mercoledì 1 febbraio 2012

Noterelle cosmopolite sulla dignità della persona

Una riflessione siloniana

 

In occasione dell'uscita presso le edizioni dell'ADL di "Zurigo Per Silone II", curato da Emilio Speciale, pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento del nostro direttore.

 

di Andrea Ermano

 

Che cos'è l'uomo?

 

Desidero proporvi uno schema di riflessioni circa il senso e il significato della dignità della persona, procedendo nello spirito dell'umanesimo socialista che secondo Ignazio Silone consiste in un'estensione etica di quel sentimento di fratellanza per il quale l'uomo sta al di là di tutti gli interessi economici, politici e religiosi che tendono a strumentalizzarlo e a opprimerlo.

   Muovendo di qui incontriamo una domanda tutt'altro che secondaria, nella quale Kant fa confluire le questioni ultime della filosofia in "senso cosmopolita":

 

1) Was kann ich wissen?

2) Was soll ich tun?

3) Was darf ich hoffen?

 

Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è dato sperare? La domanda in cui i tre quesiti confluiscono è: «4) Was ist der Mensch?» – Che cos'è l'uomo?

   Con gli antichi si potrebbe rispondere che l'uomo è quell' essere vivente che possiede pensiero e linguaggio .

   Gli atti del pensiero e del linguaggio posseggono una struttura intenzionale : sono sempre riferiti a qualcosa. I segni del linguaggio sono sempre "segni di...". Così il pensiero è sempre "pensiero di...". Segni di... Pensiero di... Di che cosa?

 

Essere, alla terza e alla prima persona

 

Il tratto comune agli oggetti del pensiero e del linguaggio sembra risiedere nel loro semplice essere . La nozione di oggetto in generale fa il suo ingresso nel pensiero, nel linguaggio e nella tradizione della filosofia come sostantivo participiale neutro. Esso è l'ente, il ciò-che-è parmenideo che solo 'è' e che non può non essere.

   Esso in verità si rivela un coacervo abbastanza assurdo, data l'estrema difficoltà che il pensiero e il linguaggio incontrano nel cercare di determinare che cosa esso sia nella sua sostanza. Non l'acqua né il fuoco, non l'aria o la terra o il Sole "grande un piede", né l'essere giallo o bianco o un altro dei cangianti colori. Perché se c'è l'ente giallo, pure esiste il non-giallo; così il bianco 'è', ma anche il non-bianco.

   Insomma, l'ente può essere detto in molti modi, e in altrettanti contraddetto. Il mondo dell'ente è troppo pieno di contraddizioni, cioè vuoto: un nulla.

   All'essere degli antichi, neutralizzato e annichilito, la rivoluzione cartesiana ha opposto una nuova sostanzialità, quella della prima persona . Questa rivoluzione consiste nel riferire il pensiero a se stesso: Io penso, dunque sono . Ma resta aperto un grosso problema: come potrò io, solus ipse, distinguere il mondo dal sogno? Il cogito moderno sembra destinato a rimanere prigioniero di un'autoreferenzialità senz'evasione.

   Né dalla prima persona cartesiana, ombra di un sogno, né dalla terza persona parmenidea, coacervo di contraddizioni che non significano nulla, sembrano poterci venire molti ragguagli sul nostro mondo.

 

Seconda persona come substantia prima

 

Per compiere una rivoluzione mondiale dell'essere occorre volgersi alla seconda persona.

   Tu sei, tu esisti. Voi siete, esistete per davvero.

   Nella seconda persona la sostanzialità dell'essere si manifesta secondo la dignità , valore assoluto che appartiene a te, a voi e a ciascun singolo 'tu'.

   L'essere si declina originariamente alla seconda persona per via della sua innegabilità nella "relazione sociale". La curvatura buberiana-levinassiana dello spazio intersoggettivo illumina l'esteriorità del mondo come orizzonte generale in cui anche il riferimento oggettivo trova un suo contesto, necessario a "salvare i fenomeni". L'esistenza dell'altro, ossia in ultima analisi il "tu sei, tu esisti", è garante dell'esteriorità, cioè del nostro mondo umano d'azione, di parola e di pensiero.

   La differenza dell'approccio consiste nel pensare l'essere a partire dalla sostanzialità dell'altro, ossia dalla sua propria personalità, la cui caratteristica è il possedere dei diritti. Il primo presupposto dei diritti (inalienabili) della persona consiste nel suo, e dunque nel tuo, existere .

   La dignità – intesa come "valore assoluto" – si manifesta nell'essere del "tu sei", assolutamente riconosciuto. L'essere nella seconda persona possiede lo statuto ontologico di chi esiste a buon diritto, per diritto suo proprio, indipendentemente dai sogni, dalle fantasie, dalle ideologie dell'io che inesorabilmente tendono a cosificare il ciò-che-è in una totalità di funzionalizzazioni economiche, politiche e religiose.

