«Il signore di cui è l'oracolo, quello in Delfi,
non dice, non nasconde, ma significa.» - Eraclito
«All'egoismo può essere opposto soltanto il pluralismo,
cioè il modo di pensare per cui – non contenendo tutto
il mondo nel proprio sé – ci si considera e bensì comporta
come semplici cittadini del mondo.» - Immanuel Kant
Terza e ultima parte del saggio di Andrea Ermano in omaggio critico al grande pensatore greco di cui ricorre in questi mesi il 2400.mo dalla nascita.
di Andrea Ermano
Quali cose ci sono? Quali essenti esistono? C'è, per esempio, un essere umano? E, posto che – come appare del tutto evidente – esista un uomo individuale, esistono anche gruppi di esseri umani? E una società? Ma, in tal caso, che cosa significa "tu sei, tu esisti"?
Qui finora abbiamo dato per scontato che ci siano 'sostanze', ed emblematicamente che ci sia un essere umano; èstin anthropos, annota qua e là Aristotele, paradigmaticamente: “Esiste un uomo”. Ma che cos'è un essere umano? Nelle Vite e dottrine di filosofi illustri Laerzio racconta che: «Platone aveva appena proposto dell'uomo la definizione: "L'uomo è un essere vivente bipede e implume", ed era stato applaudito. Allora Diogene spennò un gallo e lo portò nella sala dicendo: "Ecco l'uomo di Platone"».
Diogene! Pare non credesse – “vero figlio di Zeus e cane celeste” – in un dogma ingenuo circa l'esistenza… dell'uomo. Forse reputava che un essere umano, potendo agire e ragionare, dovrebbe possedere la capacità di dire e fare con sincerità e bontà.
Ma lo vedi tu un siffatto animale? Diogene non lo vedeva. E di conseguenza si pose alla ricerca di un… anthropos.
Atene esterno giorno, Diogene si fa largo nell'agorà dell'antica metropoli lumeggiando con la lanterna un'abbacinante estate mediterranea: "Cerco l'uomo!", esclama. E tutt'intorno la folla brulicante. Ma lui non riesce a vederne neanche uno solo.
C'è un uomo?!
La domanda suona completamente assurda e forse perciò la gente riteneva che Diogene fosse mainomenos, “un folle”, o meglio: Socrates mainomenos, “un Socrate folle” (D.L. VI, 54).
Ma cerchiamo per una volta di essere onesti. Non sappiamo quando veniamo al mondo né quando dobbiamo andarcene. Non sappiamo chi siamo. Da dove dovremmo sapere che siamo? Pindaro denunciava in noi una doppia irrealtà: «Progenie d'un giorno! Che cos'è qualcuno? Che cos'è nessuno? Sogno di un'ombra l'essere umano» (Pitiche, VIII, 135). La vita è "rêve d’une ombre", traduce Leopardi: “image sublime” che dipinge tutto il nulla dell'uomo (Zibaldone, 10.2.1823). Immagine certo “sublime”, ma anche affollatissima, questa dell'uomo-ombra pindarico: "Fantasma di un'ombra" dirà Eschilo (Agam., 839), “polvere e vana ombra” ribadirà Sofocle (El., 1159), mentre per i Salmi i giorni dell'uomo "vanno via come l'ombra" (143, 4). E Renzo Tosi riporta un sillogismo medievale di gusto oraziano (Carm., 4, 7, 16): "Siamo polvere e ombra, la polvere non è che fumo; ma il fumo è nulla, quindi noi non siamo nulla" (Walther, 22889). Dopodiché ecco il Petrarca del “sogno lieve” e del “fugacissimo fantasma” (Canz., 1, 14), nonché, scendendo per li rami, Shakespeare: “Life is but a walking shadow” (Macbeth, 5, 5); giù giù fino a Calderon de la Barca (La vida es un sueño) e Grillpatzer (Der Traum ein Leben) per non tacere di Giosuè Carducci: «Contessa, che mai è la vita? / È l'ombra d'un sogno fuggente» (Rime e ritmi, 3, 73 sg.).
E dimmi tu se questa non è un'ossessione.
Plutarco, richiamato da Vegetti, parafrasava così: «Considerato rettamente, l'essere umano non ha nessuna parte nell'essere. Ogni natura umana, infatti, sta presa in mezzo tra il venire all'essere e l'andare al non essere, rivelandosi un'apparenza umbratile e instabile di sé. Se tu però orienti il tuo pensiero al tentativo di coglierla [questa natura umana], ti accadrà proprio come se volessi contenere e comprimere l'acqua con le mani. Uscirà dalle fessure tra le dita. E così, in fondo, s'inganna la nostra sensazione, non sapendo che il nostro essere è solo parvenza.» (Plut. De E, 18.)
Oltre all'uomo-ombra pindarico in queste parole risuona anche l'essere in divenire di Eraclito e il non essere del gran padre Parmenide: tutti ignari facitori di formule amletiche ante litteram immerse nel flusso dell'essere e del non essere in un teatro dell'auto-inganno di chiaro gusto cacciariano.
