lunedì 7 settembre 2015

Io, nipote di profughi

FONDAZIONE NENNI

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Noi che una patria, per quanto sgangherata, ce l’abbiamo; noi che una casa, pur modesta, ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.

di Edoardo Crisafulli

Mia nonna paterna, Edwige Schwartze, mi raccontava spesso la storia della nostra famiglia: “quand’ero bambina vivevamo in pace in Transilvania, la nostra Siebenbürgen, nel cuore dell’Impero austro-ungarico. Eravamo di lingua e cultura tedesca, ma ci sentivamo ungheresi. Eravamo felici e sereni. Poi deflagrò quell’orribile guerra, nel 1914. Pochi anni dopo, con la sconfitta degli Imperi centrali, il nostro mondo crollò. Iniziarono i disordini, e si cominciò a patire la fame, a noi sconosciuta fino ad allora. La Transilvania venne ceduta alla Romania, che aveva combattuto contro l’Impero austro-ungarico.

L’Ungheria precipitò nel caos, sembrava che stesse per scoppiare una rivoluzione. Il bolscevico Bela Kuhn andò al potere, e proclamò la Repubblica sovietica ungherese. Lì iniziò il nostro calvario. Eravamo benestanti e perdemmo tutto, dalla mattina alla sera. Vivevamo nel terrore. Tuo bisnonno Emil fu imprigionato e obbligato ai lavori forzati dai comunisti ungheresi. Era un borghese, un proprietario terriero, e andava punito in maniera esemplare. Sottoposto a crudeli privazioni, si ammalò gravemente. Intanto cominciava un’altra guerra, questa volta tra Ungheria, Cecosolovacchia e Romania: Bela Kun, nel 1919, occupò parte della Slovacchia e tentò di riprendersi la Transilvania. Ma non ci riuscì. Senza più proprietà e reddito, ora eravamo anche apolidi, senza patria. In fondo, continuavamo a sentirci ungheresi di etnia tedesca. Ma l’Ungheria era in mano ai bolscevichi. E la Transilvania era rumena. Decidemmo di fuggire da una terra che la nostra gente abitava da secoli. Portammo via con noi poche cose, stipate su un carretto: qualche mobiletto, qualche ricordo, gli abiti, l’argenteria. Iniziò così un lungo e terrificante viaggio: il papà era ammalato e la mamma doveva occuparsi di 6 figli – il più piccolo aveva tre anni, il più grande dodici. Iniziarono le peregrinazioni nei Balcani, nei territori di un Impero in disfacimento, dove emergevano gli odi interetnici a lungo repressi. Subimmo soprusi e crudeltà da parte di tutti: dai rumeni (in quanto ungheresi), dai serbi (in quanto ‘austriaci’), dai croati (in quanto protestanti). Finché non arrivammo ad Abbazia, che era da poco passata all’Italia. La conoscevamo bene perché era una importante meta turistica come lo è Riccione oggi.

Ci sistemiamo in una pensioncina e non sappiamo più a che santo votarci. I nostri soldi sono carta straccia. L’argenteria l’abbiamo già venduta. Papà si aggrava. Mamma ha i nervi a pezzi. I carabinieri italiani ci hanno appena controllato i nostri documenti. Abbiamo il batticuore: ci maltratteranno anche loro? Ci cacceranno via anche loro? Capiamo poco di quel che ci dicono. Ci paiono così strani, con quelle divise buffe e quell’aria così poco marziale. Guardano i bambini e confabulano fra di loro. Noi ci stringiamo tutti assieme. Se ne vanno. Dopo una mezz’oretta si sente bussare alla porta. I carabinieri sono tornati. Mamma ha un tonfo al cuore. Apre la porta, tenendo la mia sorellina Ruth in braccio. I carabinieri gesticolano indicando dei contenitori di latta che hanno con sé. È il latte per i bambini, dicono. Noi scoppiamo a piangere. È la prima volta che veniamo trattati con umanità. Poco dopo papà ha una crisi, e viene ricoverato in ospedale. Sul letto di morte dice a mamma: ‘lasciate perdere l’Austria. Rifugiatevi in Italia. Sono certo che vi troverete bene. Gli italiani sono un popolo che ha cuore.”

Se non fosse stato per quell’episodio di generosità io probabilmente non sarei mai nato. La mia famiglia ungaro-tedesca sarebbe finita a Vienna, com’era nelle intenzioni iniziali. Mia nonna invece si stabilì in Italia con tutta la famiglia e sposò un siciliano, così nacque mio padre. La scelta non fu facile: all’epoca una ragazza ungaro-tedesca, per giunta protestante, agli occhi di un siciliano appariva esotica quanto una cinese o una afgana oggi. Mia nonna è rimasta una profuga nell’animo per tutta la vita. Non ha mai voluto possedere una casa. Non ha mai smesso di rimpiangere la sua amata Transilvania. Il dramma dei profughi lo devi toccare con mano, per capirlo. Io l’ho vissuto attraverso le narrazioni sofferte di mia nonna.