   In altre parole, se il Tu dell'Io significa un Esso, cioè un Ente apparente e dunque un Niente, tutt'altrimenti dentro la curvatura dello spazio dialogico ogni parola e ogni pensiero significano qualcosa, perché intendono sempre anche e soprattutto qualcuno , un 'tu' a cui ogni parola è detta. L'intenzionalità nella sua datività significa qualcuno : è, per così dire, il nome proprio all'infinito.

   Questa datività dell'essere, essere che da Aristotele a Heidegger declinava le categorie dell'esistenza all'accusativo, indizia ora nel 'tu' la sostanza come persona e con essa la dabilità del nostro mondo.

   La rivoluzione mondiale dell'essere è personale .

   È personale in quanto, storicamente, ha inizio come passaggio dalla neutralità impersonale del ciò-che-è (l'orribile il y a di cui parla Emmanuel Levinas) alla personificazione dell'"io penso, dunque sono".

   Ma è soprattutto nel passaggio dalla prima alla seconda persona, dall'"io sono" al "tu sei", che la rivoluzione mondiale dell'essere trova compimento.

 

Transizione bio-etica

 

Se dunque l'essere sostanziale si svela nel "tu sei" mostrando l'etica come prima philosophia, è nell'esistenza personale che la substantia prima s'invera, fin dalle sue origini storico-concettuali che gettano radici profonde nella crisi della dottrina delle idee, tra la redazione platonica del Parmenide e quella aristotelica delle Categorie.

   L'ousiologia fin qui tratteggiata, che schematizza l'idea di persona, è icasticamente riassunta dal l' annotazione del vecchio Kant:

 

Ein Ding res; eine Substanz die so sich ihrer Freyheit bewußt ist ist Person , hat auch Rechte .

 

«Una res , Ding – una sostanza che sia in tal guisa consapevole della sua libertà, è persona , ha anche diritti ». Oggi, nei termini della Dichiarazione universale, si potrebbe dire: «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo , al riconoscimento della sua personalità giuridica» (art. 2.2) e ciò in quanto «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1).

   Proviamo ora a torcere l'angolatura visuale. Cerchiamo di focalizzare la questione bio-etica che si pone nel discrimine tra 'persona' e 'non-persona'. Si tratta di un problema che c'interpella in modo bruciante nell'odierna costellazione globale caratterizzata da massicci moti migratori e da massicce violazioni dei diritti umani.

   Per cogliere il senso di questo discrimine è utile riflettere sulla distinzione tra la vita umana e la vita nuda. Esemplare, proprio in questi giorni di violente polemiche bio-etiche [il discorso di cui qui si riporta il testo è stato tenuto il 23 novenbre del 2008, ndr] , è il caso di Eluana Englaro, la donna in coma irreversibile dal 1992 per la quale il padre chiede si cessi l'accanimento terapeutico che viene perpetrato sul corpo di lei, corpo privo di vita cosciente e coperto da piaghe di decubito.

   In merito al Caso Eluana si asserisce da parte "pro life" che la dichiarazione di morte cerebrale non basta a sancire la fine della vita.

   Sul piano pratico i trapianti andrebbero allora vietati. Questo quanto meno consegue al criterio della nuda vita. Perché ovviamente c'è 'vita' anche in assenza di vita cosciente, cioè al di fuori della cinta concettuale della "vita umana". Ma, se gli organi di una persona considerata 'morta' per assenza di attività cerebrale debbono essere trapiantati 'vivi' mentre di contro non è lecito considerare veramente 'morta' una persona in stato d'inattività cerebrale, se cioè bastassero i meri segni di vita presenti nei suoi organi a dichiarare 'viva' una persona, allora non si comprendebbe più in qual senso mai si possa parlare di "fine della vita umana ", e questo certo non soltanto in rapporto alla pur delicata problematica dei trapianti.

   L'aporia, inedita nella sua virulenza, mette in luce l'importanza della distinzione che riteniamo intercorrere tra la nozione di vita umana e quella di nuda vita.

   Domanda ai difensori della nuda vita: volete voi assimilare la vita umana a quella, per esempio, di un'ape?

   All'ape che succhia del miele può essere staccato di netto l'intero addome senza che essa mostri di accorgersene: continuerà a succhiare il miele, che fuoriuscirà ora dal tronco del suo corpo mozzato.

   L'inquetudine che proviamo dinanzi alla crudeltà comunque insita in questo genere di osservazioni si mescola all'inquietudine che proviamo per l'assenza di umanità che la nuda vita segnala.

 

La minaccia sovrana

 

L'inquietante paesaggio s'inasprisce ulteriormente nel transito dalla bio-etica alla bio-politica, intesa come il luogo delle decisioni dotate di vigore normativo.

