martedì 24 settembre 2013

Storia controfattualee dissoluzioni politiche

Le idee  

Era l’epoca dell’Ungheria, quando i carri armati sovietici puntarono su Budapest per soffocare il nuovo corso politico che operai e studenti volevano dare al proprio paese sottraendolo al ruolo di satellite dell’Unione sovietica. . .

di Fulvio Papi *)             

In una storia controfattuale del nostro paese – storia controfattuale che poi è il solo modo per provare un giudizio sui fatti  “oggettivi” – credo che l’autunno del 1956 sia un tempo cruciale. Era l’epoca dell’Ungheria quando i carri armati sovietici puntarono su Budapest per soffocare il nuovo corso politico che operai e studenti volevano dare al proprio paese sottraendolo al ruolo di satellite dell’Unione sovietica. Nell’allora partito socialista non fu particolarmente difficile prendere la posizione corretta che vedeva nell’azione militare sovietica la decisione di una potenza che, negli equilibri internazionali, voleva mantenere il proprio ruolo impedendo qualsiasi mutamento di questa prospettiva. La liberazione degli ungheresi da una dittatura criminale, mimetica degli anni più celebri di Stalin prima della guerra mondiale, in questo contesto, per il PCI era un nulla storico, un inciampo, una difficoltà. Basta ricordare il lessico di Togliatti sino alla uccisione di Nagy. Nell’area socialista cui appartenevo socialismo e libertà erano inscindibili, e, finalmente, l’antica menzogna (cosa che capita quando la prassi immagina di volere e potere tradurre i libri nel mondo) secondo cui una ferrea dittatura era la strada obbligata per la costruzione di una vera libertà sociale, si mostrava per quello che era. Perché poi la rivoluzione dei soldati e degli operai del 1917 fosse divenuta l’occasione per uno stato burocratico e poliziesco, è una storia ormai troppo nota per doverne parlare ancora. Per quanto riguarda la nostra storia i “fatti di Ungheria” furono molto importanti. Il partito comunista che dal ’48 esercitava a sinistra una funzione egemone, prese una posizione del tutto favorevole all’intervento sovietico, quindi vergognosa e infame per tutto il gruppo dirigente, nutrita di menzogne, posizione che, come si sa, gli costò una certa emorragia di iscritti e di intellettuali, ma che, nel complesso fu ampiamente maggioritaria tra gli iscritti al partito e i suoi simpatizzanti. Una controstoria si domanda: quale sarebbe stata la condizione politica e culturale di tutta la sinistra italiana se il partito comunista avesse capito gli eventi per quello che erano? Domanda in fondo futile, poiché si può comprendere solo se la comprensione è possibile nel nostro modo di essere.

    E la dirigenza comunista, quella storica a cui apparteneva Togliatti con la sua ossequienza ai dirigenti sovietici e quella formatasi tra il 1943 e il dopoguerra, avevano la loro identità in una storia ideologica molto semplice che vedeva nell’Unione Sovietica la guida ideale e politica (le posizioni originali di Gramsci imprigionato dai fascisti sono elementi che appartengono alla nostra “conoscenza”, a sua volta resa possibile da una radicalmente mutata condizione storica).

    E non è però da credere che questa storia comunista fosse solo un sapere di vertici, omogenei e intossicati politicamente, essa costituiva una autentica mitologia popolare che aveva la forza di costituire una relazione tra  un “noi” e un “loro”. Ogni notizia che fosse contraria alla volgata era ritenuta aggressiva propaganda capitalista, non meno di quanto i capitalisti americani, nella crisi degli anni Trenta, chiamavano “propaganda russa” i disastri economici e sociali del loro paese. Il problema per il partito comunista era comprendere se stesso, la propria storia, l’apparato mitologico diffuso e quindi la simbologia della propria stessa forza sociale. Devo dire, privo oggi di qualsiasi poco decente aggressività, che quando veementi personaggi della storia comunista dicono “avevo sbagliato”,  questa autocritica conta molto poco, o quasi niente perché traduce il senso storico in una narrazione personale. Quello che conta è piuttosto la condizione storica e ideologica che il partito comunista, del tutto al di là delle sue pratiche positive, riformistiche o solo civili nel territorio del paese, proiettava come propria identità e quindi come luogo di fedeltà e di impegno personale. Non era cosa da poco dire a milioni di uomini “sei in una storia”, “adesso devi la tua abnegazione”. Non vorrei proprio dimenticare due  punti importanti:  1) il clima pericoloso della guerra fredda di cui l’Italia è stata vittima storica; 2) la più che modesta elaborazione della critica radicale a Stalin che era  nata nel partito sovietico come necessaria conoscenza della verità. Il partito comunista, per usare un’espressione un poco ridondante, era prigioniero della sua autobiografia che, a essere schietti, si poteva leggere con facilità nello stesso lessico delle sue forme di comunicazione. E, caso minore, ma interessante: non diceva niente il fatto che i “filosofi marxisti” erano per lo più diligenti storici della filosofia che avevano poco da spartire con i marxisti “privi di cattedra” che trovavano la loro elaborazione intellettuale a fianco del loro lavoro politico? La verità era la comune credenza che aveva la sua sostanzializzazione nel partito, il resto era una più che onesta e operosa – e anche un poco cieca – attività storiografica (la contemporaneità del mito degli intellettuali).

