Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra.
di Felice Besostri
Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra. Quella scelta rappresentò la fine dell’Internazionale socialista, un’organizzazione già percorsa da divisioni ideologiche provocate dal revisionismo da un lato e dalle tendenze rivoluzionarie dall’altro: una sfida all’ortodossia socialdemocratica e al suo marxismo minimo.
Una crisi politica, che significava crisi morale e rinuncia ai valori tradizionali di solidarietà di classe per adeguarsi al nazionalismo patriottardo.
Come allora la crisi fu più acuta in Europa, la culla del movimento operaio e socialista, anche oggi è in crisi la sinistra in tutte le sue espressioni a cominciare da quella una volta dominante ed egemonica o, comunque, maggioritaria nella parte occidentale: il socialismo democratico. La caduta dei regimi comunisti non ha rafforzato la sinistra, ma l’ha indebolita complessivamente, basta fare un confronto tra la UE a 15 negli anni novanta del XIX e quella a 28 del secondo decennio del XX secolo.
Certamente le insufficienze sono datate da tempo: inesistenza di una politica economica alternativa a quella imposta a livello planetario dal capitalismo finanziario e dalle multinazionali, quando con la crisi economica e finanziaria ha reso impossibile il mantenimento dello stato sociale. Tuttavia è ancora una volta nel tradimento dei principi di umanità e solidarietà sociale, come 100 anni fa del pacifismo e dell’internazionalismo, che segnano la crisi della sinistra e che la travolge in tutte le sue espressioni, comprese quelle più radicali.
E’ un dato non contestabile che la perdita di consenso elettorale dei Partiti del PSE, soltanto in minima parte è andato a beneficio di formazioni alla loro sinistra, piuttosto ha alimentato l’astensione e/o il populismo xenofobo ed identitario o i partiti conservatori al limite reazionari come in Ungheria o in Polonia. Dove l’ignavia del PSE ha colpito in primo luogo il suo partito membro, come il Pasok in Grecia, l’alternativa di sinistra non ha raggiunto mai la maggioranza assoluta e ha dovuto accettare compromessi che ne hanno minato l’unità e costretta ad alleanze con formazioni di centro-destra.
La più solida e consistente anche temporalmente, come la Linke in Germania, non è mai uscita dai Länder della ex DDR, ad eccezione della Saar, e comunque i governi che si basavano su un’intesa SPD- Linke, meno di quelli numericamente possibili, non hanno quasi mai trovato una conferma elettorale democratica alla scadenza. Soltanto in Spagna si era profilata una possibile intesa tra sinistra tradizionale PSOE e nuova (Podemos e sue varianti), fallita e rimandata ad una prova d’appello, molto più difficile, se non vengono sconfitti l’autosufficienza socialista andalusa e il secessionismo a egemonia borghese della Catalogna. A differenza di 100 anni fa alle frontiere non si scavano trincee dalle quali spararsi reciprocamente, ma si erigono muri verso masse di disperati e si stipulano accordi di contenimento, come con la Turchia, con costi economici, per non parlare di quelli umani, superiori a quelli di un’integrazione programmata e una politica di corridoi umanitari. Su questo l’Europa si gioca il suo futuro, ma il fallimento di quest’Europa, che l’ha cercato e meritato, non aprirà nuovi spazi alla sinistra, ma alla destra come dimostrato dai successi della FPÖ al primo turno delle presidenziali austriache.
La sinistra aveva un progetto federalista europeo, che trova il suo fondamento, nel Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, da adeguare alle sfide epocali e planetarie dei cambiamenti climatici e alle migrazioni di massa, ma non riscoprire il nazionalismo ammantato da sovranità democratica e monetaria. L’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis indica una strada di riforma dell’Europa senza tentazioni nazionaliste, continua una tradizione di federalismo socialista, la cui massima utopia di era espressa con la parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa nell’immediato secondo dopoguerra mondiale.
Soltanto l’immaginazione romanzesca di Guido Morselli in Contro-passato prossimo aveva legato la vittoria dell’Austria-Ungheria nella Prima Guerra mondiale ad una rivoluzione che avrebbe trasformato la doppia monarchia nella prima Federazione Socialista Europea, centro della trasformazione socialista mondiale al posto dell’arretrata Federazione Russa: un trionfo dell’austro-marxismo sullo stalinismo. Quelle utopie non hanno più rapporto con la realtà quando e impossibile distinguere i socialdemocratici austriaci e slovacchi da un fascistoide come Orban, leader di un partito del PPE.
Cento anni fa i socialisti che avevano rifiutato la guerra seppero tentare almeno un riscatto morale e politico organizzando a Zimmerwald nel 1915 e a Kiental nel 1916 due conferenze internazionali, grazie a compagni come gli svizzeri Robert Grimm, e Ernest Paul Graber o gli italiani Oddino Morgari, Giuseppe Emanuele Modigliani, Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, ma guidati dall’ebrea ucraina, naturalizzata italiana, Angelica Balabanoff.
Ebbene il centenario di quell’evento è stato ricordato dall’associazione degli storici svizzeri dell’Università di Berna e da una Conferenza lo scorso 30 aprile del Partito del Lavoro svizzero. Vogliamo tentare, uscendo dai nostri confini identitari, di ricostruire una sinistra cui debbono concorrere tutti i suoi filoni ideali storici, socialista, comunista e libertario, arricchiti dal pensiero ambientalista, femminista e dei diritti umani. Filoni ideali, perché se scendiamo sulle realizzazioni storiche dobbiamo constatare che sono fallite o esaurite. Pura utopia? Ma c’è un’alternativa?
Cominciamo da dove viviamo, dalle nostre città, a cominciare dalle metropoli come Milano, Roma, Napoli, Torino e Bologna, facendo delle differenze una ricchezza. La difesa della democrazia dalle leggi elettorali come l’Italicum e dalla deforma costituzionali sono un collante forte di una sinistra capace di coniugare libertà, lavoro, democrazia e giustizia sociale. E chiediamo dal basso una conferenza internazionale come quella di cent’anni fa.