giovedì 18 aprile 2019

CENTOVENTICINQUE ANNI TRA EMIGRAZIONE E LETTERATURA

CULTURA - Un incontro conviviale

 

A margine delle manifestazioni in occasione del 125.mo dalla fondazione dell’Istituto di Filologia Romanza si è tenuto al Coopi di Zurigo un incontro conviviale al quale hanno preso parte numerosi docenti e dottorandi insieme alla presidente dell’Istituto, prof. Tatiana Crivelli Speciale. Di seguito riportiamo ampi stralci del discorso di saluto pronunciato dal direttore dell’ADL, Andrea Ermano.

 

È per me un onore e un piacere oggi, a nome dell’Editrice L’Avvenire dei Lavoratori (ADL), che ha storicamente sede al Coopi, potervi accogliere a questo incontro conviviale nel corso delle manifestazioni per il 125.mo dalla fondazione del Romanisches Seminar der Universitaet Zuerich, che è per altro coetaneo della nostra organizzazione, nata anch’essa a Zurigo, in un piccolo teatro del Niederdorf, nel 1894.

    Non sono pochi gli scrittori e i poeti italiani che hanno frequentato le nostre strutture in varie fasi di una lunga storia. In tempi più recenti ricordo la conferenza tenuta tra questi stessi tavoli da Gianni Celati, come pure i passaggi “cooperativi” di Dacia Maraini, Fleur Jaeggy e Laura Parriani come pure di molte/i altre/i scrittrici e scrittori.

    Anche in senso inverso non pochi giovani e meno giovani esponenti dell’emigrazione italiana in Svizzera hanno frequentato le aule del Romanisches Seminar. Tra essi permettetemi di ricordare Leo Zanier, fondatore di una tra le maggiori realtà scolastiche di questo Paese qual è l’ECAP, nonché scrittore, poeta e collaboratore dell'ADL: per molti anni, fino alla sua scomparsa, ci s’incontrava regolarmente, al Coopi o all’Università in occasione di qualche conferenza.

    Mi viene spesso in mente quel che Leo diceva rispetto a certi profes­sio­nisti dell'ostilità verso i migranti. I quali migranti, agli occhi dei cultori della xenofobia meglio sarebbe se mai arrivassero. Qualora siano invece ormai approdati a noi, debbono risultare sempre "arrivati ieri". Per­ciò, se non è già l'ora di rispedirli a casa, essi debbono assoggettarsi in eterno alle usanze del luogo.

    Ma – domandava Zanier – chi mai l'ha fatto, questo luogo?!

    E agli immemori, m’istruiva, bisogna indicare una lunga strada. E poi aggiungere, quasi sopra pensiero: Ecco, l'hanno fatta gli emigranti. Oppure mostrargli un ponte e vantare: Vedi, questo l'hanno costruito anche i “cìnkali” italiani. Oppure ancora, con ampio gesto della mano, ostentare una schiera di edifici ed esclamare: Guardali bene: edificati da quelli "arrivati ieri"

    E allora lasciateci dire, che è merito non del tutto trascurabile di questi migranti ultimi arrivati se, durante l’epoca dei totalitarismi, negli anni Trenta, un lembo di libertà di stampa ebbe a sopravvivere anche nella lingua di Dante, il quale fu per altro anch’egli migrante – Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale (Per. XVII, 58sgg.).

    Un esempio tra tutti di libertà: L'Avanti! parigino, che veniva stampato qui in Svizzera, anzi proprio nel Kreis 4, in questo quartiere, a pochi passi da qui. E che aveva sede alla Militaer­strasse 36, dov'era il Coopi fino a cinquant'anni or sono.

    L'Avanti! parigino recava come sottotitolo di testata la dicitura "L'Avvenire del lavoratore", che in realtà ne era la denominazione ufficiale, in quanto pub­bli­ca­zione autoriz­zata nella Confederazione Elvetica, grazie per altro al muratore analfabeta Pietro Bianchi che fungeva da direttore-prestanome e che meriterebbe una trattazione a sé.

   L'Avanti! parigino rappresentò senza dubbio un nobile ca­pi­tolo di giornalismo: e basti pensare alle inchieste sull'assassinio di Matteotti, alla denuncia del colonialismo in Africa, ai reportage dalla Guerra di Spagna.

    Ma nel giugno 1940 anche l'Avanti! parigino deve chiudere i battenti perché le armate hitleriane invadono la Francia. E allora tanto il "Centro estero" quanto la redazione del suo organo di stampa vengono trasferiti in questa città e posti sotto l'egida di Ignazio Silone. Il quale gode di grandissima fama internazionale grazie al romanzo Fontamara, di cui ha intrapreso la stesura dopo una tremenda crisi personale per la morte in carcere del fratello Romolo, ucciso innocente, a soli 28 anni, di percosse – di botte – solo in quanto familiare di un alto dirigente antifascista. Alla morte del fratello per qualche tempo Silone frequenta Carl Gustav Jung e possiamo ritenere che, nel contatto con il grande psicoana­li­sta zurighese, si sia consolidata in lui una vocazione della scrittura, che è anche percorso di guarigione.

