domenica 2 febbraio 2014

C’è un futuro per la nazione italiana?

Da MondOperaio
  
di Gianfranco Sabattini
 
Dopo una prima edizione alla vigilia della celebrazione dell'Unità d'Italia, Emilio Gentile ha ridato alle stampe un suo vecchio saggio, con un capitolo aggiuntivo nel quale azzarda qualche previsione sul futuro della nazione e dello Stato. "Né Stato né nazione. Italiani senza meta", è il titolo del saggio, nel quale Gentile riespone la considerazione che la nazione è tuttora il principio che legittima il "vivere insieme" di un popolo, organizzato nel territorio di "uno Stato sovrano e indipendente"; e rievocando una riflessione di Ernest Renan afferma che la nazione, cioè la persistenza del "vivere insieme", è un plebiscito di quasi tutti i giorni, nel senso che nei paesi in cui sono frequenti le consultazioni elettorali, com'è avvenuto in Italia nell'ultimo mezzo secolo, tale plebiscito viene rinnovato quasi senza soluzione di continuità nel tempo.
    Ma a differenza delle altre nazioni organizzate all'interno del loro Stato, i continui plebisciti elettorali sono valsi in Italia a fomentare divisioni, in presenza di contrapposizioni ideologiche, culturali e territoriali; ed anche con il crollo delle ideologie e la fine della divisione del mondo in "blocchi" irriducibili che ne erano un'importante causa, le divisioni sono cresciute, grazie alla frammentazione dei partiti, alla municipalizzazione della politica, alla personalizzazione del potere e alla contrapposizione tra principi "non negoziabili". Ricordando Renan, Gentile ammonisce che la nazione si regge su rapporti di solidarietà tra tutti i suoi componenti, che trovano la loro origine nel sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme per il bene comune; ciò significa che la nazione presuppone un passato, ma si ripropone nel presente attraverso il consenso generale sulla volontà di continuare a vivere insieme.
    Senonché i componenti della nazione italiana non hanno mai condiviso il sentimento comune dei sacrifici compiuti insieme, e il ricordo del passato ha sempre diviso gli italiani; pertanto solo l'oblio potrebbe unire gli italiani in una solidarietà condivisa. La ricerca storica, precisa Gentile ricordando ancora Renan, può essere un pericolo, perché riporta alla memoria le violenze che accompagnano di solito la nascita delle nazioni, anche di quelle largamente condivise. Per evitare un tale pericolo gli italiani potrebbero fare a meno delle propria storia, e – se lo Stato dovesse sopravvivere alle divisioni – condurre un'esistenza simile a quella degli animali, gli unici esseri organici che tendono a dimenticare, vagando perciò in un presente senza storia.
    La denuncia del malessere della nazione italiana è sempre stata il leit motive dei ricorrenti giubilei dell'Unità, nel 1911, nel 1961 e nel 2011. Sistematicamente, in occasione di ogni giubileo, si è assistito al prevalere delle riflessioni critiche, e sempre è stata condivisa l'opinione che l'Italia non fosse uno Stato moderno, efficiente ed equo, perché erano molti i mali residui della raggiunta unità, che impedivano agli italiani di diventare una nazione di cittadini "liberi ed uguali". In occasione dei giubilei, quindi, si è celebrata un'Italia che in qualche modo progrediva, ma sempre in presenza di profonde divisioni: non solo tra le diverse parti del paese, ma anche riguardo alla mentalità, al modo di concepire la nazione e all'accettazione dello Stato nazionale realizzato con il Risorgimento. In queste condizioni, giunta alla soglia dei suoi centocinquanta anni, l'Italia unita continuava a non stare bene; ed oggi, a distanza di qualche anno, sta ancora peggio.
    L'economia nazionale è in crisi, e scarse sono le possibilità di una fuoriuscita dal tunnel del disastro in cui è stata cacciata dalle scelte improvvide della politica della prima Repubblica. Tali scelte hanno compromesso la capacità di tenuta della base produttiva nazionale, inabissatasi nel vuoto dell'inefficienza non appena ha perso la "pratica" della svalutazione monetaria per reggere la concorrenza delle economie estere. Ma le scelte della seconda Repubblica non sono state meno negative, in quanto, oltre ad aver dato credito e voce ad un partito, la Lega Nord, nata col solo proposito di disunire lo Stato con continue minacce di secessione e di ricorso alla lotta armata, hanno anche in parte minato gravemente l'efficacia della sua organizzazione. Ciò è accaduto perché i partiti creati nel corso della seconda Repubblica hanno accondisceso, per soli scopi di potere, alle pretese della Lega di attuare un malinteso federalismo che ha avuto solo l'effetto di mettere lo Stato allo stesso livello istituzionale delle sue articolazioni territoriali (regioni, province e comuni).
    Come se non fosse bastato, la seconda Repubblica ha contribuito all'esasperazione delle divisioni, favorendo, con la scusa di voler assicurare una maggiore efficienza al sistema-paese, la totale distruzione dell'economia mista che in passato, pur con tutti i suoi limiti, aveva concorso ad assicurare una equità distributiva.
    La distruzione dell'economia mista ha infatti dato la stura all'approfondimento delle disuguaglianze sociali, che nella fase attuale, oltre ad impedire l'attuazione di una politica diretta a tentare di porre rimedio alle scelte errate del passato, è anche motivo dell'aggravarsi della disaffezione verso lo Stato di una crescente parte della popolazione che sta "slittando" verso una condizione di povertà relativa, quando non di povertà assoluta.
 In conclusione, come afferma Gentile, "non si può escludere che gli italiani e le italiane, vergognandosi delle condizioni malsane del loro Stato degradato, possano essere nuovamente capaci di rinnovare la simbiosi fra italianità, unità e libertà e costruire finalmente uno Stato nazionale di cittadini liberi ed uguali, del quale essere fieri: non per orgoglio, ma per dignità". Resta però l'amara constatazione che è estremamente improbabile che ciò possa accadere, considerando che le generazioni attuali, e forse molte altre a venire, dovranno vivere nell'incertezza e nella precarietà perchè l'attuale società politica si è appiattita parassitariamente sul presente, senza riuscire a governare con successo neppure esso.