martedì 10 marzo 2015

Fare del Mediterraneoun mare di pace e di progresso

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Una proposta per la politica estera dell’Italia: il ripristino della stabilità e dello sviluppo nel Sud del Mediterraneo. Pubblichiamo qui di seguito il testo introduttivo al Convegno promosso dalla Fondazione Socialismo e da MondOperaio e tenutosi a Roma il 3 marzo 2015 sul tema “Italia e Mediterraneo”. Il video integrale dei lavori del convegno sarà consultabile a partire da domani sul sito della Fondazione Socialismo (www.fondazioneoscialismo.it).

 

di Antonio Badini

 

1. Un’Italia non più protagonista. - I più recenti sviluppi della vicenda politica nella regione mediterranea hanno visto l’Italia impreparata ed anche poco pronta ad assumere iniziative capaci di prevenire minacce esterne alla sua sicurezza. La sensazione che si percepisce é che il nostro Paese – anche in ragione delle caratteristiche epocali della crisi che lo attraversa – sembra aver perso ruolo ed influenza sugli accadimenti alle sue porte di casa, con conseguenze di rilievo nelle aree che toccano direttamente la sua geo-politica e che incidono inevitabilmente anche sullo sviluppo della sua economia.

    È un fatto comunque che quelle che sporadicamente si sono potute udire sono state voci per invocare, spesso a sproposito, il ricorso all’intervento delle «Istituzioni Internazionali»: per intendere, si presume, ONU, NATO e UE, un insieme che fa a pugni. Rispetto a queste modalità prevalenti noi pensiamo, al contrario, che per l’Italia sia oggi più utile parlare poco ma con chiarezza, ricordando sempre che senza una preparazione previa ed una sicura conoscenza delle mosse concordabili sia sempre meglio lavorare al riparo dei media.

    Forse qualcuno ancora ricorderà che, non molto in là nel tempo, l’opinione dell’Italia aveva un suo peso, e la sua azione diplomatica era spesso sollecitata e comunque sempre ben accetta. Assai apprezzate erano ad esempio le iniziative dell’Italia nella regione Mediorientale ed in particolare quelle per il Sud del Mediterraneo. Nel 1998 ad esempio l’Italia riuscì a evitare, riunendo in fretta una riunione di emergenza a Palermo, che l’impianto di partenariato euro-mediterraneo istituito a Barcellona nel novembre del 1995 andasse anzitempo in frantumi. Si riuscì in quell’occasione, ministro degli Esteri Lamberto Dini, a riprendere in fretta le fila di un dialogo che l’Italia seppe poi gestire con autorità, anche avvalendosi dell’efficace sostegno del ministro degli Esteri egiziano Amr Moussa.

 

2. Un passato di forte dinamismo. - Non fu quello un episodio isolato. Non appena nella Regione prendeva spessore una nuova tensione o apparivano focolai di crisi all’orizzonte si mettevano rapidamente in moto, spesso su impulso italiano, consultazioni con i partner più in sintonia per studiare il da farsi. Senza inutili proclami, si faceva trapelare che intese suscettibili di serrare i ranghi erano nell’ordine delle cose. Algeria, Tunisia, Egitto e Arabia Saudita erano allora le prime direttrici del dialogo, che coinvolgeva regolarmente Francia e Spagna, e talvolta Malta e Portogallo.

    Erano i Paesi da cui presero origine il «Gruppo dei Cinque più Cinque» prima, e l’Iniziativa Mediterranea voluta da Mitterrand dopo. Oltre i già citati, nei due Gruppi confluirono Grecia e Mauritania mentre l’Arabia Saudita restò attento interlocutore, solo geograficamente separato, soprattutto dell’Italia.

    La Libia non volle allora formalmente partecipare ad alcuno dei due Gruppi, ma Italia e Tunisia a turno tenevano al corrente la sua dirigenza politica. Il monito a Gheddafi avanzato da Craxi nel 1986 dopo il lancio, di uno Scud libico deliberatamente fuori misura (secondo le analisi quasi subito disponibili), fu seguito da intense consultazioni a livello Esteri-Difesa- Servizi, con questi ultimi molto attivi con i loro omologhi nei cui confronti avevano stretti rapporti di colleganza, utilizzando l’ovvio beneplacito dello stesso Colonnello. E tutto si acquietò; con il Ministro Andreotti che discretamente si disse disponibile ad avviare con la dirigenza libica una maggiore cooperazione aprendo il discorso anche su di un «gesto riparatore» su cui insisteva Gheddafi per le perdite inferte al popolo libico durante il periodo coloniale.

