martedì 28 ottobre 2008

Di cavallier, gran dame ed eroi...E di come mio padre finì in galera

 
 
L'autore di queste pagine, Cella-Dezza (1913-2004), è stato un grande uomo di teatro, cinema e televisione, amico di Brecht, Silone, Strehler e Maria Callas, fu tra i fondatori della televisione svizzera, promosse la diffusione di Brecht  in Italia e di Pirandello in Germania. Testimone d'eccezione del "secolo breve", ma anche animatore delle grandi battaglie politiche e culturali condotte da questa testata contro il fascismo, lo stalinismo e la xenofobia, ha ricostruito in "Nonna Adele", romanzo familiare e verista, la vita dell'emigrazione italiana a Zurigo nel passaggio epocale dalla guerra al fascismo e dal fascismo alla guerra. Nel novantesimo dalla fine del Grande Macello, riproponiamo di "Nonna Adele" qui il quarto capitolo, che  è ambientato negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale.

di Ettore Cella-Dezza

 
Nonna Adele provava un senso di completa felicità quando Laura ed Ettore, i due nipotini milanesi, figli di sua figlia Erminia, venivano a Zurigo per trascorrervi le vacanze. Chiamandomi Ettore anch'io, eravamo in due a portare il nome del nonno Dezza. Per evitare confusioni, il più vecchio di noi due veniva chiamato Ettorone. Mentre a me, che ero più piccolo, spettava il titolo di Ettorino. E insomma, insieme a Laura ed Ettorone, i due milanesi, anche noi zurighesi, cioè mia cugina Elena e io, partecipavamo all'accerchiamento della nonna. Insistevamo moltissimo affinché ci portasse in gita. Lei d'altronde cedeva volentieri, ben sapendo che in tal modo sollevava per un'intera giornata o almeno per un pomeriggio, i nostri genitori dal dover badare anche ai bambini. Noi per parte nostra volevamo sempre fare delle escursioni, anche perché in casa ci tenevano costantemente occupati con i "lavoretti utili": spaccare la legna, lavare le fiasche vuote, smontare le cassette in singole stecche con cui accendere o ravvivare il fuoco. E via di questo passo. Mentre le bambine dovevano fare maglia, o imparare a cucire, rammendare, ricamare pizzi, trine, merletti. E chi più ne ha più ne metta. Non è che tutti questi "lavoretti utili" ci piacessero un granché. Quindi cercavamo in ogni modo di evitarli ricorrendo, come dicevo, a nonna Adele. Lei riusciva a farci uscire un po', liberandoci dai nostri genitori e dai compiti domestici, anche quando il cielo rannuvolato non prometteva nulla di buono.
   In caso di tempo incerto salivamo su di un tram e andavamo fino al capolinea: Triemli, Albisgüetli, Zürichberg, Rehalp... Qualche volta si viaggiava addirittura sul tram giallo: fino a Schlieren! Lì viveva la mia nonna materna: Serafina Ferretti. L'andavamo a trovare dopo aver fatto sosta al Kloster Fahr. E lei riusciva sempre a sorprenderci con i suoi dolci, indicibilmente buoni: guarniti di panna montata.
   Nonna Adele amava recarsi al Kloster Fahr. Faceva in modo di essere in chiesa prima delle tre e mezzo, ora in cui le suore benedettine iniziavano i vespri. La scenografia monumentale barocca ricordava alla nonna le atmosfere di casa. I vespri venivano cantati in latino.
   Laura, che era sempre stata molto curiosa, voleva a tutti i costi "vedere le suore" i cui gorgheggi planavano sulle nostre nuche da dietro la balaustra del coro. Noi quattro andavamo ai banchi delle prime file. Stando in punta di piedi sulle assi degli inginocchiatoi, fingevamo di pregare a mani giunte ma voltando lentamente la testa all'indietro per indovinare con la coda dell'occhio qualche volto al di là dell'inferriata. Non ci riuscimmo mai. Le suore rimasero invisibili. E ogni volta nonna Adele aveva il suo travaso di bile per via di quella tremenda maleducazione "fin dentro la casa del Signore".
   La nonna doveva spesso redarguirci. Ma poi capitava che chiudesse gli occhi mentre si cantava. Noi allora ci scambiavamo dei colpi di gomito in segno di: "Adesso dorme, possiamo uscire". Ma non appena abbozzavamo il primo passo, lei apriva un occhio richiamandoci sottovoce: «Su, fate i bravi, ché non dura più tanto...». Voleva dire che si doveva aspettare ancora una mezz'oretta circa. A noi sembrava un'eternità. Per lei questi vespri appartenevano al novero dei più puri piaceri dello spirito, noi eravamo invece impazienti di arrivare da nonna Serafina dove c'erano i famosi dolci con la panna montata.
   Altra meta prediletta era lo Zürichberg. In cima alla collina facevamo una lunga passeggiata nel bosco con merenda finale. Di solito entravamo in un locale sulla cima della collina, oppure sul Rigiblick. La nonna ci prendeva il caffelatte con la torta di frutta o con delle meringhe. A me piacevano soprattutto le torte, che variavano con il variare delle stagioni. Erano grandi fette, saziavano.
