lunedì 13 febbraio 2017

Un problema di sostanza

Seconda parte del saggio di Andrea Ermano sul grande pensatore greco, “maestro di color che sanno”, di cui ricorre in que­sti mesi il 2400.mo dalla nascita. Il testo che qui presentiamo ripro­du­­ce con piccole variazioni la traccia di un discorso tenuto dall’autore in lingua tedesca il 24 mag­gio 2014 presso il Lyceum Club di Zurigo su invito della Società di cultura greca Akroteama. La conferenza è stata poi replicata in lingua italiana il 4 dicembre 2016 al Coopi di Zurigo nel­l'ambito delle giornate di cultura “Zurigo in Italiano”.

di Andrea Ermano

La parola 'è' può assumere una pluralità di significati (disgiunti). Dun­que, essa nasconde dentro di sé una certa incompiutezza. Abbiamo vi­sto che si può impiegare 'è' per dire, per esempio, che: "Questo 'è' sot­to­insieme di quello" (La balena è un mammifero), oppure: "Questo 'è' elemento di quello" (Aristotele è un pensatore), oppure: "Questo 'è' in possesso di quella proprietà" (Bob Dylan è pallido), oppure: "Questo 'è' uguale a quello" (La stella del mattino è la stella della sera), oppu­re, infine, semplicemente: "Questo 'è' qui" (C'è in questa sala un grup­po di persone).

    Se ne deduce che "ciò che è" (l'essente in senso generalissimo) può rinviare a concetti fondamentali della logica come, nel nostro esempio di gusto insiemistico, a sottoinsiemi, a elementi di insiemi, a proprietà di uno o più elementi, nonché all'uguaglianza e all'esistenza.

    E, però, se noi tentiamo di considerare l'essere di un essente in quan­to esso semplicemente 'è', vale a dire senz'alcuna aggiunta, ci vedre­mo costretti a constatare che preso per sé, in senso indeterminato e im­mediato, questo puro 'essente' non significa… nulla: «Das Sein, das un­bestimmte Unmittelbare ist in der Tat Nichts und nicht mehr noch we­ni­ger als Nichts», sentenzia Hegel.

    "Ciò che è", l'essente in quanto semplicemente 'è' (to on e on), è una struttura incompleta, aperta, che dipende nella sua stessa essenza da ag­giunte, completamenti, complementi (che più sopra nel nostro esem­pio rinviavano a una qualche forma di esistenza, uguaglianza, proprie­tà, appartenenza o inclusione). Senza aggiunte l'essente è niente, con le aggiunte è cose diverse.

    Proprio in ciò si manifesta una delle scoperte più importanti e gra­vi­de di conseguenze tra quelle compiute da Aristotele; perché: «l'essente viene detto in molti modi» (to on legetai pollachos). Cioè viene detto in molti modi diversi. Molti e non riducibili a uno.

    Nei nostri discorsi noi non troveremo un'unica struttura dell'essere, omogenea e universale, alla quale poter ricondurre tutti gli usi che fac­ciamo di questo verbo, che invece si articola in una pluralità di concetti disgiunti, i quali a loro volta rinviano a grandi insiemi distinti di cose.

    Questi grandi insiemi distinti si chiamano a partire da Aristotele e in Aristotele stesso categorie, configurando una dottrina che mieterà in­cre­dibili successi e innumerevoli tentativi di imitazione. Una tra le liste più icastiche risale a Charles Sanders Peirce, che suddivide in tre gran­di generi i modi in cui l'essente appare: 1) Firstness, 2) Second­ness, 3) Thirdness. Tripartizione inedita, in cui Peirce per certi versi ricalca la logica hegeliana del vero in quanto tutto che si tripartisce a sua volta in Sein, Wesen e Begriff (essere, essenza e concetto). Né, in materia di tri­par­tizioni, può essere qui dimenticata la specificazione scolastica del­l'es­sente in: 1) Theologia rationalis, 2) Psychologia rationalis e 3) Cosmologia rationalis.

Per Jorge Luis Borges TheologiaNnnon c'è classificazione dell'universo «che non sia ar­bi­tra­ria e congetturale», dato che, semplicemente, «non sappiamo che co­sa è l'uni­verso». Di qui ben si comprende l'Emporio celeste dei co­no­sci­men­ti benevoli che Borges attribuisce per burla a un'imma­gi­na­ria en­ciclopedia cinese: «Nelle sue remote pagine è scritto che gli ani­mali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) am­maestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) in­clusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innu­me­revoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cam­mello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche», (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere, vol. I, p. 1004).

    Con l'allusione russelliana di cui sopra alla lettera (h) Borges ironiz­za sull'aria (confusionaria) di famiglia che sempre un po' si re­spi­ra par­lando di tassonomie. A quest'impressione (di confusione) non si sono sottratte nemmeno le stesse Categorie di Aristotele, del resto, che Im­manuel Kant giudicava sì l'escogitazione “di un uomo acuto”, ma pri­ve di qualsivoglia principio conduttore e quindi piuttosto rac­co­gli­tic­ce: «So raffte es sie auf, wie sie ihm aufstiessen, und trieb deren zuerst zehn auf, die er Kategorien (Prädikamente) nannte» (KrV A 81/B107).