E, dunque, non possiamo dire che cosa saremmo? Dovremmo poterlo. Altrimenti donde vorremmo essere certi che saremmo?
Proviamo a rivolgerci, allora, al dio che più di tutti amava la sapienza, Apollo. All'entrata del suo tempio nell'isola di Delfi troneggiavano parole alate: «Conosci te stesso!» (gnothi seauton), e poi anche «Niente di troppo!» (meden agan).
Ah! Devo conoscere me stesso!? Va bene, ma ogni conoscenza determinata è anzitutto conoscenza di una determinazione, e a una determinatio essa deve quindi necessariamente riferirsi, a un qualche limite, o a un qualche confine (horos, horismos).
Senonché, le determinazioni confinarie, per poter essere conosciute, richiedono un gesto azzardoso. Ciò che le mie determinazioni, i miei limiti e i miei confini sono davvero, questo io posso esperirlo solo nel loro superamento, allorché io sia andato “oltre”, e mi trovi nella condizione di considerare me stesso da una sorta di “al di fuori”. Altrimenti rimarrò confinato entro una prospettiva limitata. Ma il pormi al di fuori dei miei confini, dei miei limiti, delle mie determinazioni vuol dire all'incirca “essere fuori di me”. E se sono fuori di me, "indeterminato", potrei essere allora un po' come Diogene, preda di una qualche 'mania'.
Mi sorge un dubbio: potrei essere folle.
Platone dice che la follia è portatrice di grandi doni per gli uomini. E distingue quattro tipi di 'mania', attribuendoli a quattro istanze divine: «l'ispirazione profetica ad Apollo, quella misterica a Dioniso, quella poetica alle Muse e un quarto tipo… il più alto, il delirio d'amore, ad Afrodite ed Eros» (Pl. Phaidr. 265 a-c).
La conoscenza di sé viene anch'essa dalla follia? Se sì, dovremmo qui aggiungere ora ai quattro succitati un quinto genere della 'mania' perché per conoscermi devo oltrepassare i confini della mia identità, andare “oltre” in qualche modo e misura: uscire fuori di me.
Ma: meden agan! “Niente di troppo”. Anche questo sembra averci voluto significare il dio. E, quindi, nella mia delirante autoconoscenza, nella mia divina possessione profetica, nella mia mania poetica e nella pazzia d'amore io devo essere… meden agan… Devo essere misurato. Il limite – prima 'tolto' – è ora 'posto': ma dove? E dove mai e in qual modo troverò adesso il metro esatto di questa mia evasione, ben calcolata, da me stesso? A queste strane questioni sono condotto da un'esegesi dei due antichi imperativi apollinei. E qui uno davvero vorrebbe potersi rivolgere al "Segretariato generale per la Precisione e l'Anima" di cui scriveva Musil.
Conosci te stesso: fa' qualcosa di folle, fuoriesci dalla tua fissazione narcisista, per Bacco! Ma… niente di troppo: non esagerare.
C'è un “impulso trattenuto” al fondo della riflessione (Colli, RE [40]). Il dio di cui è l'oracolo in Delfi ci comanda, dunque, di oltrepassare la linea d'indeterminazione, di farlo con determinatezza, ma non senza ponderazione?
Un po' come ne I promessi sposi il gran cancelliere spagnolo Ferrer ordina al suo cocchiere: "Pedro, adelante con juicio" (cap. XIII).
Un po' come Augusto imperatore ammonisce i suoi comandanti che gli appaiano troppo irruenti con le parole: “Festina lente!”(Svetonio, Vita di Augusto, 25, 4).
Forse in questo modo si possono riassumere i due imperativi del dio cui appartiene l'oracolo. E però in Delfi le formule erano tre, a quanto pare. Perché, oltre al gnothi seauton e al meden agan, sembrerebbe essercene stata ancora una, d'iscrizioni sacre. Era la più breve di tutte, consisteva di un'unica parola, e quest'unica parola di un'unica lettera, una epsilon maiuscola. Si tramanda che all'entrata del tempio stesse inscritta nel frontone: una grande ed enigmatica “E”. La quale suscitò ovviamente sempre innumerevoli interpretazioni.
Di ciò riferisce Plutarco nei Moralia: «Né per un numero né per un rango credo che stia l'iscrizione, né per una congiunzione e neppure per una parte omessa del discorso. Essa è piuttosto un saluto in sé perfetto al dio, e insieme un'invocazione che comunica il proprio suono al parlante nella nozione di potenza del dio. Infatti, il dio accoglie ciascuno che a lui si avvicini con la formula di saluto: "Conosci te stesso!" (...) E inversamente noi rispondendogli pronunciamo la formula: “Tu sei”. Tributando in tal modo il saluto vero e senza menzogna e il solo che a lui solo spetta in rapporto al suo essere» (Plut., De E, 18).
