Ci ha lasciati Mario Perniola, uno tra i maggiori esponenti della filosofia italiana contemporanea
di Andrea Ermano
Pensatore di un sentire finissimo, di un'esemplare clarté e di una risata, ora bonaria, ora senz'appello. Con Mario Perniola, morto il nove gennaio scorso nella sua casa romana, ci ha lasciati uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei. Indagatore trasgressivo, "più che sacro più che profano", profondamente partecipe della storia e della teoria dell'emancipazione del e dal lavoro, si era formato alla scuola ermeneutica torinese di Pareyson. Aveva esordito nel 1961 con un saggio su Samuel Beckett, pubblicato sulla rivista di Silone e Chiaromonte, "Tempo presente". Seguiva percorsi di ricerca sempre nuovi, orgogliosamente non di scuola, ma fedelissimo alla più rigorosa trasparenza argomentativa.
Ha scritto Langone sul "Foglio": «Fino a ieri pensavo fosse il numero due e forse mi sbagliavo perché il filosofo numero uno, Emanuele Severino, scrive sempre lo stesso libro mentre lui scriveva ogni volta un libro davvero diverso, risultato di un'inesausta, quasi ragazzina curiosità. Oltre che per la sua anima prego dunque per l'uscita di un libro postumo: sarà un libro vivo.»
È possibile che il libro postumo di Mario Perniola sia un diario di vita, viaggi e città al quale lavorava negli ultimi tempi. Non posso né vorrei riassumere qui la vita e l'opera in un "coccodrillo" giornalistico. Dirò solo che nel 2017 aveva pubblicato presso Bompiani un importante volume dal titolo Estetica italiana contemporanea. In esso Perniola si era dedicato a "trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant'anni". Anche di questo libro andava molto fiero, perché mostrava come il sentire, l'estetica «abbia giocato un ruolo essenziale nell'autorappresentazione della società borghese, al punto da costituirne l'inconscio politico».
Il penultimo libro, un romanzo di "storiette" uscito nel 2016, reca titolo Del terrorismo come una delle belle arti e narra le vicende «comiche e grottesche di un militante trotskista argentino, condannato a morte dai suoi ex compagni di partito, con sentenza "da eseguirsi il giorno della rivoluzione". La folle avventura politica, esistenziale e nichilista dei membri dell'Armata rossa giapponese. La surreale compagnia di esaltati, anarchici, pazzoidi, bohémiens e filibustieri che si ritrova, negli anni Settanta, intorno alla redazione della rivista "Agaragar". Ma anche scrittori e artisti come Moravia e Pasolini, surrealisti e situazionisti. In questi testi autobiografici, né interamente veri, né interamente falsi, Perniola rivela le radici esistenziali della propria filosofia, mostrando la sua stretta connessione con alcune vicende storiche, politiche, culturali ed umane a lui contemporanee. Le storiette si rifanno da un lato al genere letterario, a metà tra il serio e il faceto, praticato dagli antichi filosofi cinici, dall'altro ai setsuwa dei monaci giapponesi e si basano sulla premessa buddhista della non sostanzialità dell'io, non meno che sul rifiuto di una narrativa ingenua e popolare, ignara del carattere enigmatico e paradossale della scrittura letteraria. La loro tonalità emozionale è un misto di terrore e di ironia, che unisce lo stile dell'avanguardia al distacco estetico, usando indifferentemente registri realistici e surrealistici in una combinazione che appartiene alla logica del simulacro.»
Mario e io ci eravamo conosciuti nel 1990 per "importare" Peter Sloterdijk in Italia. Promuovemmo presso Garzanti la pubblicazione della Critica della ragion cinica, per la quale Perniola compose all'epoca una notevole Presentazione, ripubblicata anche nella seconda edizione dell'opera, uscita presso Cortina nel 2013.
Sottilmente, in questa Presentazione Mario metteva a fuoco, accanto all'amplissima summa cinica dell'autore tedesco, un'ulteriore causa della "sindrome weimariana" che negli anni Trenta diede luogo alla catastrofe nazista e che da un quarto di secolo ormai corrode la nostra democrazia.
Questa ulteriore causa cinica di crisi insisteva per Perniola nella rottura dell'aidôs, termine greco antico che significa "pudore", "timidità", "verecondia", "modestia", "rispetto", "stima", "venerazione", ma (in caso di mancanza di tutto ciò) può anche voler dire "vergogna" e "disdoro".
La rottura cinica dell'aidôs è per Mario Perniola la causa del mancamento del presupposto pre-politico fondamentale in rapporto alla Politica tout court. Ed è perciò che «il compito storico di fronte al quale si trova la filosofia oggi presenta sorprendenti analogie con quel momento della filosofia antica».
La catastrofe del "pudore" ateniese avvenne nel 399 a.C. con la condanna a morte di Socrate. La diagnosi di Perniola venne pubblicata mentre correva l'annus horribilis 1992. Da allora cresce al centro della nostra polis un alto monte di macerie e disgusto e vergogna e disdoro. E ora, senza Mario, non sarà certo più facile ricostruire l'aidôs fracassato.