    Oggi molti potrebbero replicare che erano altri tempi: ma è fuori di dubbio che diversi erano anche lo spessore dei soggetti in campo ed il livello di guardia per l’azione. In quegli anni lo si poté costatare nell’affare Sigonella, con la nostra Marina e Aereonautica pronte ad aiutare Palazzo Chigi sulle manchevolezza del nostro grande alleato, che si serviva delle informazioni solo parzialmente esatte dei Servizi di Israele per indurre il nostro Governo a rilasciare Abou Abbas (ritenuto responsabile in solido dell’uccisione del cittadino americano Leo Klinghofer).

 

3. Il caso Libia : mandato dell’Onu. - Siamo sfortunatamente tutti testimoni che a muoversi nei momenti di crisi acuta sono autonomamente gli Stati membri, non l’Ue. Dei quattro Paesi europei che fanno parte del G7 (Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia) oggi sulla scena manchiamo soprattutto noi: e di conseguenza siamo poco presenti quando si parla di Mediterraneo, nonostante che il fardello che ci portiamo sulle spalle, a causa dello sconquasso della regione e del nuovo terrorismo, sia tra i più inquietanti.

  Il punto cruciale di qualsivoglia soluzione politica per la Libia è la formazione, anche embrionale, di un governo di unità nazionale, che molti auspicano e altrettanti attendono possa scaturire da una risoluzione onusiana. Si tratta di un auspicio di assai difficile realizzazione. Più praticabile, al momento, è lavorare su una rete di contatti che siano facilitati da esponenti di prestigio delle diverse tribù, cui in qualche modo restano legati uomini di primo piano delle opposte milizie. Il Trattato di Amicizia con la Libia, per chi lo ha vissuto, nacque con una tattica «a tentoni» per superare la diffidenza di Gheddafi; ma poi negli anni si sviluppò, trovò forma e contenuti equi e divenne vincolante per i due Paesi con il consenso di chi in Libia cercava, insieme a noi, di preparare un passaggio di potere morbido, senza risvegliare lo spirito tribale del Paese.

    Purtroppo quel Trattato non venne invocato da chi ne aveva il diritto per sospendere l’avvio dell’azione architettata da Nicolas Sarkozy con la collaborazione di Bernard-Henry Levy.

    Sarebbe bastato in quell’occasione accodarsi alla Germania per tentare di guadagnare tempo e investigare sull’asserito genocidio che secondo Levy si stava perpetrando contro i rivoltosi inermi a Bengasi. E poi vi era allora la disponibilità del Colonnello a lasciare a favore del figlio Seif El Islam, persona assai moderata.

    Nelle attuali condizioni, appare molto arduo intraprendere la via della «legalità internazionale» per un possibile intervento militare: per l’Onu, vista con ostilità dagli islamisti, i tempi non sono maturi, e le condizioni sul terreno non propizie, specie dopo le pur comprensibili incursioni dell’aviazione egiziana, che ha mosso ulteriormente le acque senza incidere negli equilibri di potere. Va anche detto che nel paese é verosimilmente in corso una guerra per procura (Qatar e Turchia da una parte – Egitto e EAU dall'altra), i cui effetti non sono ancora decifrabili completamente.

    Occorre dunque attendere una certa decantazione, anche perché gli analisti non escludono che tra il Governo islamista di Tripoli (internazionalmente non riconosciuto) e i gruppi dell’Isis possa crearsi in un prossimo futuro una frattura. E d’altra parte isolare dal contesto regionale – ricolmo di tensioni e di alleanze da chiarire – l’apertura di un dossier per la ricerca di una soluzione di pace per la Libia appare sinceramente opera ardua. Urterebbe con una mappa in itinere dei gruppi jihadisti: sia quelli che si ricollegano ad Al Qaeda, al momento in declino, che gli altri che si proclamano «province» dello « Stato islamico » apparentemente in ascesa, cui vanno poi aggiunti i movimenti islamisti vicini ai Fratelli musulmani e la vecchia ma chissà se veramente tramontata «Jamaa Islamiya».

 

4. Una possibile offensiva diplomatica dell’Italia. - In questa nuova costellazione del terrore – di Stati «falliti» e in ricostruzione e di possibili nuovi Stati (da non sottovalutare, in un futuro non lontano, il Kurdistan) – l’Italia, che in questi anni oggettivamente ha perso colpi e fatto troppi passi indietro, ha oggi l’occasione di prodursi in un colpo d’ala efficace, capace di farle finalmente rialzare la testa.

