Due vite per una impresa comune: capire e farsi capire
di Yukari Saito *)
E' difficile rendere in parole l'emozione di trovarmi qui al Ristorante il Cooperativo, dopo averlo immaginato e fantasticato per più di 20 anni sin da quando lo lessi in Una famiglia italiana di Franca Magnani (Feltrinelli,1991).
Una famiglia italiana è stato uno dei libri che mi hanno cambiato la vita: preso in mano - un po' per caso - dagli scaffali di novità in una libreria torinese esso mi introdusse nell'Italia e tra gli italiani che allora ignoravo. Erano gli anni della tangentopoli. Le vicende mi avevano profondamente delusa e amareggiata a tal punto da farmi sentire pronta a cambiare il paese dove vivere; ma, i personaggi di Una famiglia italiana mi fecero accorgere che stavo per buttare via il bambino con l'acqua sporca. Divorai decine di libri di storia e degli scritti delle persone che circondavano la famiglia Schiavetti-Magnani. L'incontro con quest'opera diede, dunque, inizio non solo al mio lavoro di traduttrice bensì al percorso di studio e di riflessioni.
E vari angoli di Zurigo e della Svizzera sono diventati man mano luoghi “familiari” nella mia mente perché grazie alla Magnani scoprii Ignazio Silone. Silone rappresenta, in un certo senso, il “bambino” nell'acqua sporca che rischiò di essere buttato via. Incuriosita soprattutto dall'epigrafe a Una famiglia italiana, cioè “i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza erano la mia sola forza, perché in essi era la riserva morale e direi anche religiosa con la quale affrontare le avversità della vita”, cominciai la lettura delle sue opere in ordine cronologico finendo per tuffarmi nel suo mondo. Per me fu un'esperienza davvero unica. Nelle sue opere trovai una verbalizzazione concreta dei vari sentimenti con cui vivevo da anni, come dire, un ritrovamento inaspettato della mia propria radice spirituale più profonda e recondita. Forse detto così per bocca di una giapponese potrebbe suonarvi bizzarro vista la mia provenienza da una area culturale assai distante a parte il mio background personale molto differente rispetto a quello dell'autore di Fontamara. Ma, nessuno scrittore prima di Silone aveva potuto farmi capire le ragioni delle mie inquietudini o dei disagio esistenziale che risalgono all'infanzia. E la lettura delle sue opere mi diede - e continua a darmi ancora oggi - un enorme aiuto a ricuperare la fiducia nell'umanità e anche a trovare un delicato equilibrio nella dicotomia tra l'arte e la politica che mi tormentava da sempre.
Ed è grazie a lui che conobbi un'altra persona eccezionale: Luce d'Eramo e questa volta l'incontro avvenne con la persona in carne e ossa.
Non so quanti di voi abbiano letto i romanzi di Luce d'Eramo, quindi, mi perdonerete se riporto una lunga citazione per delineare la sua figura. Si tratta di un testo non molto diffuso scritto da Iaia Caputo all'inizio di una intervista alla scrittrice (edita nel volume Conversazioni di fine secolo, La Tartaruga Edizioni, 1995).
Luce d'Eramo è nella cultura italiana quello che Simone Weil è stata per alcuni decenni in quella francese: una figura sospesa tra l'ombra e la luce. Quasi un rimosso, nonostante la grandezza. Due eretiche, Simone e Luce. Ribelli, che ancora prima di conoscere l'irriconoscenza dei propri contemporanei, hanno in comune la storia personale: quella di un pensiero irriducibilmente legato all'esperienza. Operaia in un'officina meccanica la Weil, volontaria in un campo di lavoro nazista la d'Eramo. Combattente nella guerra civile spagnola e poi nella Resistenza italiana Simone, internata in un campo di concentramento in Germania Luce. Entrambe si sono portate sul corpo le ferite di quell'ansia febbricitante e indomita di voler capire. A partire da sé, senza sconti né scorciatoie. E a entrambe la cultura del tempo non ha perdonato la libertà assoluta del pensiero e delle scelte, la non appartenenza ai sacrari dell'epoca. A Simone Weil, i comunisti non perdonarono mai la sua critica al marxismo, e gli ebrei la sua simpatia per il Cristianesimo. A Luce d'Eramo, “figlia del fascismo”, il suo ambiente non perdonò la terribile disubbidienza di aver voluto vedere con i propri occhi l'orrore del lager, e i comunisti, al suo ritorno, di esserci andata da volontaria. Non a caso Luce viene scoperta come scrittrice da Ignazio Silone, l'altro grande eretico, scandalosamente rimosso anche lui, dalla cultura italiana del dopoguerra. E l'amicizia tra la d'Eramo e Silone è qualcosa di più di un legame di stima e di affetto: è uno straordinario sodalizio intellettuale tra “diversi”, un'intesa profonda dalla quale nascono epistolari, studi (L'opera di Ignazio Silone: saggio critico e guida bibliografica), e certamente anche Deviazione, il romanzo di Luce apparso molti anni dopo, fu almeno in parte “nutrito” dal coraggio intellettuale di Silone.
