Riflessioni sulle novità sceniche portate sul palco dal regista zurighese Dieter Kaegi per Rigoletto, viste nell’ottica dei mutamenti epocali che hanno investito l’arte e la Storia.
di Giuseppe Muscardini *)
Le tragiche melodie del duetto finale del Rigoletto, epilogo infelice di fatti terribili accaduti alla Corte di Mantova, evocano le prime sequenze del film Novecento di Bernardo Bertolucci. Durante la lavorazione del film, nel 1976, il regista parmense decise di ricorrere alle note verdiane per solennizzare la nascita di due bambini, l’uno nella casa del facoltoso proprietario terriero, l’altro negli umili spazi dell’abitazione del mezzadro, dove gioisce l’intera famiglia patriarcale.
Quelle note sono entrate così a far parte della colonna sonora di un film che meglio di altri evidenzia i soprusi ai danni di una classe sociale umiliata ma proprio per questo in rivolta, come ci racconta in effigie Giuseppe Pellizza da Volpedo nel celebre dipinto Il Quarto Stato, conosciuto anche per la precedente e profetica intitolazione de Il cammino dei lavoratori, e prima ancora come Fiumana. Il libretto originale del Rigoletto narra invece degli infami raggiri di cui è vittima un buffone di Corte che perde l’amata figlia per la perfidia di un gruppo di nobili annoiati.
Un’efficace versione dei fatti musicati da Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, ci viene in questi giorni dal regista zurighese Dieter Kaegi, che ha saputo portare in scena il melodramma in tre atti servendosi di suggestive scenografie virtuali. Frutto di attenti studi di arte scenica, le alterne situazioni che si susseguono sul palco colpiscono lo spettatore per la rapidità con cui l’ambiente si trasforma, grazie alla proiezione su invisibili schermi degli sfondi davanti ai quali i molti personaggi si muovono o si dibattono.
Con questa innovativa scenografia e la cura esecutiva dei valenti musicisti dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza diretta da Giancarlo De Lorenzo, nel corso del 2009 Dieter Kaegi farà conoscere il suo Rigoletto ai frequentatori del Teatro Comunale di Vicenza e del Teatro del Giglio di Lucca, dopo la “prima” al Teatro Sociale di Rovigo del 3 aprile scorso.
L’entusiasmo del pubblico rodigino, che ha lungamente applaudito il baritono Silvio Zanon nel ruolo di Rigoletto e il soprano Anna Guarnieri, interprete di Gilda, lascia ben sperare in un nuovo successo di questa operazione culturale dove la resa scenografica gioca un ruolo non secondario. Sono convinto che Verdi sarebbe stato lieto, se non entusiasta, di utilizzare tutte le innovazioni tecnologiche che avesse avuto a disposizione, e che avrebbe sfruttato ogni possibilità per permettere ai personaggi delle sue opere di esprimersi appieno nel loro contesto con una “mobilità” senza precedenti, ribadisce Piero Mioli, docente di Storia ed Estetica musicale, dalle pagine dell’utilissimo libretto distribuito a quanti erano presenti alla “prima” del 3 aprile. E se questa convinzione a prima vista ci sembra un poco forzata o quantomeno fantasiosa, la perplessità va gradualmente scemando rimpiazzata dai fatti.
Il pubblico è testimone delle buone risultanze del nuovo impianto scenico, che si avvale della più moderna tecnologia per suggerire ambientazioni in cui lo spettatore può calarsi con maggiore immediatezza, fruendo così pienamente della vicenda, del modo di cantarla e di interpretarla. Con la regia di Dieter Kaegi, il Rigoletto di Giuseppe Verdi si appropria di valenze psicologiche in grado di provocare nello spettatore il piacere di immergersi in ambientazioni ancor più persuasive, dove tutto si svolge senza pause e in assenza di cambiamenti fuorvianti.
Anche i melomani più tradizionalisti e intransigenti, aprendosi al nuovo, incontreranno facilità nel seguire le tristi vicissitudini di Rigoletto, specie nell’ultima scena, quando, irradiato dalle luci intermittenti (e virtuali) di un temporale in dissolvenza, invoca con strazio il nome della figlia morente: Mia colomba, lasciarmi non déi! / Se t’involi, qui sol rimarrei. / Non morire, o ch’io teco morrò! / Oh, mia figlia! Oh, mia Gilda! Per poi cadere sul corpo della figlia, strappandosi i capelli. Nessuno fra il pubblico della “prima”, imitando il protagonista, è uscito dal teatro facendo altrettanto. Al massimo qualcuno avrà scosso la testa sdegnato, ma in generale ha prevalso la soddisfazione di aver assistito, restando nella tradizione lirica, ad una validissima novità scenica.
Del resto, non era forse una novità scenica anche quella a cui aderì il già nominato Giuseppe Pellizza da Volpedo dipingendo Il Quarto Stato, esempio di pointillisme inaugurato dal Divisionismo, che in pittura consentiva di riprodurre le addizioni di luce con una separazione minuta delle tinte complementari? Non era una novità comparabile a quella scenico-virtuale anche il gioco di luci sugli abiti dei contadini e delle donne in primo piano, con le tenui pennellate di bianco e di rosa? All’epoca nessuno si scandalizzò. A parte qualche conservatore e qualche agrario, che si sentirono minacciati dall’avanzare della gran fiumana di contadini ed operai, fieri e compatti. Ma era per altri motivi, non certo per l’evolversi delle tecniche pittoriche.
*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara dove lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica. Narratore e saggista, collabora con "Nuova Antologia", "Belfagor" e molte altre testate italiane e internazionali. È membro attivo della "Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati" (Verband Schweizer Fachjournalisten - SFJ). Per le Edizioni dell'ADL ha pubblicato L'Empietà di Marte - Elogio dei giovani che ripudiano la guerra (Zurigo, 2007).