    È un fatto che le condizioni di fragilità e di indeterminatezza che hanno presieduto alla gestione del nostro sistema politico negli ultimi venticinque anni abbiano molto pesato anche nella conduzione della politica estera del Paese. La scomparsa, ben presto rivelatasi effimera, della contrapposizione ideologica Est-Ovest con la caduta del Muro di Berlino, abbinata alla convinzione che democrazia e mercato costituissero i due cardini di un pianeta in corsa verso l’armonia, deve aver influito non poco nel farci rinchiudere in un stato di benessere rivelatosi alla lunga non solo fragile ma anche banalmente provinciale. Eppure l’Ostpolitik percorsa da Bettino Craxi negli anni ’80 avrebbe dovuto nei suoi piani preludere, dopo l’attesa implosione del Comecon, a una espansione economica ad Est delle nostre PMI, a cominciare da quelle più dinamiche, da collocare utilmente soprattutto in Ungheria ed in Polonia.

    Oggi abbiamo perso identità e forse una reale capacità di contribuire agli obbiettivi del G.7, che noi stessi avevamo rafforzato schivando, al vertice di Tokio del 1985, la mossa anglofrancese di sottometterlo al G.5. Va detto che ora é tutto l’Ovest ad apparire in declino, con il G.7 che ha ceduto quote crescenti del commercio mondiale ai paesi BRICS e con il ritorno delle battaglie ideologiche con la «Grande Russia» di Putin, impegnata a rimontare la china della disciolta Unione Sovietica.

    In questa fase di ripiegamento e di malaise l’Europa, e l’Italia soprattutto, sono state colte di sorpresa dall’ascesa dell’Islamismo radicale, mentre siamo penalizzati anche dagli abusi del capitalismo non corretti da una governance appropriata. Avremmo dovuto avere più piglio nel G.7, e nell’Ue e quindi gestire meglio la «primavera araba»: adoperandoci in particolare nel far capire che il vero movente di quelle rivolte non era la lotta per la democrazia ma piuttosto la conquista della dignità umana, allo scopo di farne il perno di future libere scelte di quei popoli pur se non necessariamente favorevoli al nostro modello politico.

    Il risultato é stato che, anche per colpa delle incerte politiche dell’Occidente, anziché le porte dello stato di diritto i moti popolari hanno in realtà aperto fronti di lotta del tutto inattesi, con la conseguenza ultima di aver reso il Mediterraneo un’area di transito verso il nostro Paese di migliaia di transfughi in cerca di rifugio. È per queste ragioni che lo sforzo del recupero di una azione e di una presenza italiana, anche se complesso, va intrapreso senza indugi per ricostruire una discernibile politica estera che si ponga come primo obiettivo di ripristinare condizioni di stabilità e sviluppo alla nostra frontiera Sud: un’area che per il nostro Paese é sempre stata di importanza strategica.

    Dobbiamo tuttavia essere coscienti che il nuovo rapporto da costruire tra l’Italia e il Sud del Mediterraneo, che deve imperniarsi su di uno sviluppo condiviso, non può prescindere dalla sicurezza e dalle tensioni che oggi insidiano la regione, come si é detto parlando della Libia.

    Né una azione siffatta, pur dovendo rispondere a caratteristiche di politica autonoma, può prescindere dalle nostre alleanze (a partire da quella con gli Stati Uniti), e dal nostro essere membri dell’Unione europea.

 

5. Modalità e direttrici di Azione. - Al di là delle iniziative caute ma ben mirate per fronteggiare la caotica situazione in Libia, appare necessaria innanzitutto la presa in conto di misure destinate alla crescita economica, ma anche alla stabilità politica dei Paesi della sponda Sud, promuovendo e sollecitando da parte dei nostri partner europei, d’intesa con gli S.U., interventi in grado di contrastare le attuali minacce e prevenendo la nascita di nuovi focolai di tensioni.

    Un primo tema riguarda il modo di percepire l’Islam e il radicalismo islamico e a seguire come viene visto o dovrebbe essere considerato il dialogo interreligioso, oggi troppo enfatico e fuori centro. Contemporaneamente andrebbero affrontati anche altri aspetti che hanno un più o meno forte impatto sul punto: in particolare il processo di pace israelo-palestinese, i conflitti in atto nell’Africa profonda, e più in generale i problemi della sicurezza nella regione mediorientale che, lo si voglia o no, passano per un processo di riconciliazione o quanto meno di dialogo e di coesistenza tra sunniti e sciiti. Importante al proposito l’appello all’unita dei musulmani fatto dal Grande Imam dell’Azhar,El Tayeb.