E oggi io sono qui per parlarvi proprio di Luce d'Eramo e del suo “straordinario sodalizio” con Silone attraverso questa nuova pubblicazione: Ignazio Silone di Luce d'Eramo che raccoglie i principali saggi della d'Eramo sullo scrittore oltre alla famosa Opera, pubblicata dalla Mondadori nel 1971. Il volume è arricchito da: una lunga intervista a Daniella Ambrosino, saggista che ha conosciuto da vicino entrambi gli scrittori perché aveva fatto da assistente alla d'Eramo mentre preparava L'opera; un testo inedito di presentazione del volume mondadoriana preparata dall'autrice stessa alcuni mesi dopo la pubblicazione che replica alle diverse critiche ricevute e dà una spiegazione esaustiva al proprio metodo di ricerca; e infine un importante carteggio tra i due composto da 65 lettere di Silone alla d'Eramo e, purtroppo, solo 5 minute delle lettere di lei allo scrittore, le uniche rintracciate. Il volume è accompagnato anche da due indici, uno dei nomi e l'altro analitico, che comprende una lunga lista dei periodici, italiani e non, che hanno trattato le opere siloniane.
Come è stato giustamente descritto da Iaia Caputo, Luce d'Eramo e Ignazio Silone sono due “diversi”, “eretici” nel mondo letterario italiano e per questo rimasero misconosciuti dai contemporanei (e restano tali ancora oggi). Non metto in dubbio che questa loro condizione abbia stimolato la stima reciproca e l'amicizia tra i due sviluppandole nello “straordinario sodalizio intellettuale”.
Eppure, credo sia altrettanto importante ribadire una notevole diversità che esiste tra i due personaggi.
Silone fu, come sapete bene, figlio di un contadino proprietario di un piccolo terreno e visse l'infanzia in un ambiente familiare sereno e capace di dargli una solida base morale finché non lo lasciò orfano. D'Eramo, nata in Francia cresciuta a Parigi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, apparteneva, invece, a una famiglia italiana benestante e istruita con una mentalità tipica di alta borghesia e di cittadina (nel senso opposto dei “cafoni” siloniani), senza parlare della devozione al fascismo sin dai primi tempi dei genitori. L'infanzia della Luce non sembrerebbe così serena come quella del piccolo Secondino. I disagi nell'ambito familiare per Luce si manifestarono sin da piccolissima e la sua maturazione umana e intellettuale si compie attraverso il distacco morale drammatico e doloroso dalla famiglia d'origine.
Sia Silone sia d'Eramo ebbero una coscienza politico-sociale molto precoce; entrambi furono spinti forse da un desiderio più o meno simile, cioè quello di condividere le sorti dei prossimi meno fortunati di loro; tuttavia, scelsero due strade praticamente opposte anche a causa della differenza di generazioni a cui appartenevano: l'uno diventò socialista poi comunista mentre l'altra fu attratta dalla divisa fascista che ai suoi occhi sembrava aiutasse a “eliminare le differenze di classe”.
E anche da adulti e persino negli anni in cui si frequentavano si notano ancora non poche differenze di carattere e di attitudine.
Daniella Ambrosino nell'intervista raccolta nel nuovo volume parla, infatti, della differenza di temperamento e riconosce loro “sia degli aspetti in comune sia dei lati profondamente diversi, per cui invece erano complementari”. E nel carteggio assistiamo al dialogo durato quasi 14 anni dove si emerge un processo del loro avvicinamento. Nelle lettere spiccano la pazienza e la lealtà di Silone nel farle capire la propria opera e la perseveranza della d'Eramo nell'esaminarla e comprenderla. In altre parole, credo che la loro affinità sia almeno per una parte cosa “conquistata”, frutto di un confronto straordinariamente serio.
