martedì 7 febbraio 2017

Tu e Aristotele

di Andrea Ermano

Un contributo d’idee del direttore dell’ADL: il testo del discorso sul grande pensatore “maestro di color che sannno” tenuto il 24 maggio 2014 in lingua tedesca al Lyceum Club di Zurigo per iniziativa della Società di cultura greca Akroteama. La conferenza è stata replicata in lingua italiana il 4 dicembre 2016 al Coopi di Zurigo nell'ambito delle giornate della cultura “Zurigo in Italiano”.

  1. Aristotele

Nacque 24 secoli fa a Stagira nel 384/383 a.C. Morì 62 anni dopo, a Calcide, nel 322 a.C. Ma la sua fama non lo seguì nella tomba. Fino al 20E secolo non si contano le rivisitazioni del suo pensiero. E anche all'inizio di questo 21E secolo ricercatori di gran vaglia (Berti, Buchheim, Flashar e King) hanno esposto plausibilmente in qual modo la sua opera possa essere resa fruttuosa.

    Nel medio evo s'incominciò a guardare a lui come all'ideale di un pensatore com'è e dovrebbe essere. Egli fu per il gran padre Dante “maestro di color che sanno”. Fu la personificazione del Sapere Indiscusso, dell'ipse dixit, della "nuda autorità": sclerosi lontanissima dal suo sentire, criticata da Galilei (criticata a buon diritto, ma anche a proprio rischio e pericolo, come sappiamo).

    E bisogna immaginarsi la situazione di questo mega‑fantasma che, più di millecinquecento anni dopo la morte, occupa il centro della cultura europea, nella forma di una dominazione dai caratteri sempre più totalizzanti e ossessivi: Aristotele, il Filosofo!

Il tramandamento dei filosofi, come si sa, era stato iniziato verso la fine del 5E secolo a.C. da Socrate. Impresa che gli costò la vita. Accusato di empietà (ἀσέβεια, impïetas), Socrate venne condannato alla pena capitale. L'esecuzione ebbe luogo ad Atene nel 399 a.C. Quale alternativa ufficiosa fu offerta a Socrate la possibilità di riparare in esilio, emigrare. Vuotò il calice di cicuta che era stato condannato a bere, volendo così testimoniare il suo rispetto per le leggi della città e la sua fede per l'immortalità della Psyche. Così riferisce Platone che fu il maggior allievo di Socrate.

    Aristotele fu il più eccellente degli allievi di Platone e appartiene quindi alla terza generazione dei filosofi. Di quale tradizione stiamo parlando? Con la parola 'filosofia' intendiamo anzitutto una tradizione imperniata su un certo modo di vivere, all'interno del quale l'amore per la sapienza è posto e raccolto nel nucleo del nostro agire, laddove l'agire è la nostra vita: "La vita è un agire" (ὁ δὲ βίος πρᾶξις).

    Ma la vita, la nostra vita, è visitata da questioni sul bene sommo della vita buona e dunque sull'agire giusto che a essa dovrebbe condurre e dunque anche sul sapere veridico che a tale agire dovrebbe introdurre, rispondendo alla domanda: Che cosa devo fare per 'agire' una buona vita?

    Di qui si dipanano per noi enigmi che noi mortali (βροτοί) non riusciamo a signoreggiare. Forse perciò, in ragione di questa nostra finitudine, la filo‑sofia non intende sé stessa come una sapienza (σοφία), ma come una forma di amichevolezza verso di essa (φιλο-σοφία).

     Da Socrate, Platone e Aristotele si sono avvicendate sulla scena del mondo circa settanta generazioni di filosofi e, non dimentichiamolo, di filosofe. Questa filosofia, delle filosofe e dei filosofi, è un grande parto della grecità, nata nella dimensione aperta della Polis, del culto di Apollo, del teatro di Dioniso.

    Difficilmente potremmo immaginare oggi il nostro mondo senza questo ingrediente: la filosofia greca. Dalla logica alla matematica, fino alle arti e alle grandi religioni, dalle mille università fino al modo di pensare della maggior parte degli individui e della maggior parte delle istituzioni sul nostro pianeta: l'orizzonte degli eventi condizionati dal pensiero filosofico è immenso. Ma l'amicizia per la sapienza rappresenta una parte soltanto del lascito della grecità alla storia universale.

