martedì 5 novembre 2013

Il centrosinistra cinquant’anni dopo

Da MondOperaio

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Capire il passato per immaginare il presente. Il 25 ottobre si è svolto a Bologna il convegno organizzato da Mondoperaio e dal Mulino per ricordare il cinquantesimo anniversario del primo governo di centrosinistra. Sono intervenuti tra gli altri Enzo Cheli, Emanuele Macaluso, Mariuccia Salvati, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ignazi, Manin Carabba, Giuseppe Berta, Simona Colarizi, Gennaro Acquaviva, Luigi Pedrazzi, Paolo Pombeni, Guido Formigoni, Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino, Michele Salvati e Luigi Covatta. Nei prossimi giorni sarà messa in rete sul sito di MondOperaio la registrazione dell'evento. Di seguito anticipiamo una sintesi dell'intervento di Covatta.

di Luigi Covatta

Il 50° anniversario del governo Moro-Nenni non è il 25 ottobre, ma il 4 dicembre. Oggi però è il 50° anniversario del congresso del Psi che autorizzò Nenni a partecipare al governo. Alla mozione autonomista (che vedeva ancora uniti Nenni e Lombardi, benché ci fosse già stata la "notte di san Gregorio") andò solo il 57% dei voti, mentre la sinistra di Vecchietti e Valori sfiorò il 40%.

Nella Dc Fanfani era già stato sostituito da Moro, il quale, come scrisse Cafagna nel 1980, "distinguendosi abilmente […] dai dorotei, che lo avevano officiato per sostituirlo a Fanfani, riuscì a far dimenticare l'origine dorotea […] della propria affermazione politica e del mandato ricevuto, che era quello di risolvere la crisi parlamentare ottenendo l'organico concorso socialista a un governo saldamente doroteo".

Il centro-sinistra organico quindi comincia quando il centro-sinistra riformista è già finito. Secondo Cafagna così si determinò "un bel circolo vizioso: la Dc chiama dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì, più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un sostegno. Ma mentre in uno scambio politico del primo tipo (politica riformatrice contro sostegno) i socialisti avrebbero potuto ottenere una merce rivendibile all'elettorato di sinistra (e tentare così di rafforzarsi anche a spese dei comunisti), nello scambio svilito del secondo tipo (meri posti di governo contro sostegno) non ottenevano una merce rivendibile elettoralmente, ma una merce solo consumabile, per così dire, in casa, dal ceto politico socialista in quanto tale". Ed infatti comincia la doroteizzazione del Psi, che peserà anche sull'unificazione socialista, e che nel 1976 porterà il Psi al suo minimo storico.

Il centro-sinistra riformista non era frutto solo dell'attivismo di Fanfani e dell'illuminismo di Lombardi. Aveva alle spalle una lunga e rispettabile elaborazione politico-culturale sia in seno al mondo cattolico (Lombardini, Saraceno, Ardigò, Benevolo, Andreatta), sia nell'area laico-socialista (Giolitti, La Malfa, Momigliano, Guiducci, Zevi). Un'elaborazione che si sviluppò soprattutto nell'insostituibile crogiolo rappresentato dal Mulino, nel quale si fondevano cattolici, socialisti e liberali, oltre che nei convegni degli Amici del Mondo (meno su Mondoperaio, dal momento che non era semplicissimo passare dalla direzione di Raniero Panzieri a quella di Antonio Giolitti).

Quella elaborazione andrebbe rivisitata anche per ricostruire una genealogia del riformismo italiano, che nel secondo dopoguerra si è manifestato innanzitutto attraverso quel dialogo fra cattolici e socialisti che era disgraziatamente mancato nel primo dopoguerra. Ed andrebbe rivisitata adesso, invece di ripetere giaculatorie esorcistiche sul non volere "morire socialisti" o sul non volere "morire democristiani".

Al congresso di Napoli del 1962 Moro si augura che "nessuno nella Dc voglia sostenere la tesi qualunquista della preminenza e sufficienza del programma", mentre l'obiettivo da perseguire era "la creazione di un più stabile equilibrio in seno alla democrazia italiana", cooptando "senza rischi, ed anzi con vantaggio, il Psi per la guida politica del paese e per la difesa delle istituzioni": insomma, tutta politics e niente policies, laddove proprio sulle policies si era registrata la confluenza dei riformisti cattolici, laici e socialisti, mentre il paradigma delle politics restava l'intangibilità dell'unità politica dei cattolici e degli equilibri interni alla Dc che ne conseguivano, rispetto ai quali i bisogni del paese passavano in secondo piano: come disse Donat Cattin al convegno di Lucca del 1967, "il partito dei cattolici– proprio per mantenere il massimo delle adesioni secondo una categoria non politica – ha finito molte volte per essere il partito della non scelta o il partito della scelta ritardata e fondata sulla necessità".

