciano pochi dubbi sulla dinamica fattuale e sulle responsabilità, mentre resta ignota la ragione del­l’at­tacco contro giornalisti inermi, come pure la ca­tena di comando che ha scatenato l’attacco con­tro di loro. Non sono incappati in una scara­muccia tra postazioni nemiche, ma armati solo delle loro macchine fotografiche sono stati og­get­to di un fuoco accanito e metodico. Ciò che è accaduto a Andrea Rocchelli è parte di un’ampia casistica, di cui vorrei sottolineare due aspetti.

È entrata nell’uso la parola freelance per indi­ca­re chi come lui girava il mondo senza rete pro­tettiva e senza un contratto fisso con una testata o una rete tv, ma la parola che fa perno sul con­cetto di libertà è fuorviante. Tutti i fotografi sono stati a for­za spinti nello status di free lance dalla ri­vo­lu­zione digitale che ha cambiato il mondo del­la stam­pa e ha destrutturato la loro professio­ne: le te­state hanno budget ridotti, usano foto di re­per­torio, lavorano in velocità, acquistano le fo­to che i fotografi propongono ma non li as­su­mono, non esiste più la partnership giornali­sta-fo­tografo che nei decenni ha scritto la storia del giornalismo e fotogiornalismo nel mondo. Per questo Andrea aveva fondato con altri foto­grafi il collettivo au­to­no­mo Cesura, con l’ambizio­ne del­l’indipendenza e l’obiettivo di affermarsi grazie a un lavoro ben fatto. Una strada ardua e co­rag­giosa percorsa col­ti­vando un’idea alta e etica­mente impegnativa del lavoro di testimo­nian­za e di informazione, ben lon­tana e diversa dalla su­perficialità stereotipata che ci è offerta dai media.

L’altra considerazione riguarda l’incolumità dei giornalisti e foto­gra­­fi . Non è un caso che ven­ga­no rapiti, siano uccisi selettiva­men­te nei contesti di dittature, di guerre, di vio­lenze. Guerre ano­ma­le, non convenzionali e asim­me­triche si mol­ti­pli­cano nel mondo del terzo mil­lennio.

La terza commissione dell’Assemblea Generale dell’Onu, quella sui diritti umani, ha approvato il 29 novembre 2013 all’unanimità una risoluzione sulla sicurezza dei giornalisti e ha istituito il 2 no­vembre come Giornata internazionale per porre fine all’impunità dei crimini contro i giornalisti.

Quando si creano giornate per qualcosa è segno che la situazione è incontrollabile e infatti l’esca­la­tion delle morti di fotografi e giornalisti con­ti­nua, segnalata dai bollettini di Reporter sans fron­tiè­res. Nel febbraio 2012 ricordo che Andrea andò a Parigi a intervistare la compagna del fotografo fran­cese Remi Ochlik, 28 anni, ucciso da un bom­bar­damento selettivo a Homs in Siria. Vidi la re­gi­strazione di quell’incontro, da cui emergeva il fat­to che la casa dove erano Ochlik e i suoi col­le­ghi, tra cui un’americana, lei pure uccisa, era nel mi­rino dei bombardamenti, era un obiettivo messo a fuoco con cura. I testimoni indipendenti, ter­mi­na­zioni del mondo libero esterno, dovevano es­se­re annientati e così è stato. Una sorta di presagio, che mi è tornato in mente due anni più tardi. Ma quando si sparano cannonate contro i giornalisti si spara contro la nostra libertà di informazione, con­tro il nostro diritto di sapere e capire cosa suc­ce­de.

Un fotografo, un giornalista che muore è una voce libera che si spegne, uno sguardo attento e coraggioso che ci viene tolto, che non andrà più per noi a documentare e a raccontare con le im­ma­gini la complessità del reale. Senza di loro sia­mo più indifesi di fronte alle manipolazioni del po­tere, agli stereotipi, alle ricostruzioni artefatte degli attori interessati. Non possiamo guardare a queste morti come a effetti collaterali e normali dei conflitti. Gli antichi dicevano de re nostra agitur: si tratta di noi.