La serietà, appunto. Questa caratteristica del loro rapporto sia interpersonale sia nei confronti dell'opera letteraria è una cosa che mi ha colpito in un modo particolare. Essa mi ricordava subito un passo del libro della Magnani:
Quella domanda "ma tu conosci Silone?" mi veniva posta sempre più frequentemente. ...
"Un buon segno," commentavano i miei che mal sopportavano il cliché risultante dall'idea che molti avevano allora degli italiani: simpatici ma poco seri, allegri ma superficiali svegli e intuitivi ma furbastri e in generale poco inclini all'introspezione, buoni parlatori ma retorici. Non che fossero tutte balle, diceva il babbo, anzi - proprio l'azione esercitata dal fascismo contribuiva a tirar fuori questi difetti nazionali, li esaltava, li diffondeva. (pp. 96-7 edizione Universale economica)
A parer mio, sono state proprio questa serietà e la non-superficialità che i due scrittori hanno dimostrato nel capire e far capire a fungere da fermenti per la loro amicizia: fu questa affinità che rese possibile una simbiosi letteraria.
D'altronde si sa che per entrambi “capire” e “farsi capire” hanno sempre costituito una ragion di vivere e di scrivere.
Silone ripeteva spesso “se ho scritto dei libri, è per cercare di capire e far capire” mentre faceva dichiarare da Tommaso il Cinico de La scuola dei dittatori che “non ho mai lottato per il potere, ma per capire”, una posizione ribadita diverse volte anche negli scritti autobiografici.
Luce d'Eramo dal canto suo racconta in Io sono un'aliena, (Edizioni Lavoro, 1999): "Ho pensato che scrivevo per far partecipi gli altri di ciò che capivo (che m'avevano insegnato le mie esperienze), di ciò che credevo di vedere e gli altri non vedevano o non mi mostravano o mi nascondevano: rappresentare l'invisibile, questo era il mio desiderio. ... Poi mi sono detta che scrivevo perché con le parole ero libera. E poi ancora perché per scrivere ci vuole una solitudine di fondo e io l'ho sempre avuta. La solitudine che per me non è una privazione, un sentirsi respinti: no, è uno sprofondamento in cui si riesce ad assorbire meglio la realtà, come un immergersi di nascosto, per osservare non visti, per conoscere e dunque, paradossalmente, per stare insieme. Lo scrivere storie è un solitario stare assieme agli altri (liberatisi in personaggi) senza dare loro impiccio. ... ad un certo punto sono arrivata a dire che scrivevo per comunicare, poi per capire e ancora perché non capivo e volevo dipanare la grande confusione che avevo in testa”.
Chiudo con quest'altra lunga citazione sperando che possa suscitare in voi la voglia di leggere non solo questo Ignazio Silone (Castelvecchi, 2014) bensì le opere di Luce d'Eramo, Deviazione (che risale al 1979 ma è ora ristampata da Feltrinelli) in particolare, ma magari anche Partiranno (Mondadori, 1986) e Ultima luna (Mondadori, 1993) nonché Tutti i racconti editi postumi dall'Elliot (2013).
*) Yukari Saito, traduttrice e lettrice di giapponese presso il Centro Linguistico dell'Università di Pisa, è impegnata sulle tematiche sociali, ambientali, della pace e dei diritti umani, tematiche su cui nel 2006 ha fondato a Pisa il Centro di documentazione “Semi sotto la neve”, con denominazione ispirata a un celebre romanzo siloniano. Di Silone ha tradotto Vino e pane (Hakusuisha, Tokyo, 2000) e La scuola dei dittatori (Iwanami shoten, Tokyo, 2002), dopo aver fatto conoscere al pubblico nipponico Una famiglia italiana di Franca Magnani (Asahi Shimbun, Tokyo, 1992). Recentemente ha curato Ignazio Silone (Castelvecchi, Roma, 2014, pp. 762), opera in cui sono raccolti e compendiati in unico volume i principali saggi di Luce d'Eramo sullo scrittore marsicano nonché il carteggio d’Eramo-Silone. Il testo qui sopra riportato appartiene alla relazione tenuta dalla studiosa al convegno "Tre libri nuovi" che ha avuto luogo al Cooperativo di Zurigo il 29 giugno scorso. Ringraziamo l'autrice per la gentile concessione.