    Per l'ADL, come per il Centro Estero di Zurigo – e il suo pendant romano, il Centro interno di Eugenio Colorni – la parola d'ordine è: "Stati Uniti d'Europa". Si tratta di un progetto di pace imperniato sul celeberrimo Manifesto che Colorni, insieme a Ernesto Rossi e ad Altiero Spinelli sviluppa clandestinamente nel 1941. Intendo quel "Manifesto di Ventotene" che filtra dal confino grazie a Barbara Hirschmann, grande donna e grande europeista.

    Purtroppo, però, Colorni cade a Roma nell'aprile 1944 in uno scontro a fuoco con le milizie fasciste, a pochi giorni dalla liberazione della capitale. E senza l'apporto della sua forte personalità come del suo straordinario vigore intellettuale il nuovo corso europeista non avrà vita lunga. Ci restano però negli annali l’officina dell'ADL e del "Centro Estero" che da Zurigo ha avviato un importante tentativo di rinnovamento della sinistra italiana, come scrive la storica senese Ariane Landuyt.

    A Zurigo Silone non è però soltanto un'europeista o un celebre letterato, egli è anche il mentore di molti giovani intellettuali che af­flui­sco­no nella Confederazione dopo l'8 settembre 1943. Non pochi fra loro svolgeranno poi un ruolo di primo piano nella nuova Italia. Ne cito tre: i registi Giorgio Strehler e Luigi Comencini, e il poeta di ascendenza ebraica Franco Lattes Fortini.

    Permettetemi di leggere alcune strofe di una lirica di Fortini, intitolata Canto di deportati. Appare sull'ADL settantacinque anni fa, il 15 aprile 1944. I pochi versi che ora dirò sono scritti dal giovane poeta israelita mentre i treni della Shoah stanno salendo verso i campi di sterminio nazisti, dove vengono gassate e poi bruciate nei forni crematori fino a quindicimila persone al giorno, uomini, donne, vecchi e bambini. Questo Canto di deportati è, direi, il primo segno d’impatto che l’Olocausto lascia sulla letteratura italiana. Ascoltate.

 

Vorremmo tornare e guardare,

carezzare il trifoglio dei prati,

gli stipiti della casa nuova,

piangere di pietà

dove passò nostra madre:

invece saremo lontani.

 

(…) E quando saremo tornati

l'erba pazza sarà nei cortili,

e il fiato dei morti nell'aria.

Le rughe sopra le mani,

la ruggine sopra i badili:

e ancora saremo lontani.

 

Saremo ancora lontani

dal viso che in sogno ci accoglie

qui, stanchi d'odio e d'amore.

Ma verranno nuove le mani

come vengono nuove le foglie

ora ai nostri campi lontani.

 

Ma la gemma s'aprirà,

e la fonte parlerà, come una volta.

Splenderai, pietra sepolta,

nostro antico cuore umano,

scheggia cruda, legge nuda,

all'occhio del cielo lontano.

 

Prima di concludere non posso non ricordare un’altra figura di spicco nella nostra storia, Angelica Balabanoff, alla quale Andrea Camilleri dedica un racconto struggente e anche piuttosto divertente. 

    Fondatrice nel 1909 dell'Internazionale delle Donne, esponente della sinistra italiana, ma di casa anche nella sinistra russa, la "Dottoressa Angelica" è opinionista e redattrice di punta dell'ADL durante la prima guerra mondiale e perciò viene ferocemente attaccata dalla stampa proto-fascista italiana e dallo stesso Mussolini, con il quale aveva condiviso un lungo sodalizio giovanile.

    Poi scocca a Pietro­burgo la scintilla della rivoluzione. Scocca nel giorno delle donne, l'Otto Marzo 1917, e proprio per iniziativa di un gruppo di donne, operaie tessili. Angelica, acclamata come e più di Lenin, rientra da Zurigo nella Russia rivoluzionaria che grandi entusiasmi sta suscitando tra i lavoratori di tutto il mondo. Assume importantissimi incarichi di coordinamento internazionale, che manterrà per qualche anno dopo la presa del Palazzo d'Inverno, avvenuta sotto la regia di Lev Trockij nella notte tra il 6 e il 7 novembre (24 e 25 ottobre del calendario giuliano).

