sabato 15 giugno 2013

STORIA E MEMORIA Ricordare Matteotti (2)

Per ricordare il parlamentare socialista Giacomo Matteotti assassinato per mano di sicari fascisti il 10 giugno del 1924 abbiamo ripreso il discorso tenuto da Giuliano Vassalli nel 2004 di fronte alla Camera dei Deputati. La prima parte del discorso, che ricostruiva la vita di Matteotti fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, è apparsa sull'ADL della scorsa settimana.

di Giuliano Vassalli



Ci sarebbe anche molto da dire sul congresso del partito socialista di Ancona del 1914, che trattò della compatibilità con la appartenenza massonica e vide Mussolini, allora direttore dell''Avanti, trionfare con la sua intransigenza, mentre Matteotti era su una posizione più sfumata, anche se non tra i sostenitori della compatibilità, che andarono in netta minoranza; nonché sul congresso di Roma del settembre 1918 e su quello di Bologna dell'ottobre 1919 (alla vigilia delle elezioni politiche), nei quali Matteotti si mostrò, in più di un passaggio, a mezza strada tra le opposte tendenze che travagliavano il partito. Ma tutto questo è qui impossibile. Tra i vari testi in materia mi sembra che tra gli scritti più diligenti e più penetranti siano da annoverarsi l'appassionata biografia dovuta ad Alessandro Schiavii, gli studi di varie epoche di Gaetano Arfè e il libro di Antonio Casanova "Matteotti. Una vita per il socialismo", del 1974.Venne dunque il 1919 e verso la fine di quell'anno ebbe inizio la XXV^ legislatura, Matteotti fu eletto deputato al parlamento nel collegio elettorale di Ferrara –Rovigo sito per metà nella sua provincia veneta e per l'altra metà in Emilia. Quella legislatura vide il numero dei socialisti salire a 156 rispetto ai 53 del 1913. Nella provincia di Rovigo Matteotti risultò addirittura il primo. Cominciò così per lui il periodo più intenso della sua vita, tutto dedicato alla politica e al Parlamento, pur nel perdurante legame con le amministrazioni locali. Un periodo destinato a finire tragicamente all'inizio della XXVII^ legislatura.

Il quinquennio 1919-1924 fu il periodo della più intensa ed importante attività politica di Giacomo Matteotti, e potremmo dire quello del suo fulgore. Esso coincise in gran parte con la somma di due periodi che alcuni storici non a torto chiamano del biennio rosso (1919-1920) e del biennio nero (1921-1922); nel complesso un'epoca tra le più dolorose della storia d'Italia. Ma essa fu anche una delle più tristi della storia del socialismo italiano.