Si può discutere – e molto si è discusso specialmente da quando si è affermato il pensiero unico neoliberista – sull'adeguatezza delle policies del centro-sinistra fanfaniano. La nazionalizzazione dell'energia elettrica oggi sarebbe politicamente scorretta, anche se abbiamo appena finito di celebrare un altro cinquantenario, quello del Vajont. La scuola media unica ha dato luogo a quella scolarizzazione di massa che ancora oggi è oggetto di critica da parte di èlites non necessariamente di destra. La riforma urbanistica, che non passò, può sembrare un'utopia in un paese in cui, al di là delle salmodie sui beni comuni, ci si scanna sull'Imu. E l'idea stessa della programmazione rappresentava indubbiamente la quintessenza del dirigismo.

Tuttavia quel progetto dirigista presumeva anche una qualche politica dei redditi, perseguiva il riequilibrio territoriale, pretendeva di investire sul capitale umano e sul capitale sociale. E poteva costituire per la società italiana lo stress test necessario per superare, nel tempo medio, le due principali anomalie italiane: quella rappresentata dal vasto consenso di cui godeva il Pci, e quella che impediva l'autonoma rappresentanza di una destra liberale e conservatrice. Invece col prevalere delle politics (che del resto era anche nelle corde di Nenni e del suo politique d'abord), cioè con la riduzione del centro-sinistra a formula parlamentare, si determinò, come dice Cafagna (Una strana disfatta, 1996) l'accumulo di "un ammasso di cambiali a carico delle generazioni future che fu la vera sostanza di quel che è stato poi chiamato pomposamente dai critici consociativismo".

Per Cafagna, dopo che Fanfani aveva dato vita ad una "peculiare forma di autonomia del politico", la Dc dorotea diede vita a quella altrettanto "peculiare forma di eteronomia dell'economico" che allora cominciò a svilupparsi: per cui "per il sistema delle imprese si passò dall'utilità dell'aiuto statale al bisogno parassitario di questo", fino ad affermare "una singolare modalità vampiresca di aumento dei poteri di chi gestiva la cosa pubblica e che si nutriva di dissesti aziendali".

D'altra parte il riformismo illuminista risultava "inabile a far blocco con interessi diffusi, eccentrico rispetto alla cultura popolare corrente, e quindi sostanzialmente improduttivo di consenso democratico immediato. […] In un mare in tempesta parlava di razionalizzare la nave rivolgendosi a passeggeri sordi e marinai ubriachi". Per cui, "nella feccia di Romolo della realtà economico-sociale italiana", anche da parte del Psi fu giocoforza cercare il consenso con l'assistenzialismo: "dall'arrembaggio alle casse previdenziali dei settori di lavoro indipendente protetti dalla Dc all'uso improprio delle pensioni di invalidità, alla irriflessiva trasformazione del sistema pensionistico in sistema retributivo, alla concessione di aumenti e benefici d'età fatti sotto gli sgrulloni di una minaccia elettorale, e poi del cattivo esito del risultato della stessa elezione" (Una strana disfatta).

Cinquant'anni dopo le parole del lessico politico sono le stesse: la stabilità, lo stato di necessità, la prevalenza delle politics sulle policies. E' cambiata, però, la forma del sistema politico: il che non toglie che anche oggi un terzo dell'elettorato è rappresentato da una forza antisistema: e che essa sia guidata da un guitto, e non da un rivoluzionario di professione, è solo il segno dell'ulteriore imputridirsi della "feccia di Romolo".

Anche oggi, cioè, abbiamo a che fare con un "bipartitismo imperfetto". Con la differenza che in seno all'odierna forza antisistema è impensabile che si confrontino un Amendola e un Ingrao: ma anche con la differenza che i due poli che a febbraio si sono contesi la guida del paese rappresentano, sommati insieme e a prescindere dalle loro divisioni interne, soltanto il 42,5% dell'elettorato.

Del resto anche il nuovo sistema politico nacque eludendo lo stress test sulle policies (che semmai venne lasciato volentieri ai governi minoritari e "tecnici" di Amato, Ciampi e Dini), ma invece utilizzando lo strumento iper-politico della riforma elettorale, nella convinzione (fallace) che il blocco del sistema della prima Repubblica dipendesse esclusivamente dalle due parallele convenzioni ad excludendum, quella verso il Pci e quella verso il Msi.

Anche per questo gli eredi del Pci, per dirla ancora con Cafagna, sarebbero rimasti "meri postcomunisti", e gli eredi della Dc, per dirla con Marco Follini (C'era una volta la Dc, 1995), dopo avere sperimentato nel corso dell'epopea referendaria "il bipolarismo virtuale", si trovarono a mal partito col "bipolarismo reale", rinunciando alla "possibilità di riconvertirsi nel polo moderato": per cui già allora si manifestò una forza antisistema, quale per molti versi era nel 1994 Forza Italia. E così anche oggi la "politica" prevale sulle "politiche", e dalle "politiche" peraltro non nasce una "politica": proprio come avvenne cinquant'anni fa, quando si preferì garantire la stabilità degli schieramenti dati invece di forzare il sistema verso un bipartitismo "perfetto".