Già tra i dotti del mondo antico, dalla Cina alla Spagna, dall'Egitto all'Inghilterra, Aristotele era celebre. Non solo però in quanto studioso, o in quanto allievo di Platone, bensì anche in quanto maestro di Alessandro il Grande. Ecco un altro homo celeberrimus che ha esercitato un'influenza storicamente decisiva, a dir poco. L'Occidente, infatti, nel suo statuto cosmopolitico si rifà, in fin dei conti, ad Alessandro, e a lui si è sempre richiamato, esplicitamente o implicitamente, nel perseguimento di un'egemonia globale, che è poi lo specifico modo in cui l'Occidente ha inteso sé stesso. Questo vale, ovviamente, per l'Ellenismo e per Roma, vale per l'idea di Cristianità, che informa di sé il medio evo, ma vale poi anche in rapporto al dispiegamento della globalizzazione d'impronta anglosassone e nordamericana.

    Che cos'è, dunque, un impero mondiale o un'egemonia globale. Certo, non semplicemente l'effetto di una conduzione bellica molto efficace, perché ovviamente una cosa è trionfare in una guerra, o anche in molte guerre, altro è governare terre e popoli, porre in vigore leggi, riuscire ad applicarle, gestire amministrazioni, comprendere lingue e costumi, aprire strade e relazioni commerciali, fondare città, realizzare misurazioni, carte geografiche. E così via.

    Da un punto di vista macro‑storico, che ci piaccia o non ci piaccia (e a molti di noi, in effetti, questo non piace affatto), la vicenda umana appare finora caratterizzata dalla costituzione di imperi. Su questo fatto, sgradevolissimo, possiamo solo aggiungere che sono durati più a lungo e in modo più stabile quegli imperi che in qualche maniera hanno perseguito un certo grado di apertura, riconoscendo la pluralità delle culture e la libertà dei modi vivendi.

    In tal prospettiva il rapporto tra sapere e potere, tra vantaggio competitivo nel sapere e nel potere, è una chiave interpretativa del primato globale: perché la politica in grande stile, la dominazione del mondo, detta oggi anche governance, presuppone un ampliamento consistente dell'idea di ciò che è uomo, e di ciò che è mondo.

    Il vantaggio specifico della grecità quanto al sapere si chiamava: 'filosofia'. Insieme alle eccellenze che da essa derivavano nell'organizzazione delle conoscenze e delle esperienze, la filosofia fu indubbiamente una condizione di possibilità della conquista del mondo da parte di Alessandro. E l'imperatore stesso dovette esserne consapevole, giacché forniva ricco sostegno alle ricerche filosofiche, ai filosofi e, in mondo particolare, ad Aristotele  che ad Atene poté aprire il Liceo godendo dell'alta protezione del suo imperiale ex discepolo.

    Sono cose che si possono leggere, oggi, anche su Wikipedia. Ieri si trovavano in ogni manuale. Ne citerò qui uno per tutti, quello di August Messer, su cui si formarono nel primo Novecento generazioni di liceali tedeschi. Messer nota che una certa distanza insorse tra l'anziano pensatore e il giovane imperatore: «soprattutto perché Alessandro tendeva a una equiparazione, se non addirittura a una fusione, tra Greci e Asiatici, mentre Aristotele rimase sempre fedele alla concezione greco‑classica per cui tra essi si spalancava un insuperabile iato. E gli uni, i Greci, erano destinati a dominare, gli altri a servire».

    Gli uni destinati a comandare, gli altri a servire? Destinati da che? Da chi? Desidero distanziarmi. Che Aristotele abbia professato questo genere di antropologia differenziale è opinione mediamente diffusa tra gli studiosi. Ma, attenzione, per favore, in quel modo differenziale pensava forse un Aristotele cinquantenne, e anche il cinquantenne non senza ambivalenze. Non così il giovane studente immigrato, l'Aristotele diciasettenne giunto ad Atene in procinto d'iscriversi all'Accademia platonica.

