martedì 7 ottobre 2008

La scomparsa di Vancin


Il regista de Il delitto Matteotti e di altre memorabili pellicole lascia in eredità la sua coerenza di uomo e di intellettuale. Si avverte nei suoi film l'eco costante dell'impegno civile, assunto già in età giovanile con il giornalismo militante e la convinta partecipazione alla lotta partigiana.


di Giuseppe Muscardini


 

Prima Michelangelo Antonioni, poi Dino Risi ed ora Florestano Vancini. È ineluttabile, si sa. Le persone nascono e muoiono. Ma le icone restano, e Vancini era emblema di un impegno civile espresso con quella fedeltà che contraddistingue le anime evolute, gli intellettuali capaci e responsabili. Spetta a quanti lo hanno apprezzato e conosciuto personalmente fissare qualche momento della sua esistenza, per comprovare l'assoluta onestà nella svolgimento della professione in cui credeva.

    In lui l'impegno civile aveva motivazioni antiche, e il ricordarlo qui, dalle pagine de «L'Avvenire dei lavoratori», vale ad offrire un ricordo puntuale e rispettoso sia della persona che della nobile vocazione di rappresentare il reale con la macchina da presa. 


 
 

Florestano Vancini

    Il mondo del Cinema riconobbe la sua indiscussa capacità di unire trama letteraria e resoconto storico fin dal 1960, quando La lunga notte del Quarantatre ottenne l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Tratto da un racconto di Giorgio Bassani, il film si ispira ad un episodio di inaudita ferocia realmente accaduto dopo il fatidico 8 settembre, quando la rappresaglia fascista falcidiò undici civili per vendicare la morte di un Federale assassinato per motivi ancora oscuri. Tanto oscuri che le ipotesi avanzate dagli storici fanno propendere per un omicidio compiuto non dai partigiani ma dagli stessi membri del Partito fascista, che giudicavano troppo arrendevole il loro camerata.

    Che dire poi de Il delitto Matteotti, film acclamato dalla critica e spesso menzionato come documento di taglio informativo e didattico, utile per la scuola nell'educare i giovani alla democrazia, al punto che oggi i cinquantenni, all'epoca dell'uscita del film studenti delle Superiori, ricordano di averlo visto nell'ambito delle attività scolastiche, quando gli insegnanti più aperti e progressisti accompagnavano le loro classi nei mitici Cineforum?

    E ancora Amore amaro del 1974, film alla cui lavorazione (oggi si può dire con un poco di pudore ma con legittimo orgoglio) chi scrive contribuì in modestissima misura come sperduta comparsa in un fiume di altre comparse. Il film racconta le pene amorose di un giovane universitario incapricciatosi di una vedova non agée ma matura: lui recalcitrante verso il Fascismo già consolidato nel Paese, lei ben integrata nel Regime, concupita da gerarchi in fez ed orbace.

    Non possiamo certo disgiungere questi temi dalle vicende biografiche che nel 1945 videro il regista aderire e militare nella 36° Brigata partigiana Bruno Rizzieri. Né dalla sua lunga collaborazione con la «Nuova Scintilla», attraverso articoli di incitamento alla Resistenza civile contro il nazifascismo.



 
Negli ultimi anni Florestano Vancini aveva recuperato situazioni sceniche più distanti dalla sua generazione, indagando ambiti in cui la storia detiene quel ruolo di magistra vitae di ciceroniana memoria. Eppure gli episodi epocali o ordinari a cui ha dedicato attenzione, dalla ricostruzione dell'ultima stagione di Lucrezia Borgia alle mafiose nefandezze della Piovra nella seconda serie dell'omonimo sceneggiato televisivo, non si sono mai discostati troppo, pur nelle sottili allegorie e nei paragoni, dall'impegno assunto in favore del suo tempo.

   Se oggi è ancora possibile attribuire alla coerenza un valore, Florestano Vancini ha avuto il merito di saper coniugare felicemente le proprie idee di intellettuale impegnato nella difesa della democrazia, con una professione iniziata presto e non senza difficoltà. Il raggiungimento dell'eccellenza nel lavoro lo ha ripagato.