All'indomani della prima guerra mondiale esso aveva vinto sul piano elettorale, sul piano parlamentare e - se così può dirsi - anche sul piano sindacale, almeno parzialmente. Veniva invece progressivamente perdendo terreno sul piano politico, su quello dell'organizzazione e soprattutto su quello della chiarezza delle idee e dei programmi. Alla la fine del "biennio rosso", nel gennaio 1921, aveva subito la scissione di Livorno e l'uscita di una delle sue costole più cospicue, che dette vita al partito comunista d'Italia. Ma questa uscita, lungi dal funzionare come una chiarificazione (col linguaggio d'oggi si direbbe "come una liberazione"), non fece, sotto la suggestione di idee primigenie e la contemplazione della rivoluzione sovietica e della sua indubbia forza di attrazione, che peggiorare le cose. Era rimasta nel partito socialista una forte ala abbacinata dall'idea di entrare nella Terza internazionale e tutta, o quasi, presa dai relativi problemi. Gli stessi supremi esponenti del partito, pur insigni per la loro integrità morale e per i sentimenti di attaccamento al partito, si chiamavano Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati: nomi che oggi dicono qualcosa soltanto agli specialisti di certi settori della storiografia. Erano quelli che venivano chiamati massimalisti, in contrapposizione ai cosiddetti riformisti: denominazione corrente, anche quest'ultima, anche se suscettibile di qualche riserva e comunque di precisazioni e puntualizzazioni. Intanto la base socialista veniva fatta oggetto di crescenti prepotenze, di attentati, di bastonature, di incendi, di omicidi; ed anche alcuni dei suoi dirigenti locali cominciavano a subire il peso e il ricatto della violenza fisica esercitata dalle squadre fasciste. Drammatico era il contrasto tra questa situazione e i contenuti delle polemiche e delle divisioni interne. I massimalisti erano all'attacco nell'interno del partito; e la scissione dell'ottobre 1922, avvenuta poche settimane prima che i fascisti assumessero il potere, fu cagionata dai massimalisti, avendo rappresentato una specie di cacciata dal partito di coloro che non volevano aderire alla Terza internazionale: una adesione - sia detto tra parentesi - che ad onore della storia del partito socialista non avvenne mai. Da questa scissione nacque, il 4 ottobre 1922, il partito socialista unitario e Giacomo Matteotti, che pur era stato dolorosamente colpito ed amareggiato per quanto era avvenuto, assunse di questo nuovo e piccolo partito la segreteria, come il più giovane ed il più attivo dei deputati socialisti, Ma simbolico, tristemente simbolico, rimane il fatto che la scissione e la nascita del nuovo partito avvennero in quel momento e che la divisione non fu tanto sull'atteggiamento da tenere nei confronti del fascismo che si apprestava ai propri successi e con ciò alla distruzione della democrazia italiana quanto sul problema della confluenza o meno nella terza internazionale. I comunisti già avevano cominciato ad abbacinare gran parte dei socialisti, in una vicenda politica che, come è noto, durò nei decenni successivi.
In una situazione come quella v'era, sì, bisogno di un autonomo partito socialista, ma v'era soprattutto bisogno di uomini nuovi.
Nel partito massimalista l'uomo nuovo fu Pietro Nenni, in quello unitario fu Giacomo Matteotti. Ma a Nenni, che pur fu direttore dell'Avanti! fino al dicembre 1925 ma che era contrario alla fusione tra massimalisti e comunisti, i vecchi socialisti non resero la vita facile. Egli preferì passare – sia pure per un periodo che i drammatici eventi politici verificatisi giorno per giorno resero breve – alla direzione di "Quarto Stato", fondata da Carlo Rosselli. E questo già dice molto. Come già detto, l'uomo nuovo del partito socialista unitario fu invece Giacomo Matteotti. Ma il momento aveva anche bisogno di un eroe: e questi fu lo stesso Matteotti, il giovane alfiere del socialismo italiano, il seguace - tuttavia qualche volta fortemente critico - di Filippo Turati, che per lunghi anni aveva combattuto il massimalismo nel vecchio partito e che ora, a poco a poco, declinava. Matteotti, sul finire del 1922, era invece giovane, non aveva che trentasette anni, era preparatissimo sui problemi economici e finanziari, pieno di vigore intellettuale e morale, aveva compreso che la suprema esigenza dell'Italia d'allora - anche nell'interesse del proletariato - era combattere il fascismo e difendere la democrazia, ed aveva coraggio, tanto coraggio, fisico e morale, oltre che la necessaria fermezza di carattere, non sempre facile ma sempre estremamente leale.

Il partito di Turati, di Claudio Treves e di Matteotti (al quale aderirono uomini come Bruno Buozzi, Modigliani e Gonzales, pur essendo sorto da una scissione, si chiamò unitario (fenomeno d'altra parte non unico nella storia del partito socialista) e non riformista. Non già perché non fosse o non si sentisse del tutto tale, ma probabilmente perché non si voleva rinnovare neppure nel nome l'esperienza, ormai tramontata, del partito che così si era chiamato dopo la scissione del 1912, quello di Leonida Bissolati e di Ivanoe Bonomi, e soprattutto perché il nuovo partito voleva essere unitario non solo nel nome ma nella realtà, riattraendo a sé quelli che erano rimasti nel vecchio partito. Può valere, comunque, la pena, per comprenderne propositi e sentimenti, riferire testualmente frasi dei discorsi e delle relazioni di Giacomo Matteotti in quel difficile momento.

In una relazione dei primi di aprile del 1923, intitolata "Direttive del partito socialista unitario", pubblicata e diffusa come opinione nella "Biblioteca di propaganda" del giornale "La giustizia", Matteotti, proponendosi di "riassumere in piano linguaggio i principi e i metodi del nuovo partito", premette che "rivedere la propria dottrina, saggiarla e aggiornarla al confronto della esperienza è cosa degna di un partito d'avvenire che vuole essere al tempo stesso un partito di realtà". Non esito a dire che questo documento, veramente piano e facile, in cui nulla v'è di fumoso o di reticente, alieno fino alla scrupolo da ogni parola inutile è, a mio modestissimo avviso, uno dei più smaglianti documenti della storia del socialismo e al tempo stesso uno splendido manifesto della libertà contro la dittatura. Mi sia perciò consentito di leggerne qualche brevissimo passo, nella speranza di non tediare il coltissimo uditorio ma nella convinzione di rendere il pensiero autentico del suo autore, così come è dovere proprio di una commemorazione.

Matteotti ricorda anzitutto quella che era la condizione della plebe italiana trenta o quarant'anni prima e la feconda opera di redenzione svolta dal Partito socialista, con magnifici risultati nei campi dell'associazione, della cooperazione e della civiltà del lavoro. Ma prosegue osservando che "la guerra prima, poi le illusioni estremiste di ieri, la reazione e la violenza fascista di oggi hanno interrotto e distrutto molta parte del nostro lavoro". "Ebbene – egli esclama – lo rifaremo. Il socialismo è un'idea che non muore. Come la libertà! Anche nell'ora dell'avversità rivendichiamo la nostra fede, affermiamo i nostri principi, correggiamo i nostri errori, riportiamo tra i lavoratori la luce e la speranza della redenzione, prepariamo le nuove coscienze più salde e più pure, per il trionfo del lavoro, nella grande solidarietà umana".