Non entriamo qui nella vexata quaestio. Limitiamoci a prendere atto che per lo Stagirita un essente può essere: o 1) una "entità" (detta anche “sostanza”), oppure 2) un “quanto”, oppure 3) un “quale”, oppure 4) un “relativo”, oppure 5) un “dove”, oppure 6) un “quando”, oppure 7) una “situazione”, oppure 8) un “avere”, oppure 9) un “fare” oppure, infine, 10) un “patire”.

    Secondo Aristotele si tratta di dieci concetti sommi oppure, a se­conda dei punti di vista (e dei passi che si vogliano prescegliere), di die­ci grandi collezioni di cose (di 'essenti') cui quei concetti sommi pos­sono riferirsi.

    Che cosa significa tutto ciò? Significa che: qualunque cosa noi ve­diamo, pensiamo, rammemoriamo, invochiamo, diciamo, incontriamo, tocchiamo, produciamo, baciamo o distruggiamo – appartiene inevita­bil­mente a una di queste dieci collezioni, a uno di questi dieci generi dell'essente. L'abbronzatura in estate, ad esempio, o l'arte del tatuaggio, oppure i sandali o l'armamento di un oplita, e le lunghe marce o il trekking o il riposo, oppure lo ieri, l'oggi e il domani, oppure una bella sala o lontanissimi, caldissimi o freddissimi corpi celesti, oppure il doppio o la metà o l'asservimento, oppure l'essere stupefatti e sbigottiti o eruditi o magari boriosi, altezzosi e arroganti oppure umilissimi. Ciascun 'essente' appartiene a una, e a una sola, delle dieci categorie. Non importa se abbiamo a che fare con i tassi ipotecari impazziti, i mutui alle stelle, o con la sfericità di una palla, o con la paura del portiere di fronte al calcio di rigore, o con la gente per strada, e con te e con me e con una canzone di Bob Dylan… Tutto ciò che ho elencato, ma anche tutto il resto, che non ho elencato e che certo non posso umanamente stare qui a elencare, ogni 'essente' appartiene a una, e a una sola, delle dieci categorie, sostiene Aristotele.

    Ma – aggiunge – tutti gli altri tipi di 'essenti', fatta eccezione per la “sostanza” – coincidano essi con un “quanto”, un “quale” o un “relativo”, un “dove” o un “quando”, un “situarsi”, o “avere”, o “fare” o “patire” – tutti questi altri nove tipi di 'essenti', devono trovare appoggio nelle 'sostanze', che sono un tipo di 'essente' formato da cose fondamentali il cui modo di essere è l'esistenza in forza propria.

    Il nome “Bob Dylan”, ad esempio, è di per sé un essente. Ed è un essente anche il pallore dell'uomo che così si chiama. L'uno e l'altro però presuppongono l'esistenza di una persona alla quale e il nome e il pallore appartengono. In tal senso, l'uomo è il 'portatore', il 'sostrato', il sub-jectum su cui poggia il nome “Bob Dylan”, come pure il suo pallore e tutte le altre proprietà che si dicono di o che ineriscono a quella certa persona. In quanto 'portatore' ultimo, 'sostrato', sub-jectum di denominazioni o di proprietà l'uomo Dylan può essere detto “sostanza” (ousia). Egli non è “portato” da qualcos'altro: “sta” nell'essere in forza propria. E rimane se stesso anche se cambia, se cambia nome, se dorme, si sveglia, si droga, non si droga, si ammala, vive la sua morte, muore la sua vita, guarisce, impara, disimpara, reimpara, scrive, parla, canta, suona, corre e vince.

    Questa è la sostanza.

    Sul suo modo di essere, sul modo di essere di questo essente fondamentale, poggia il modo di essere delle sue proprietà e dei suoi predicati, dei suoi attributi essenziali, accidentali, predicativi. Così, però, tutto ciò che è, ogni 'essente', o “sta” in forza propria in quanto è esso stesso sostanza, oppure “inerisce” a una sostanza in quanto per poter essere deve appoggiarsi su ciò che “sta” in forza propria.

    Bob Dylan potrebbe andare ad abbronzarsi, pur continuando a es­se­re, anche senza il suo pallore; non però quel suo pallore senza di lui. Quel suo pallore, nell'istante in cui esce da lui, non 'è' più. Da questa semplice considerazione si può comprendere in qual modo tutti gli altri 'essenti' non sostanziali dipendono dagli 'essenti' sostanziali, i quali pos­seggono per altro una loro esistenza individuale, mutevole e in­di­pendente.

    Ecco, questa esistenza individuale, mutevole e indipen­dente appartiene tipicamente alle sostanze, sulle quali perciò tutto poggia.