   E qui va detto che – se consentiremo ai benintenzionati di sancire un'equivalenza tra l'espressione "nuda vita" e l'espressione "vita umana" – noi allora nel nome delle buone intenzioni dell'oggi spalanchiamo le porte ai malintenzionati di domani, i quali non tuteleranno la vita nuda, ma denuderanno la vita umana. Questo la storia insegna.

   Nella storia umana è orribilmente normale che i diritti vengano revocati a intere categorie di persone e financo a interi popoli, per esempio a quelli sconfitti in guerra. La guerra, genitore di tutte le cose, rende gli uni liberi, gli altri schiavi, sentenziava già Eraclito. E si tende a dimenticare che il primo Comandamento della tradizione giudaico-cristiana racconta in realtà la storia di una liberazione:

 

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti fece uscire dal paese d'Egitto, dalla casa degli schiavi.

 

Così, il Comandamento è memoria di Liberazione – di fuori uscita dalla schiavitù. Ma proprio perciò presuppone la vicenda di un asservimento precedente, il quale (detto nei termini protofilosofici da cui abbiamo preso le mosse) avviene in forma di riduzione del 'tu' a un 'esso'.

   C'è la cosificazione. Cui, nel dramma della schiavitù, la seconda persona è stata assoggettata, senza che ciò potesse per altro incontrare un insormontabile ostacolo nella coscienza di un 'io' aduso a reificare ogni suo oggetto, come se tutto fosse una semplice 'cosa'.

   Nel 322 a.C. il luogotenente imperiale macedone, Antipatro, espulse i lavoratori ateniesi dal novero della cittadinanza perché dediti alla fatica delle braccia, considerata degna degli schiavi e non di uomini liberi, ricorda Mario Vegetti.

   La storia del pensiero è ricca di teorie tassonomiche alquanto efficienti nel sussumere certi gruppi di persone alla categoria dello schiavo e nell'attribuire poi loro una biologia sub-umana cui giustapporre la natura super-umana riservata ai lor signori. Nelle tassonomie signorili la natura biologica dello schiavo include che sia bene per lui obbedire al suo padrone e servirlo.

   Nel 71 a. C., lungo la via Appia, il proconsole Mario Licinio Crasso fece denudare per spregio e poi crocifiggere seimila persone: Spartaco e i suoi seguaci, ribellatisi alla condizione servile.

   La logica sovrana, appartenente a chi assume la potestà di classificare "schiavi" certe persone, è la stessa che può poi riqualificarle "api", "formiche" o al limite "scarafaggi", reperendo se del caso i mezzi atti a un trattamento in linea con la tassonomia prescelta. Questo è stato. La riduzione della vita umana a nuda vita, e la cosificazione della medesima, è il "ciò che era ad essere" della discriminazione, della persecuzione e dello sterminio. Questo è stato.

   Rimeditando queste gravi tematiche, Giorgio Agamben riprende la categoria dell' homo sacer, risalente al diritto romano arcaico.

   Homo sacer – uomo "sacro" secondo un'accezione secondaria che il termine possedeva in latino e che significava: "detestabile", "esecrabile", "maledetto" – era una persona non esplicitamente condannata a morte, ma che poteva essere ammazzata da chiunque, senza che tale uccisione venisse considerata un omicidio dall'autorità.

   Ecco la figura giuridica di una "vita umana" dichiarata uccidibile , spogliata di ogni sacralità, cioè della sua dignità personale, cioè dei suoi diritti, quindi ridotta a "vita nuda" ed esposta come tale all'arbitrio sovrano.

   Ecco l'archetipo della pubblica maledizione, che sottende all'antropologia del barbaro, della donna e dello schiavo, che il potere classificatorio può ridesignare 'nemico', 'strega', 'traditore', eccetera.

   L'apice abissale del disastro immane – che un Walter Benjamin insorto contro il Patto Molotov-Ribbentrop iniettò nella pupilla atterrita dell' Angelus novus e che Agamben ripercorre "da Aristotele ad Auschwitz" – culmina nel lager nazista.

   Il luogo della Shoah non si presenta soltanto come trionfo di morte assoluta per l'umano, ma anche come laboratorio di un esperimento impensato «in cui i confini fra l'umano e l'inumano si cancellano».

   Nel campo di sterminio l'arbitrio sovrano reclama la sua potestà sul discrimine tra Persona e Non-persona.

 

Cosmopolis

 

Tanto più drammatico è lo scenario che ci si apre in prospettiva cosmopolitica.

   L'ideale cosmopolita, vetusta utopia dei Lumi, attiene per noi oggi all' urgenza di governare dinamiche globali che non possiamo in alcun modo abbandonare a se stesse.

   Ma il mondo umano non è governabile senza il consenso delle persone.