Dopo questo esordio Matteotti ricorda testualmente il programma socialista di Genova del 1892, momento del distacco dalla pura e semplice democrazia da un lato e dall'anarchismo dall'altro, e lamenta che questo programma originario, sempre con le necessarie revisioni e integrazioni che trent'anni di vita e di vicende insegnarono, sia stato modificato in senso massimalistico e rivoluzionario, fino ad accogliere il concetto di "dittatura di classe" nel Congresso di Bologna dell'ottobre 1919. "Noi rimanemmo tuttavia nel partito, per non dividere la classe lavoratrice, per prospettare e propagandare tutti i nostri principi fra il proletariato momentaneamente acceso, di tutte le passioni e miraggi diffusi dalla guerra e dall'esempio di Ungheria e di Russia e con la certezza che ben presto esso si sarebbe ricreduto. Infatti, mentre a Reggio Emilia, nel 1920 in una mozione riaffermammo tutti i nostri principi, a Livorno nel gennaio 1921 uscirono dal Partito gli estremi seguaci del verbo di Mosca. Rimaneva però il massimalismo, con tutte le sue incertezze tra le parole e la pratica, tra adesioni ai metodi di Mosca e l'aperto ripudio; fino al Congresso di Roma, ottobre 1922, quando (con voti 32mila contro 29mila unitari, oltre 3mila astenuti e 8mila non votanti) furono espulsi i socialisti colpevoli di avere tenuto fede alle nostre origini e di non aver voluto cedere alle illusioni della violenza e della dittatura. Formammo allora il partito socialista unitario, che si chiamò con questo nome anche per significare che vi avevano diritto di cittadinanza non solamente i socialisti di destra, ma tutti i socialisti che avevano votato contro la scissione del partito e che non avevano voluto sottoporsi alla dittatura della cosiddetta internazionale di Mosca; mentre rimasero dall'altra parte i fautori della divisione, che volevano deviare il socialismo italiano nelle nuove illusioni del comunismo. Così non vi può essere più alcuna confusione: tutti i socialisti possono essere con noi nel nostro Partito; fuori di esso sono tutti i comunisti, siano essi comunisti di fatto e di nome, oppure continuino nell'equivoco di prima".

Sembra qui di sentire riecheggiare il famoso motto di Claudio Treves: "I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti".

La relazione di Matteotti passa poi ad illustrare il metodo democratico, fatto proprio dal partito socialista unitario, e a cui "repugna il metodo della dittatura e della violenza". "I socialisti – egli scrive – credono condizione necessaria per lo sviluppo e l'emancipazione della classe lavoratrice il metodo democratico di libertà politica". "Ciò non vuol dire, come alcuni temono, che noi vogliamo resuscitare gruppi e situazioni parlamentari di una certa democrazia che diede tanta prova della sua incapacità e mancanza di dignità. Ma riteniamo che lo stesso interesse che hanno gli operai, i contadini, i professionisti e i lavoratori intellettuali a un regime politicamente libero e civile, abbiano tutti i ceti medi, e possano averlo anche l'industria, il commercio, l'agricoltura, intesi come produzione e non come parassitismo". Con linguaggio da vero educatore Matteotti prosegue nell'illustrare i vantaggi dell'aperto e libero contrasto dei partiti che permette alle masse di formarsi una coscienza più sicura dei propri diritti e doveri. "Non sempre - conclude - le maggioranze hanno ragione, e non sempre i liberi regimi rappresentativi sono stati i migliori; ma, in confronto delle oligarchie e delle dittature, hanno almeno il vantaggio della libera critica e quindi della capacità di correggere i propri errori, attraverso una consapevole rivalutazione della realtà".

La relazione prosegue trattando della lotta di classe in contrapposizione alla guerra di classe: la lotta di classe non è per " mantenere l'odio del pezzente contro chi è ben vestito, ma per suscitare in ognuno la dignità d'uomo e l'aspirazione e la capacità d'elevarsi, non contro i propri simili, ma nella coordinata armonia di tutti per la comune ascensione". E a proposito dei rapporti tra capitale e lavoro, ricorda che la lotta in ogni caso deve colpire il parassitismo, ma mai la produzione; altrimenti, tra l'altro, i colpi rimbalzerebbero sul lavoro medesimo e sui consumatori. Né esclude una collaborazione - anche se saltuaria - del partito del proletariato con partiti borghesi, quando taluno di questi favorisce ad esempio l'istruzione popolare o asseconda la libertà dell'organizzazione operaia, la libertà del voto, la pace internazionale.

(2/3 – Continua)