    In seguito, però, alla sanguinosa repressione ordinata nel 1921 da Trockij per soffocare una rivolta anti-leninista e libertaria condotta dal Soviet dei marinai di Kronstadt, e in seguito all'ancor più sanguinosa scalata di Stalin al potere assoluto nell'Unione Sovietica, reputerà che la Rivoluzione russa stia perdendo la sua forza propulsiva. Ritornerà allora in Occidente, prima in Italia, poi in Svizzera, quindi in Francia e negli USA. Alla fine della seconda guerra mondiale la ritroviamo, libera nella Roma liberata in cui mezzo secolo prima si era distinta come una tra le più brillanti allieve del filosofo Antonio Labriola.

 

E giunti sin qui, vorrei proporvi un secondo accento femminile. Mi riferisco a Giulia Bondanini Schiavetti, co-fondatrice della Scuola Libera Italiana e dell’Unione Donne Italiane.

    Nel suo libro su Giulia Bondanini Schiavetti una delle maggiori storiche del “fuoriuscitismo” italiano, Elisa Signori, scrive che esiste come una "distorsione ottica" indotta dalle fonti poliziesche, nelle quali l'antifascismo delle donne è un fenomeno "invisibile e/o marginale". E, allora, per ovviare a questa "distorsione ottica" propone due correttivi: «da un lato l'attenzione alle percezioni soggettive, grazie alle quali si riesce a forzare il confine che talvolta artificiosamente separa politica e cultura (…), scelte di valore e scelte di vita, dall'altro l'uso delle chiavi di lettura suggerite dalla storia di genere (…) che consentono di sottolineare la valenza di una pluralità di azioni di sostegno, di attitudini solidaristiche, di mansioni cospirative e strategiche, di attività pedagogiche e di mobilitazione propagandistica gestite dalle donne con originalità e consapevolezza».

    Il tessuto della quotidianità di quei vent'anni «è annodato intorno a loro, figure di madri, mogli, figlie, collaboratrici il cui personale contributo di passione e di idee, di lavoro e di organizzazione» scrive una nuova storia. Ma non possiamo dimenticare neppure il loro tributo di sangue. E qui penso, emblematicamente, a Vittoria Nenni, la figlia di Pietro Nenni, che muore nell'estate del 1943 ad Auschwitz, dove una teca ne ricorda le ultime parole: «Dite a mio padre che non ho perso coraggio mai e che non rimpiango nulla».

    Per concludere, consentitemi brevissime parole su uno dei più celebri tra i romanzi italiani, e non solo italiani, scritti a Zurigo: Fontamara.

    Fu tradotto in una ventina e più di lingue. Comportò un enorme danno d'im­ma­gine per il duce. E basti pensare che il Presidente degli Stati Uniti d'America, Franklin Delano Roosevelt volle che proprio una copia in inglese di Fontamara fosse conse­gna­ta a ciascuno dei marines in procinto di sbarcare in Sicilia nel 1943, affinché potessero apprendere per quale causa essi erano stati inviati a combattere nel no­stro Paese.

    Del resto, come leggo nel secondo volume di “Zurigo per Silone”, curato in modo davvero eccellente da Emilio Speciale, amico indimenticato e indimenticabile, fu proprio lo stesso presidente Roosevelt a scrivere, un anno dopo lo sbarco di Sicilia, una lettera di ringraziamento agli editori svizzeri di Silone:

 

«To Dr. and Mrs. Emil Oprecht, my sincere appreciacion for their valiant work and efforts in the cause of the United Nations (…)

Very sincerely yours

Franklin D. Roosevelt».

 

Che stile, direte voi. Certo, altri tempi… Altra Casa Bianca… E ben altra idea della Politica! C’era una volta un Presidente che ringraziava una piccola editrice di libri che, salvati dai roghi nazisti, avevano servito "la causa delle Nazioni Unite".

    È sottesa qui una certa concezione della res publica. Qui possiamo intendere come i "trent'anni gloriosi" della democrazia occidentale – che iniziano con la fine della guerra e giungono alla seconda metà degli anni Settanta – fossero caratterizzati dall’imprinting di questo legame tra politica e cultura, il cui significato più profondo colloca la ricerca della legittimità nella forza della ragione.

    Tempi irrimediabilmente passati?

    Non saprei. Questo, permettetemi, dipende anche da voi, docenti e letterati, che formate l’intelletto e il gusto di sempre nuove generazioni.

    Ecco, gentili e illustri ospiti, di ben lungi non ho illustrato tutto quel che si potrebbe narrare circa le tante storie che proprio nel Coopi si collegano a una storia ben più ampia, svoltasi durante i 125 anni di ‘concittadinanza turicense’ tra il Romanisches Seminar e l’emigrazione italiana, quella che “per luogo e per voce” noi qui cerchiamo di rappresentare, non troppo indegnamente spero.

 

 

 


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