    La nostra controstoria si trova dunque sbarrata: è solo pura immaginazione pensare a un PCI autocritico (l’unico modo per capire l’Ungheria) che mettesse in questione la propria identità dal 1921, la propria dipendenza internazionalista dal gruppo dirigente sovietico, la condivisione delle decisioni più nefaste e infine, la propria positiva identità di massa, nel rispetto della costituzione e, sotto questo profilo, il proprio peso nell’opinione di sinistra. Certo  se con l’Ungheria fosse stato possibile un ripensamento complessivo di tutta questa, in un certo senso, straordinaria vicenda, sarebbe possibile parlare di una occasione storica perduta. Ma “così va il mondo”, diceva il sommo filosofo che notava come necessità e libertà nell’effettualità coincidevano. Il che può condurre all’insegnamento alla concretezza, ma anche all’accettazione di inaudite violenze.

    Dunque lascio perdere “l’occasione storica mancata” dal 1956, e inseguo invece un vizio robusto e con poche possibilità di essere sconfitto che è rimasto nella esperienza identitaria dei “comunisti”, a qualsiasi diaspora possano appartenere, da quella – raffinata ed elegante – della opposizione, un poco onirica, di sinistra, sino alle frange – non poche – che di fronte a una realtà che prosciugava l’antico fiume ideologico, si reincarnava, senza capire quasi niente, nel neo-liberismo, nelle privatizzazioni, in un clima di una assoluta povertà teorica che pareva, emotivamente, una resurrezione da un peccato originale. Il vizio comune, specie a livello della memoria dei più anziani politici e del pubblicismo corrente, é il considerare la storia della sinistra storica in Italia come se fosse pienamente identificabile con la storia del partito comunista, come fosse a sua volta una storia simile a una “generazione spontanea”. Si potrebbe dire che in questo caso ci troviamo di fronte a quell’idealismo privo di autoriflessione che appartiene a tutte le storie che devono incarnare il passato per qualche strategia che interessa fuori misura il presente. Ma qui, secondo il mio parere siamo di fronte  a una vera occasione mancata dal partito comunista. Siamo all’inizio degli anni Sessanta: la società italiana mostra i primi effetti di una espansione economica, e veniva coniato (adesso è inutile discutere la cosa in teoria) il termine “neocapitalismo”.

    Il problema visto da una sinistra non paralizzata dal proprio specchio tradizionale, voleva dire che non si poteva più guardare alla classe operaia come a un corpo sociale estraneo alle trasformazioni che in qualche misura toccavano l’insieme della vita collettiva, i desideri, le aspirazioni, e contemporaneamente, le relazioni, con il rischio della “omologazione” del potenziale politico del movimento operaio al nuovo costume sociale in ascesa. Questa considerazione apriva uno spazio politico all’interno della ritrovata autonomia politica del partito socialista. Era necessario valorizzare l’insieme delle istituzioni democratiche come veicolo per quelle riforme economiche e sociali che, alla fine, costituivano il concreto obiettivo anche del partito comunista, al di là degli echi (che ancora erano udibili) delle più antiche letture di “Stato e rivoluzione” di Lenin. A livello politico il quadro mostrava la possibilità di una convergenza tra il partito socialista e una parte (fieramente contestata da suoi oppositori interni) della democrazia cristiana. Fu il tempo, nel 1962 delle due grandi riforme – la nazionalizzazione della produzione dell’energia elettrica (per la verità con un notevolissimo esborso ai privati) e la riforma della scuola media, da anni eguale da come l’aveva designata  Bottai. Erano proprio queste realizzazioni che aprivano l’orizzonte “riformistico” del centro-sinistra politico. All’interno del partito socialista fu la componente di Riccardo Lombardi a interpretare questa possibilità di grandi riforme democratiche come l’obiettivo del partito socialista. Fu una prospettiva  che rivitalizzò il partito e la sua area di consenso intellettuale. Giovanni Pieraccini, che fu un non grandioso direttore dell’Avanti! in tempi precedenti, ha sostenuto in un suo libro recente che i “lombardiani” che erano una minoranza in un partito che toccava a stento il 14% del consenso elettorale, volevano abbattere il capitalismo in Italia. E’ solo una battuta di chi, al tempo, fece la sua scelta. Il fatto storico fu invece tutt’altro: le forze sociali che da sempre condizionavano in modo conservatore la democrazia cristiana si schierarono radicalmente contro questa nascente prospettiva, contro cui si mobilitava addirittura il pericolo di un colpo di stato. Non desidero entrare qui in particolari interpretativi della famosa estate del ’64, ma nell’essenziale la situazione si presentò così: la democrazia cristiana era favorevole alla prosecuzione del rapporto di governo con il partito socialista a patto che venisse accantonata, rinviata e elusa la prospettiva delle riforme democratiche che due anni avanti si erano positivamente presentate. Le riforme furono infatti accantonate, e in un drammatico comitato centrale, Riccardo Lombardi in modo comprensibilmente melodrammatico, disse che il partito consegnava su un vassoio d’argento alla democrazia cristiana la testa del direttore dell’Avanti!. Ovviamente, se pure di una ben minuscola proporzione, saltava anche la mia che avevo lasciato (provvisoriamente) la cura universitaria e filosofica, per assumere, con Lombardi, la vice-direzione del giornale, affascinato dalle nuove possibilità politiche che si erano aperte nell’aurora del centro sinistra. La realtà storica è che “noi” eravamo soli.  Quale fosse l’umore per lo meno prevalente nel partito lo capii subito quando tornando al giornale dopo la conclusione del famoso comitato centrale, non trovai che un paio di redattori, mentre tutti gli altri erano andati a festeggiare la “governabilità” del paese in una alleanza senza riforme del partito con la democrazia cristiana. Era la strada delle speranze personali per  un futuro soprattutto economico che avrebbe dato prospettive più facili: spuntava il sole donativo del sottogoverno. Non so ovviamente se questo fosse il disegno di tutti, tanto più che il prestigio di Nenni nel partito era molto rilevante, e quindi un poco ovvia la condivisione delle sue decisioni. Ma non mi dispiace ricordare che molti anni dopo, e poco prima della sua scomparsa Nenni disse, in un discorso a Milano, che il partito si stava trasformando in un partito di assessori. Il tempo tra questa orazione di Nenni e quello dell’estate del ’64 mostrò una progressiva trasformazione del partito socialista che ebbe il suo ciclo purtroppo definitivo nel 1976 quando, come ha scritto Giunio Luzzatto, il partito fu considerato un fine di per se stesso e non un mezzo di azione politica. Ero già lontano da tutto questo, e non ho l’informazione storica sufficiente per un giudizio maturo che tenga conto non solo della vita dei partiti, ma dell’insieme delle trasformazioni dell’economia e della società italiana.