    Il giovane Aristotele quanto meno al tempo della redazione delle Categorie, su cui poi tornerò, era dell'opinione che: «Un essere umano () non è in maggior misura di un altro». Dunque, il giovane Aristotele la pensava all'incirca come il giovane Alessandro, poiché  cito un altro passaggio: «Un essere umano (anthropos) non può essere né più anthropos né meno anthropos, né in rapporto a sé stesso né in rapporto a un altro anthropos». Ecco, dunque, un metro che non muta: l'anthropos?

Allorché il giovane Aristotele giunse all'Accademia di Atene, in quell'intorno temporale Platone intraprese una profonda revisione della sua Dottrina delle Idee. Su questo tema, sulla krisis platonica, sono state scritte intere biblioteche. Qui vorrei cercare di riassumere una linea di causazione che mi pare abbastanza importante.

    Secondo la prima dottrina platonica, un individuo è schiavo (δούλος) in forza della sua partecipazione all'idea dello schiavo. In questa prospettiva, a uno non capitava accidentalmente di essere schiavo, lo era invece per natura, nasceva schiavo o lo diveniva necessariamente, essendo essenzialmente “meno uomo” in rapporto, per esempio, al suo padrone. In questa logica differenziale, anche i bambini, le donne, i barbari erano considerati “meno uomini” in paragone con l'uomo ideale: il maschio adulto, aristocratico, ateniese. Così pensava Platone. E così pensò stessero le cose fino alle sue brutte esperienze siracusane, allorché lui stesso, uomo nobilissimo, venne arrestato e poi venduto e comprato in una condizione del tutto assimilabile a quella di uno schiavo.

    Che cos'è uno schiavo? Cito dal primo Libro della Politica: «Uno schiavo è una cosa animata che si possiede.» È una cosa animata. È una cosa. Ma allora chiediamoci che cos'è una “cosa”, dando finalmente inizio al gioco essenzialistico del "che cos'è questo?"

    Per esempio: questa è una cattedra. E che cos'è una cattedra? È un mobile. Ma che cos'è un mobile? È un manufatto. Che cos'è allora un manufatto? È una cosa fatta da uomini. E quindi che cos'è una “cosa”? Una cosa, alla fine dei conti, è un qualcosa che "è".

    Fine della corsa. Ricominciamo dall'altra parte. Ricominciamo dallo "è". Che cos'è "è"? Che cosa intendiamo dicendo che la stella del mattino "è" la stella della sera, cioè Venere? Che la balena "è" un sottoinsieme dell'insieme dei mammiferi? Che Aristotele "è" un elemento dell'insieme dei pensatori? Che Bob Dylan "è" pallido? Che qui "è" (c'è) un piccolo gruppo di esseri umani?

    In ognuno degli esempi citati la parola "è" assume un significato diverso: essenza definitoria, uguaglianza, inclusione, appartenenza, esistenza. A tutta questa importante gamma di significati disgiunti può rinviare la parola "è". Dunque, la parola "è" significa troppe cose. E, ad un tempo, la parola "è" significa però anche drammaticamente troppo poco. (1/3. Continua)


P.S. 2.2.2017: Per illustrare la strana situazione dell'essente in generale, per la quale esso significa essenzialmente “troppo” e “troppo poco”, ho usato esempi tratti da Günther Patzig (cioè in ultima analisi da Gottlob Frege) perché mi sembra che essi illustrino bene l'implicazione di crisi per la razionalità matematica europea. Dramma­ti­cità che – da un punto di vista platonico, metretico e politico – ritengo fosse ben presente anche ai grandi pensatori del IV secolo a.C., e ciò in conseguenza di questo eccesso-difetto ontologico, il “troppo” e il “troppo poco” in quanto dismisura 'inerente' (per così dire) all'essente stesso. Inerenza paradossale, che non può non destabilizzare ogni “giusta misura”, ogni “giusto mezzo” e persino l'Uno stesso, in quanto “misura esattissima”. Dopodiché sia l'Uno sia l'essente, per Aristotele, dovranno dirsi “in molti modi”. Probabilmente, quasi certamente, non abbiamo ancora finito di pensare le conseguenze di questo 'discernimento' aristotelico della pluralità nell’essente e nell’uno.