    Lo Jihadismo rappresenta appena il 3 % dei sunniti; il che mostra che la capacità di mobilitazione rimane contenuta; é importante non sopravvalutare il fenomeno, nonostante la gravità delle sue azioni. Una constatazione immediata che suggerisce prudenza e conoscenza nel prescrivere le riforme agli arabi moderati é che «riformisti» si autodefiniscono coloro che si richiamano alle forme di lotta praticate sul terreno: una modalità che sarebbe senz’altro più corretto definire, per i metodi violenti e disumani usati, come quella di un vero e proprio terrorismo.

    L’avvento dello “Stato islamico”, che occupa al momento un territorio di circa 270 mila mq tra la Siria e l’Iraq, ha reso ancor più brutale il fanatismo che strumentalizza il credo dell’Islam per folli lotte di potere. E tuttavia il Califfato, oggi arbitrariamente riesumato dallo Stato islamico, non durerà probabilmente a lungo avendo attirato su di se lo sdegno e un forte senso di rivalsa di una larga parte del mondo arabo e musulmano. Nondimeno non é da escludere, anzi é probabile, che la sua scomparsa si accompagni a nuove forme di terrorismo presumibilmente non meno violente.

    Era già successo ad Al Qaeda, e prima ancora al « Fronte del rifiuto », allora accusato di azioni riprovevoli ed in qualche modo strumentali per negare credibilità all’opzione negoziale dell’OLP di Arafat. Durerà certamente più a lungo il movimento «Boko Haram», le cui aree di dominio sono considerate una «Provincia» dello Stato islamico, e che rischia di diventare seme di contagio nei paesi che confinano con il lago Chad.

    È dunque importante che nel contrastare anche militarmente il terrorismo non si dimentichi che la madre di tutte le tensioni resta il senso di oppressione, di ingiustizia e discriminazione che gran parte del popolo arabo avverte nei confronti dell’Occidente, visto come alleato acritico di Israele. L’irrisolta causa palestinese resta tuttora una ferita aperta per il popolo arabo. Pericoloso negligere sulla creazione dello Stato palestinese a cui i precedenti governi italiani avevano dato priorità costante, anche rischiando gravi crisi (come nel caso di Sigonella) con il nostro maggiore alleato.

    Su questo punto l’Italia deve tornare ad essere parte attiva per la ripresa del processo di pace, dando il suo tenace concorso per coinvolgere seriamente Stati Uniti, Israele e Paesi arabi. Le basi ci sarebbero tutte, essendo costituite da due iniziative solenni e importanti che la memoria corta dell’Occidente sembra avere dimenticato: l’iniziativa dell’Arabia Saudita del 2002 e quella dei «due Stati», con George W. Bush sponsor e garante, approvata nel Maryland, ad Annapolis, nel 2007.

    Trent’anni fa, nel novembre del 1984, Re Fahd chiese a Craxi di fare appello a Simon Peres affermando che lui avrebbe lavorato per convincere Arafat a passare dalla strettoia di una Confederazione giordano-palestinese: un obiettivo decisivo che venne fallito nel febbraio dell’anno dopo, nel 1985, ad Amman, per le mancate, modeste concessioni che venivano richieste a Simon Peres, allora Primo Ministro di Israele, per costruire una delegazione giordano-palestinese che non facesse perdere la faccia ad Arafat.

    Oggi, tre decenni dopo quella mancata svolta che poteva essere decisiva, l’Unione Europea, si é rivelata del tutto inadeguata a rimettere il processo di pace su binari solidi, e ha di fatto rinunciato a convincere il Governo di Gerusalemme che Israele é Stato invasore, ultimo Paese dei tempi moderni che ricorre agli insediamenti in territori altrui per modificare il dato demografico che alla fine dovrà determinare la linea di confine. Ed é innegabile che l’intransigenza di Gerusalemme stinge in qualche modo sul problema più vasto della sicurezza della regione.

(1/2 – continua)

 

Il video integrale dei lavori del convegno sarà consultabile a partire da domani sul sito della Fondazione Socialismo (www.fondazioneoscialismo.it).