    Vorrei tornare invece al ’62-’64 e al mio sintagma “eravamo una minoranza e siamo stati lasciati soli”- Credo che il partito comunista avrebbe dovuto appoggiare senza riserva quella che era allora la vera e possibile prospettiva riformista della società italiana. Se lo avesse fatto senza riserve, nello spazio della sinistra saremmo stati una fortissima maggioranza. Nessuno sa che cosa sarebbe successo. Quello che si può sapere è che il partito comunista avrebbe potuto cogliere un’occasione storica per prendere a livello nazionale una linea apertamente riformista con il prestigio e la forza che ancora manteneva nel tessuto sociale italiano. Non dico che avremmo fatto le riforme che avevamo in mente, ma il PCI avrebbe creato un equilibrio politico nazionale molto differente da quello che è stato, e probabilmente ciò non  avvenuto a causa di una ostinata visione autoreferenziale dei comunisti che aveva il solo vantaggio di giocare una posizione egemonica a sinistra. Per fare che cosa? La sterilità di questa posizione andò malauguratamente a pari passo a quella visione scotomizzata per cui tutta la storia della sinistra italiana è la storia del partito comunista. E credo sia stata proprio questa distorsione a portare il partito a una progressiva serie di metamorfosi nominalistiche sostanzialmente succube, come a scontare una colpa originaria, del famoso “pensiero unico” come rivelazione concreta dopo la lunga notte ideologica. Al contrario vi erano probabilmente le condizioni teoriche, etiche e storiche per mantenere il meglio della propria opera in una nuova identità politica (di cui il modello europeo non è mai venuto meno) che tenesse conto delle prospettive che la politica del partito, a suo tempo, aveva ignorato, messo in ombra o anche combattuto.

    L’apertura all’”altro” sarebbe stata più importante dell’autogenesi nominalistica priva di un proprio orizzonte culturale, e destinata all’importazione di saperi estranei senza un qualsiasi filtro critico (che pure esisteva nella nostra cultura, positivo ed estraneo a qualsiasi sognante radicalismo).

    Questa è certamente storia controfattuale, è quindi giudizio. Che vale solo se favorisce qualche riflessione, anche se è difficile, nella attuale condizione del ceto politico che tuttavia ha tutt’altre regole di conduzione.

 

*) Fulvio Papi (1930), professore emerito dell’Università di Pavia, insignito dell'Ambrogino d'oro della Città di Milano, è stato vicedirettore dell’Avanti! (1963-1964). Con Vegetti, Alessio e Fabietti, ha curato per Zanichelli “Filosofie e società”, manuale di filosofia per i licei. Tra le pubblicazioni più recenti: Capire la filosofia (Ibis 2008), Figure del tempo (Mimesis 2002), Filosofia e architettura – Kant, Hegel, Valéry, Heidegger, Derrida – Per una riflessione filosofica sulle forme architettoniche (Ibis 2000).