giovedì 2 aprile 2009

Lo spazio come bene comune

Dalla Fondazione Diamante di Lugano riceviamo e volentieri pubblichiamo.

di Nicola Emery *)

Qualche settimana fa le pagine di cronache di Repubblica riportavano questa notizia:  "Roma: Pensionato pestato da tre baby bulli. L’ anziano era colpevole di passare sul loro marciapiede. E’ nostro e tu non passi".

    E lo aggrediscono con varie lesioni.
    Un episodio come tanti altri , un momento di cronaca che avrebbe potuto avere per teatro un altro luogo all’ interno della città generica contemporanea, indubbiamente anche in Lombardia e in Ticino.

    Proprio per questo, credo siano episodi significativi di una tendenza in atto in molti ambiti: il venir meno della differenza fra pubblico e privato a favore di una unilaterale espansione del privato.

    Il marciapiede è nostro e tu non passi. Proprietà privata piena,"quiritaria" direbbero gli storici del diritto, non gravata da alcuna servitù.

    Delirio del possesso, dove delirare etimologicamente significa appunto andare al di là dei limiti, ossia aggressività territoriale di una soggettività proprietaria che non riconosce più i suoi limiti. E i suoi legami con il tessuto collettivo.

    "E’ nostro e tu non passi" urlano i tre bulli in faccia all’ anziano.
    Ma come sapeva Platone, l’ anima e l’ambiente di vita, l’anima e la città, , psiche e polis, presentano sempre un ‘isomorfismo, ovvero studiando lo stato dell’ una , conosci anche la condizione dell’ altra .

    Il delirio dell’ una esprime e coincide allora con il delirio dell’ altra.
    Lo spazio qui è sentito- sentito nel profondo- come una merce.
    La città come aggregato di proprietà da conquistare, da privatizzare, senza più nulla di comune, nemmeno il marciapiede. Il presupposto concettuale- che è al tempo stesso la legge del nostro spazio fisico - è questo : spazio = merce da appropriarsi.

    Qualcosa di cui ci si può appropriare vuoi con la violenza più bruta, vuoi anche con l’astuzia che sa dissimulare la violenza e la sublima in altri termini, fra cui quelli della speculazione.

    E nel dominio assoluto dell’ economia e del concetto di merce ognuno di noi pensa se stesso in termini individuali, individualistici. Non è solo il declino dell’ uomo pubblico ( Sennet) , ma è anche la perdita della funzione trascendente di cui ha parlato Jung per indicare la relazione necessaria fra l’inconscio personale e quello collettivo, per parlare insomma dello spazio dell’ anima. La perdita dello spazio comune la si paga appunto con il disagio, l’arroganza, la paura.

    Ne vengono fuori dei soggetti confinati in un’idea di individuo e persona che di fatto costituisce una mistificazione rispetto al nodo con l’altro che in realtà ci costituisce fin nell’ inconscio.

    Nel loro delirio questi giovani hanno comunque sentito che i marciapiedi sono elementi importanti del rapporto pubblico-privato e visto che nello spazio della città esplosa contemporanea- in questo spazio spazzatura, Junkspace, come lo chiama Rem Koohlas- i marciapiedi sono una sorta di optional, qualcosa di accidentale , rispetto all’’ essenziale riservato al traffico-essi in fondo annettendo al loro capitale simbolico i marciapiedi, negandoli, non fanno altro che portare alle sue conseguenze la logica stessa dello spazio contemporaneo, che, se lasciata a se stessa, è una logica ispirata all’ assolutismo della proprietà.

    Personalmente credo che episodi estremi come questi- che di fatto formano la nostra cronaca e insomma la nostra realtà- sono rivelativi di tendenze profonde, di una trasformazione delle strutture concettuali .

    La differenza fra lo spazio pubblico e quello privato non è più sentita come una differenza di natura- filosoficamente direi una differenza di statuto ontologico- ma è vista soltanto come una differenza di grado, una differenza dunque del tutto instabile, precaria , quasi appesa anch’essa( come la vita di non pochi giovani e non solo giovani) a un contratto a termine. Procedo facendo un altro concretissimo esempio. Qualche giorno fa leggo sul medesimo quotidiano:  "Le fogne della suocera . Ultima missione di Sarkò.  Sarkozy Interviene nella battaglia condominiale".

    Sembra una fiction irriverente e paradossale, ma è proprio la realtà contemporanea ! La notizia è semplice : la suocera del presidente francese ha una villa su un promontorio privato e i comproprietari dello stesso non si accordano sulla realizzazione delle fogne che dovrebbero servire le loro abitazioni. L’ uomo pubblico per eccellenza , il primo cittadino, interviene per risolvere la faccenda e pare che in vista ci siano anche contributi pubblici". Il che significa che anche lui disconosce una differenza sostanziale, quella fra faccende privati( spazi privati) e ruolo pubblico, e mette al servizio del suolo privato la sua potenza pubblica.