    Ma quali sono gli esempi di “sostanze” che ci fornisce Aristotele? “Socrate”, “un certo uomo”, “un certo cavallo” eccetera. Soprattutto, la sostanza è un uomo. E Paul Ricoeur centra il bersaglio quando scrive che: «Non è possibile circoscrivere il compito, la funzione – l'ergon – dell'uomo, senza avere preliminarmente affrontato la difficile questione dell'“essere uomo” in quanto tale. In particolare, non è possibile trattare dell'uomo come essere-politico, e neppure del suo statuto come "ani­ma­le razionale", senza essersi confrontati con la difficile problematica della sostanza».

    Ecco un uomo, dunque: è sostanza. Ecco la sostanza, dunque: è un essere umano. Ma allora io sono una sostanza?! Che cosa sono?! In quanto uomo? O in quanto bambino, o in quanto straniero, o in quanto donna, o barbaro? O schiavo? O signore? A quale categoria appar­ter­rei? A qual genere di 'essenti' apparterresti tu? Apparterremmo noi? E via coniugando gli interrogativi.

    S'è già accennato al fatto che per il giovane Aristotele un essere umano non può essere tale in un senso o in un grado superiore o infe­riore né rispetto a un altro essere umano e nemmeno rispetto a se stesso.

    È il maestro di Aristotele, Platone, a esporre nel Parmenide (il dialogo del “parricidio”) le ragioni di ciò, svolgendo una serrata autocritica della propria Dottrina delle Idee. Qui lo schiavo non è più schiavo per sua natura. Lo schiavo non è schiavo “geneticamente”. No, esso è tale semplicemente in quanto “schiavo di un padrone”. E un padrone è semplicemente padrone in quanto “padrone di uno schiavo”. Il loro modo di essere, in quanto meramente padrone e meramente schiavo, è una correlazione, al di fuori della quale nessuno dei due 'sarebbe'. Né potrebbero essere entrambi senza che ci fossero anche degli esseri umani a sostenere quei loro ruoli. Invece, sarebbe possibile pensare l'esistenza di un essere umano anche al di fuori di quella correlazione. Ché un essere umano potrebbe ben esistere anche senza essere uno schiavo, o un padrone. E potrebbe ben esistere, un essere umano, in un altro sistema di correlazioni, senza né schiavi né padroni. È logico pensare che lo potrebbe, anche se oggi siamo di nuovo lontani, molto lontani, da questa possibilità.

    Ecco una legittima veduta sulla questione dell'essere platonico-aristotelico all'altezza delle Categorie. Perché, noi tutti – donne, uomini, vecchi e bambini, ateniesi, macedoni, barbari – apparteniamo, secondo il giovane Aristotele, alla categoria della sostanza.

    Aristotele esemplifica questo concetto fondamentale di sostanza impiegando regolarmente esempi come “un certo uomo” o “Socrate”, mai esempi come “schiavo”, “signore”, “sopra”, “sotto”, “mezzo”, “doppio”. Ed è, in effetti, abbastanza sorprendente, ma anche un fatto filologico accertato e accertabile, che l'espressione più frequente in un'opera di logica come le Categorie sia data dal sostantivo “uomo”, costantemente associato alla categoria della sostanza: «Se questa sostanza determinata è un essere umano, allora esso non potrà essere tale né in modo più forte, né in modo più debole, né in rapporto a sé stesso né in rapporto a un altro essere umano» (Cat. 3b37sgg.).

    Ancora una citazione testuale: «Ma la sostanza è una cosa singola e numericamente identica, ricettiva rispetto a determinazioni contrarie, e così per esempio un essere umano in quanto uno e identico può essere ora pallido, ora abbronzato, ora passionale, ora freddo di sentimento, ora serio e ora leggero» (Cat. 4a17-21).

    Insomma, la rivoluzione sostanziale compiuta da Aristotele nella pri­ma metà del quarto secolo a.C. è duplice: per un verso essa colloca il fondamento dell'essere in un essente-esistente concreto, mutevole e individuale; per l'altro verso essa ci fornisce una categoria grazie alla quale noi possiamo meglio comprendere noi stessi. Perché noi, a tut­t'og­gi, nonostante il prevalere della ragione strumentale, continuia­mo a intendere noi stessi come sostanze, e non certo come mere fun­zioni predicative o accidentali o 'partecipative' di alcunché.

    Ora, la mia tesi, in breve, è che questa sostanzialità costituisce uno dei più evidenti assiomi dell'autocomprensione umana, a partire dai primi elementari fenomeni dell'intenzionalità della coscienza nel ri­fe­ri­mento oggettivo, passando per l'idea di soggetto autonomo e di dignità personale, fino ad arrivare alla nozione universale dei diritti del­l'uo­mo. L'essere umano è essenzialmente sostanza in quanto esistenza. E questa sostanza è emblematicamente essere umano. (2/3. Continua)

La prima parte del presente saggio è apparsa sull’ADL del 2.2 2017.