In questi mesi ho letto cose sui profughi da far rabbrividere. ‘Sono pericolosi. Ci portano malattie infettive’; ‘sono bugiardi, non scappano da guerre: vengono da noi per farsi mantenere’; ‘si lamentano e poi hanno tutti il telefonino’; ‘fra loro pullulano i criminali e i terroristi’. È questo, mi chiedo, lo stesso popolo che accolse la famiglia di mia nonna negli anni Venti del secolo scorso? Certo, ci sono le migliaia di volontari della Caritas e di altre organizzazioni benefiche. Tanti italiani si rimboccano le maniche, si prodigano e si commuovono alla vista dei disperati che cercano rifugio in Italia. Ma gli indifferenti sono tanti, troppi. È la crisi che ha indurito il cuore degli italiani? No, è il benessere che ci ha resi egoisti. Rispetto ai tempi di mia nonna abbiamo molto di più eppure siamo disposti a dare molto di meno. Diciamo che non possiamo permetterci di aiutare gli stranieri, e poi sprechiamo ogni anno tonnellate di cibo senza battere ciglio; ci arrabbiamo se i profughi rifiutano un piatto di pasta e osano pretendere un vitto diverso (cosa dovremmo dar loro, il rancio con un tozzo di pane secco?) e poi stiamo a nostro agio in una società iper-consumista, traboccante di beni superflui, che ci invita ogni giorno a sprecare e a buttare via.

Diciamola una verità scomoda: non è vero che non potremmo accogliere più profughi. È che non vogliamo farlo. Ecco perché la destra leghista e xenofoba è riuscita a scatenare una guerra fra poveri: i disoccupati e i bisognosi italiani contro i profughi e gli immigrati. I veri miserabili sono coloro che si accaniscono contro gli stranieri, i diversi per raccattare un pugno di voti. Ignobile il titolo di Libero del 27 agosto 2015. “Ai clandestini i soldi dei disabili”. Dove eravate, cari leghisti, quando per decenni di vita repubblicana impiegati, docenti, operai con i loro magri salari finanziavano le scuole e gli ospedali ai grandi evasori fiscali, tutti italianissimi? C’è una sola grande, vera ingiustizia sociale nell’Italia d’oggi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E voi che fate? Ve la prendete con i reietti, con gli ultimi, con i diseredati.

Intendiamoci: non sono un sostenitore dell’etica del Buon Samaritano a oltranza. Quando la coperta è corta, e tutti vogliono tirarla dalla loro parte, bisogna fare scelte dolorose. Comprendo l’amarezza e la delusione del disoccupato italiano che si sente trascurato dal proprio Stato. Agli italiani onesti, in regola col fisco, va riconosciuto un diritto di priorità nell’assistenza sociale. Mi pare sacrosanto. Non possiamo mica accogliere tutti: i migranti economici (quelli in cerca di lavoro) e i clandestini senza fissa dimora non hanno il diritto di rimanere in Italia a spese nostre. Ma nei confronti dei profughi e dei rifugiati politici abbiamo un obbligo morale di assistenza. Dal mio popolo mi aspetto molto di più. Voi che temete un’invasione barbarica pensate – almeno per un istante – alle sofferenze dei poveri disgraziati che fuggono dalle dittature, dalle violenze. Non vi chiedo di tornare indietro con la memoria a cent’anni e più fa, quando erano i vostri nonni e bisnonni a emigrare con le valigie di cartone. A voi, che siete orgogliosi delle radici cristiane dell’Europa, a voi che inorridite al pensiero che il canto del Muezzin rimpiazzi il suono delle campane, chiedo uno sforzo mentale in più. Vi chiedo di dedicare un momento di riflessione ai tanti profughi senza nome e senza tomba, affogati in mare.

Io, nipote di profughi, non posso dimenticare che senza la generosità degli italiani non sarei neppure nato. Voglio tramandare questa mia storia famigliare. Prima di escogitare soluzioni pratiche, prima di parlare di lotta (giustissima) agli scafisti, intendo testimoniare la sofferenza e il dolore del profugo, dell’apolide che perde tutto – a volte anche la sua stessa vita – per scappare da guerre e rivoluzioni che non ha scatenato e che lo hanno travolto. Noi che una patria, per quanto sgangherata, ce l’abbiamo; noi che una casa, pur modesta, ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.