Tu sei! Vero essere è solo l'essere del “Tu sei”. Quest'interpretazione della Grande Epsilon riflette probabilmente una certa posizione teologica prevalente in Delfi verso la fine del primo secolo. Essa proviene dalla penna di un sacerdote apollineo, quale Plutarco fu a partire dal 95 d.C. fino alla morte avvenuta intorno al 125. Erano gli anni in cui veniva redatto, in lingua greca, il Vangelo secondo Giovanni, che si apre con il famoso “Inno al Logos”.
Che cos'è il logos? Senza entrare nei tormenti lessicali faustiani, diciamo che il logos in quanto linguaggio si struttura intrinsecamente in una sintattica, aperta però a un certo uso, a una certa pragmatica. Ma – poiché un certo uso del linguaggio non può che sfociare elementarmente nel consenso su un certo nome – allora il logos stesso, nel suo complesso, deve sfociare in un “nome”, che per sua natura rinvierà a un significato.
Però, il “nome” del linguaggio ha un'intenzionalità originaria che non si risolve nel carattere nominativo o accusativo di una designazione, vuoi del soggetto, vuoi dell'oggetto, vuoi nella prima, vuoi nella terza persona. Questo significato del “nome” del linguaggio si “mostra” originariamente nella datività della seconda persona: e cioè un “tu” al quale il linguaggio s'intende rivolto e senza il quale esso appare mutilato, tanto quanto un soliloquio. Senza questo “significato” reale, inteso nel senso fregeiano di Bedeutung, e quindi dato (non posto) nella sua datività originaria di un “tu”, il linguaggio sarebbe senza “senso”. Perciò tu sei, tu esisti: questo ci significa il linguaggio.
Un “tu”, nelle parole scolpite a Delfi, è già implicato nell'imperatività del “Conosci te stesso” dove la seconda persona singolare possiede una connotazione umana. Un tu esistenziale divino riappare nella Grande Epsilon: “Tu sei”. Che questo “Tu” delfico impersoni l'essere inteso in un senso molto forte, proprio e primario – che esso cioè si riferisca ad Apollo – doveva apparire evidente a un suo sacerdote del primo secolo d.C.
Ma anche per me oggi non è inintelligibile, da un punto di vista concettuale, che io non potrei essere un “Io” assunto in termini assoluti. La mia limitatezza non reggerebbe a un siffatto “Io”. Dunque, se questo “Io” assoluto non sono io, tuttavia io non posso neppure ridurlo a una terza persona, a un “esso”, a una mera cosa. E così questo “Io” assolutamente essente non può essere pensato che come un esistente alla seconda persona: “Tu”.
Fin qui ho solo cercato di risillabare in termini di intelligibilità, e sia pure molto riassuntivamente, quel che scrive Plutarco. Ma la struttura di questo “Tu” intelligibile, noi possiamo – se vogliamo – vederla impersonarsi concretamente in ogni tu 'minuscolo' che ci capiti d'incontrare: a una serata conviviale, camminando per le vie di una città, eccetera.
È questo l'homo mensura che cercavamo? È questo tu il “metro” di quell'evasione “estremamente misurata”? Direi di sì. Perché nel “tu” si annuncia una Curvatura dello spazio intersoggettivo nella cui reciprocità l'altro, e l'altro dell'altro, stanno come una “relazione sociale”, secondo la fondamentale scoperta di Levinas rispetto all'etica in quanto philosophia prima.
Ora, se noi riconsideriamo la grande causa del pensiero filosofico da quest'angolo visuale, dal vertice dell'ontologia intesa in quanto attitudine pratica, di fronte a noi si staglia sorprendente un'opposizione tra due razionalità. All'apice dell'antico logos sta la parola “tu sei”. All'inizio della razionalità moderna – “io sono”.
Ma se io sono un cogito, potrà eventualmente parermi chiaro che un essente auto-pensante "è" in quanto pensa. Però, non è per nulla chiaro che cosa ci sia poi "là fuori". Quali cose ci sono al di là della mia auto-determinatio solipsista?
Tutto qui ci riconduce alla casella zero del gioco dell'oca dell'essere. Di nuovo tutto potrebbe essere o non essere: scena di un auto-inganno, sogno di un'ombra, illusione senz'evasione e senza speranza.
Tutt'altrimenti, il punto di vista “altro” che si dà ripensando il logos che «non dice, non tace, ma significa» (DK 22, 93) – che mostra cioè una “relazione sociale”. E dentro di essa io vengo fatto “ostaggio” dal tu levinassiano, laddove però questo tu di cui sono ostaggio attua la mia evasione nell'esteriorità. E questa esteriorità in atto non può essere "sogno di un'ombra": l'impossibilità è etica. Perché negare questa esteriorità costituirebbe una minaccia assurda, una rimozione. È l'errore categoriale più fatale e il più arbitrario di tutti, in quanto vorrebbe poter disdire ciò dice e mentre lo dice. Vorrebbe, ma non può, per la contradizion che nol consente.
Inversamente, nel “tu sei” è sostanziata una promessa di mondo. Paradossale quant'altre mai, perché vincola il passante che è lì a sentirla. (3/3. Fine)
Dedicato alla cara memoria di
Ernst Erdös (Vienna, 1919 – Zurigo 1998)