martedì 6 maggio 2008

LO STATO D'ISRAELE HA SESSANT'ANNI

Dibattito - La sinistra e Israele

di Claudio Vercelli
Qualche considerazione sull’articolo di Vera Pegna "Sionismo o pace: la scelta è vostra" (ADL 28.4.08), tenendo ferma la legittimità dello Stato d’Israele, che il 14 maggio compie sessant'anni. La sua nascita nel 1948 non è l’esito di una «proclamazione unilaterale». Nessun paese si è formato senza attriti con coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione. Il vero problema, per i palestinesi non è quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato.

Si può spiegare la nascita di uno Stato e, ancor di più, le ragioni per le quali continua ad esistere? C’è un presupposto che renda legittima, una volta per sempre, la sua presenza sulla terra, nel consesso internazionale? Perché tali quesiti vertono sempre sull’azione e l’esistenza medesima di alcuni Stati – uno in particolare - e mai sugli altri? Sono queste, tra le altre, le domande che ci si pone leggendo l’articolo di Vera Pegna dedicato a Sionismo o pace: la scelta è vostra.

Già il titolo, stabilendo un legame avversativo e una reciprocità inversa tra ciò che viene definito «sionismo» (un complesso di fatti storici ma, soprattutto, un insieme di condotte ripetute nel tempo, corroborate da convincimenti ideologici basati sulla volontà di sopraffare) e una ipotetica pace (che si darebbe in alternativa al sionismo medesimo), induce a riflettere su quale sia l’indirizzo che l’autrice intende affermare fin da subito con le sue parole. Che sono una cortese raccolta di luoghi comuni su Israele, irritante come lo sanno essere quei giochi di carte, fatti da abili prestigiatori, che nel prometterci la possibilità di una qualche vittoria ci defraudano anticipatamente di ogni reale possibilità in tal senso.

Ancora una volta, se mai occorresse, ci troviamo dinanzi alla manifestazione di quello che è un assunto di principio, un assioma tolemaico tenacemente diffuso (Israele è un Stato abusivo), non molto diversamente da come, fino al XVI secolo, per i più la terra era piatta. Se allora c’era una falsa evidenza, derivante dalla percezione empirica, quella di poggiare i piedi su una striscia piana e continua, oggi per certuni c’è l’inossidabile certezza che Israele sia solo ed unicamente un’«entità sionista». La si desume, nella lettura dell’articolo, dalla misura in cui il dato storico della nascita e della crescita di una paese è ridotto alla concreta manifestazione di un «progetto» (una intenzione preordinata non solo cronologicamente ma anche e soprattutto logicamente), quello per l’appunto sionista, fondato sull’evidente intendimento di disconoscere i diritti di chi ebreo non è. In tale volontà, sostanzialmente razzista (come definirla, altrimenti?) si sostanzierebbe l’intera parabola d’Israele, la sua intima ragione d’essere, il suo vizio d’origine che si trasforma in torto d’esistere.

Dalla confusione tra i due piani Vera Pegna, invece, fa discendere immediatamente un viatico per la delegittimazione tout court di una società che viene descritta come il prodotto artificiale di una volontà eterodiretta, il «sionismo», per l’appunto, che governerebbe arcanum imperii la logica dei fatti e la dinamica delle scelte. Dimenticando, inoltre, la cogenza dei fattori regionali, a partire dalla conclamata ostilità dei paesi circostanti.

Liquidare poi la nascita d’Israele, nel 1948, come l’esito di una «proclamazione unilaterale» è una affermazione priva di senso, che si smentisce da sé. Intanto va detto che, in linea di principio, la nascita di una nazione è storicamente sempre il risultato di una spinta di una parte, di contro alle resistenze altrui. Non esiste nessun paese che si sia formato senza attriti verso e contro coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione. Basti pensare al processo di formazione degli Stati Uniti, sia con gli effetti devastanti nei confronti delle comunità autoctone amerindie, sia con la dissanguante Guerra di secessione che spaccò la popolazione in fronti contrapposti. Oppure, in scala più modesta ma non meno tumultuosa, le cosiddette «insorgenze» delle popolazioni del sud d’Italia contro l’unificazione sabauda. Ma non è neanche questo il vero punto. Più volte si è detto che la risoluzione 181 delle Nazioni Unite stabiliva la divisione in due delle terre contese. Era questa l’unica, ragionevole soluzione praticabile. Va però aggiunto che alla nascita dello Stato d’Israele, per parte ebraica, corrispose la deliberata volontà, da parte araba, di non far nascere uno Stato palestinese. I calcoli era chiari e inequivocabili: non solo l’«entità sionista» si sarebbe disgregata sotto i colpi di maglio degli eserciti arabi ma nessuna istanza nazionalista palestinese avrebbe dovuto avere un qualche riconoscimento. Si dimentica quest’ultimo aspetto, che sta alla base delle asimmetrie successive.

Da ultimo, ci sia concessa una digressione sul destino dei profughi. L’apolidia, come segnalava Hannah Arendt, è la condizione peggiore nella quale un essere umano abbia potuto trovarsi nel secolo, il Novecento, degli Stati nazionali. Ma il vero problema, per molti (tra i questi i palestinesi) non è quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato. Ciò che rende l’individuo un profugo è non solo l’abbandono dei luoghi natii bensì la mancata accoglienza in quelli di approdo. Su questo capitolo, ad onore del vero, meriterebbe che si aprisse una riflessione sulla politica degli stati arabi che scelsero allora di usare i palestinesi come merce da baratto (e lo stesso continuano a fare oggi). Così come sarebbe bene ricordare che all’abbandono delle proprie terre da parte delle popolazioni arabe, a partire dal 1948, corrispose l’espulsione in massa delle comunità ebraiche dai paesi arabi. Se una disgrazia non lava l’altra, va comunque da sé che il destino dei secondi (l’integrazione, pur tra mille difficoltà, in Israele) di contro alla dispersione dei primi è il nocciolo vero del conflitto israelo-palestinese. Laddove alla volontà integrazionista di Gerusalemme ha fatto sempre da risconto la calcolata indifferenza delle capitali arabe.