   Producevamo un chiasso assordante e la nonna era solita scegliere un tavolo in disparte affinché non disturbassimo troppo gli altri avventori. Ma si vedeva lo stesso costretta ad ammonirci continuamente: «Ragazzi, state buoni». E quando esageravamo: «Non siete soli al mondo, abbiate un po' di riguardo per gli altri. Vediamo di mantenere il decoro di una famiglia perbene!». Parole che non c'impressionavano molto. Frasi che conoscevamo a memoria. Ma quando nonna Adele iniziava a raccontarci una storia potevi sentir volare le mosche.
   Nonna Adele era una narratrice fantastica. Pendevamo dalle sue lebbra. Dimenticavamo il resto del mondo. Stavamo immobili, a bocca aperta, col fiato sospeso, e solo sbocconcellando in silenzio sproporzionate fette di torta alla frutta, pasticcini, meringhe...
   Raccontava dei nostri antenati, del cardinal Dezza inquisitore spagnolo che nel sedicesimo secolo fondò il ramo italiano quando fu trasferito dalla penisola iberica a Roma per combattere l'eresia. Aveva un cospicuo parentado al seguito, e forse anche per questo teneva legati due leoni al suo scranno cardinalizio: avrebbero sbranato chiunque si fosse troppo avvicinato. Trecentottanta streghe fece mettere al rogo.
   Nonna Adele raccontava spesso anche di un altro nostro avo, Lazzaro Spallanzani, che era stato uno scienziato di fama mondiale ai suoi tempi. Era così famoso, questo Spallanzani, che il grande Albert von Haller gli aveva dedicato il quinto volume della sua Physiologie, un'opera che possiamo ancor oggi ammirare al Museo Spallanzani di Reggio. Spallanzani aveva viaggiato moltissimo! Spallanzani aveva studiato i vulcani! Spallanzani era quasi riuscito a creare l'uomo artificiale!
   Noi ragazzi preferivamo Spallanzani e l'inquisitore ai racconti di cavalieri e briganti, che ormai sapevano troppo di fiaba. Laura ed Elena volevano ascoltare invece la triste storia della contessa Carmela, cognata di nonna che viveva a Torino. Nata con il titolo di contessina degli Aschieri, Carmela era stata prescelta quale dama di corte presso Sua Maestà. E qui la nonna passava a raccontare di un aristocratico istituto fiorentino in cui la contessina ricevette la sua squisita educazione. Trascorse una giovinezza fatta di anni tutti sereni insieme alle altre educande di nobil casato, insieme alla balia e insieme al proprio cavallo. Noi ragazzi trovavamo interessante soprattutto il cavallo: domandavamo se fosse baio, morello o pezzato, quant'anni avesse, se anche lui assistesse alle conferenze letterarie nei saloni di Poggio Imperiale o se prendeva parte soltanto all'equitazione per educande.
   Nonna Adele aveva una risposta per tutte le nostre domande. Su Carmela avrebbe potuto intrattenerci all'infinito, su come sapeva disegnare, cantare, trottare, galoppare, conversare in francese... Già allora, a dispetto delle mode, se ne andava fieramente in giro coi capelli alla maschietta. Non si dava la benché minima cura di quel che la gente poteva mormorare di lei. Né aveva una sia pur vaga nozione delle faccende domestiche. Tanto per fare un esempio, Carmela non era nemmeno in grado di accendere un fornello. Una volta, pensate, mentre tentava di innescare la fiammella del gas, rischiò di farne fuoriuscire talmente tanto che ci fu una quasi esplosione. Lei non aveva mai imparato queste cose nel suo educandato. Poveretta. E in cucina non sapeva neanche da che parte cominciare. Ma Carmela aveva mani di fata. Ricamava dei gobelins bellissimi. Dei quali ella stessa disegnava i modelli. Inoltre, accompagnandosi al clavicembalo o al pianoforte esibiva una voce sublime.
   Tutti noi volevamo sapere come mai fosse tanto brava nelle cose difficili e non avesse imparato quelle semplici: «Perché quella povera Carmela» sentenziava allora la nostra nonna «fu educata alla nobiltà». La povera Carmela, poverina, poveretta. Ma perché, secondo nonna Adele, la contessina degli Aschieri andava così tanto compatita? Perché la poverina era stata completamente defraudata da un tutore che le aveva sottratto l'intero patrimonio.
   Anche quella poveretta ebbe infine la fortuna di trovare un marito che sebbene lei fosse priva di dote volle ugualmente sposarla, per amore. Il marito proveniva da una famiglia di brave persone che accolse Carmela con gioia. E però lui non poteva offrirle un tenore di vita adeguato al rango di lei. Poverini.
   Laura ed Elena si commuovevano fino alle lacrime. Noi ragazzi pensavamo invece che, se era abbastanza lesta da conversare in francese e cavalcare, be', vivaddio, poteva pur imparare anche ad accendersi un fuoco! Ma la nonna ci rimbrottava. Eravamo ancora troppo piccoli per capire queste cose.
   Ah, sì?! E allora come si chiamava il cavallo? Lo volevamo sapere! Ma questo, nonna Adele, l'ignorava. E qui per noi ragazzi la storia della zia Carmela era da considerarsi conclusa, possibilmente per sempre.
   Quindi, ogni volta che Laura iniziava con la solita lagna: «Dai, nonna, per favore, raccontaci della zia Carmela contessina degli...» noi ragazzi la interrompevamo subito: «No, no! Ma basta! La conosciamo a memoria!».
   Ne nasceva un vivace diverbio. Noi volevamo un'altra storia. E Laura a quel punto si arrabbiava assai. Le veniva il "malumore".
(1/4 - Continua)