   Ergo, la governabilità del nostro mondo vitale non può fondarsi che sulla mente e sul cuore di ciascun singolo 'tu' in una rivoluzione sociale mondiale improntata all'estensione di quel "sentimento di fratellanza" nel cui spirito ho esposto le presenti considerazioni.

   Per concludere vorrei ribadire tre convincimenti, in modo necessariamente negativo.

   Non sappiamo se il nostro sconfittissimo "socialismo umanista" sia anche solo lontanamente possibile.

   Non vediamo alcuna seria ragione per smettere di crederlo necessario.

   Non sarà il potere sovrano a salvarci.

 

Dieci piccole epsilon

 

Postilla del 5 marzo 2011

 

Tutti sanno che i politici romani portano su di sé responsabilità storiche. Lo afferma anche Joseph Ratzinger che, nella seconda parte del suo libro su Gesù, s'interroga sulla celebre domanda pronunciata dal "pragmatico Pilato" un tragico venerdì di circa duemila anni fa.

   Il predicatore, un nazareno barbatus, sta in piedi nel pretorio davanti al governatore. È imputato di vilipendio all'autorità civile e religiosa, reato grave ove non sacrilego. Potrebbe costargli la vita.

   Il giovane intellettuale della Galilea si mette a parlare di verità. Dichiara di essere venuto al mondo per testimoniare la "Verità". Un fanatico?

    «Che cos'è la verità?» – gli domanda a bruciapelo il prefetto, per vedere quale definizione abbia in mente quell'uomo. Sarà facile poi chiedergli perché mai la sua verità debba coincidere con la Verità con la "V" maiuscola.

   L'imputato tace. Dopo qualche istante l'intero quadro accusatorio appare a Pilato del tutto inconsistente e lo dice anche: «Non trovo nessuna colpa in lui».

   Poi, però, invece di proscioglierlo, lo spedisce sul patibolo. È per via di un mezzo plebiscito, inscenato sotto il balcone da una mezza tifoseria ululante.

   Che importa se l'innocente non è colpevole?

   Che significa innocente?

   Che cos'è la verità?

   In politica i rapporti di forza contano. E per lo più discendono da semplici quantificazioni: tanti i sostenitori, tanti gli indifferenti, tanti gli oppositori, tante le munizioni. Qui s'inserisce la domanda ratzingeriana:

 

Può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura?

 

Bell'interrogativo, perché o la politica è totalmente incapace di verità (e l'unica sua legittimazione sta allora nella violenza, nella corruzione e nella frode), oppure bisognerà pur poterlo sciogliere, questo paradosso di Ponzio Pilato, cioè 'mostrare' finalmente un grano di verità in politica.

   Uno schema di soluzione, si può forse provare a tratteggiarlo partendo da quella "curvatura" dello spazio interpersonale che chiamiamo Linguaggio.

   Sull'isola di Delfi – patria del Linguaggio ( Conosci te stesso! Nulla di troppo! ) – antichi scultori inscrissero la lettera greca "E", una grande Epsilon , la inscrissero nel frontone del tempio di Apollo. Questa grande Epsilon , ad ascoltare Plutarco, indicava la seconda persona del verbo essere: Tu sei. Tu esisti.

   Analogamente, in ogni parola umana è inscritto un piccolo indizio cui di solito non badiamo, ma che intende sempre e comunque l'esistenza reale di un "tu" capace di ascoltare quella parola. Ciò che vale anche per la parola "verità", e per essa anzi vale a ben maggior ragione.

   La verità della verità si svela essere un "tu" che emerge come significato sostanziale dal linguaggio umano, comunque, dovunque.

   La verità della verità s'incarna nella sostanza prima dell'altro essere umano. Fin dall'inizio della riflessione sulle categorie, già in Aristotele, la categoria di sostanza prima è regolarmente associata a un essere umano. Né questi ammette un maggiore o minor grado di sostanzialità, afferma il Filosofo. Tutti gli esseri umani sono pari in sostanzialità e umanità, cioè pari in dignità.

   Ecco, a partire da questa categoria sostanziale della dignità umana , la politica – ma non solo essa – può e deve farsi carico della verità a lei propria, una verità faticosa, priva di sfarzo. Inesauribile nella sua capacità critica. Inservibile in funzione dogmatica.

 

Nel suo Dizionario delle sentenze latine e greche , Renzo Tosi menziona un "curioso aneddoto", secondo cui alla domanda circa la definizione della verità,

 

Quid est veritas?

 

qui formulata nella traduzione latina dell'enunciato originario, Gesù di Nazareth avrebbe risposto con un arguto anagramma:

 

Est vir qui adest.

 
Che cos'è la verità? È l'uomo che ti sta davanti. Pare strano, storicamente, che i due possano aver conversato in latino, ma se non è vera è ben trovata .