    Da un punto di vista concettuale lo spazio, tutto lo spazio, qu ( e non intendo dire solo in costa azzurra, ma intendo riferirmi alla condizione contemporanea che è anche nostra) è allora sentito come un condominio, ossia come un diritto di proprietà ripartito fra più persone che si riconoscono nell’ esercizio di un dominio.

    Dicendolo non penso alla figura unica del dominus, ossia un Signore che si incarnerebbe in un soggetto personale determinato. Non è questo l’aspetto che mi interessa.

    Mi interessa piuttosto notare come l’idea dello spazio di vita come condominio costituisca un’ulteriore risultato dell’ affermazione unilaterale del possesso privato: il rapporto sociale, lo spazio sociale, il territorio comune, si risolve in rapporto fra i proprietari di spazio- merce, ognuno dei quali è guidato alla realizzazione dei propri interessi proprietari.

    Con buona pace alla cura dell’ uso pubblico, alla cura dell’ uso comune dei demani( vedi laghi, spiagge, boschi ,promontori sul mare, ecc.).

    Non il promontorio come demanio da curare e aprire a un uso comune, ovviamente, ma il pozzo nero della suocera come problema!

    Questa concezione dello spazio come condominio, misera addizione di parti private, non dovrebbe ovviamente mai costituire il presupposto sulla cui base orientare la gestione politica dello spazio.

    Ma mi rendo conto che le forze- e certo non solo concettuali- che vanno in questa direzione sono molteplici, e possono esprimersi a molti livelli.

    Può accadere che lo spazio pubblico venga ritagliato- rovinato- in funzione del privato, ad esempio,come sapete, e non sto parlando della costa azzurra -sovradimensionando i parcheggi sul suolo pubblico per agevolare attività private. Servitù pubbliche!

    Ma guardando anche dentro l’architettura delle istituzioni, dentro lo spazio giuridico delle istituzioni- spazio istituzionale che prefigura sempre uno spazio fisico- mi domando se e a livello giuridico non si assista in alcuni ambiti- a una analoga destrutturazione dello spazio, destrutturazione del rapporto fra diritto privato e diritto pubblico. Un movimento analogo a quello che abbiamo visto sin qui .

    Si creano enti pubblici retti da diritto privato. Non ho le competenze di un giurista , ma proprio dal punto di vista dell’ incompetenza (questo è un po’ filosofico, un po’ socratico ! ) si possono interrogare queste forme, farne venire alla luce i presupposti individualistico- proprietari dietro- o dentro- il formalismo giuridico che fa perno sull’idea astratta di autonomia privata. ( Forse anche il fatto che Blocher- terzo esempio cronachistico - in un suo discorso da ministro abbia voluto identificare lo spazio della democrazia diretta a quello dell’espansione del diritto privato, non è circostanza esterna a quanto sto affermando.)

    Lo spazio- sia quello fisico sia quello istituzionale- concepito come un condominio comunque una immagine politicamente molto insidiosa.

    Solo i condomini, ossia i proprietari, sarebbero alla fine competenti e legittimati a dire la loro sullo spazio e sulla sua organizzazione urbanistico- architettonica-istitzionale, dalle fogne,ai marciapiedi, alle istituzioni.

    Concretamente significa la fine del diritto politico che ognuno ha, dovrebbe avere, all’ interrogazione critica dello spazio.

    Se lo spazio( interamente mercificato) decade a condominio, ne deriva infatti che non verrebbe riconosciuto a tutti i cittadini il diritto di porre domande e di partecipare attivamente alla critica e alla costruzione del territorio. Nel condominio ovviamente il non proprietario non è autorizzato a dire alcunché, e se anche prova a dirlo non è ritenuto competente, non è legittimato da alcunché . Eppure da un punto di vista politico sicuramente i non proprietari( e con loro anche i senza-tetto) dovrebbero venir riconosciuti come competenti a dire la loro sul territorio e in genere sullo spazio.

    Questo non deve essere concepito come una struttura d’ autorità che troviamo semplicemente già fatta e nelle cui radiazioni ci troviamo passivamente immersi. Dunque- e non faccio altro che citare Derrida - "ognuno ha il diritto di porre domande sull’ architettura. Competenza in questo caso significa essere politicamente autorizzati a interrogare l’ autorità architettonica, gli architetti stessi su quello che fanno , perché essi costruiscono lo spazio in cui viviamo. Da questo punto di vista , ogni cittadino è competente e perfino i senzatetto ( che sono quasi non-cittadini ) lo sono."

    Lo spazio infatti, e molto semplicemente, non è un condominio.
    Il condominio- e il nome di questo condominio oggi è Junk-space- si costruisce pensando lo spazio in termini di addizioni di proprietà private.

    Ma è questa l’ essenza dello spazio ? E’ la proprietà privata l’ essenza dello spazio ? A chi appartiene lo spazio ?

    Le metafore con le quali la filosofia ha descritto lo spazio hanno ancora molto da dirci oggi.
    Alla immagine del condominio si oppone l’ immagine dello spazio come pascolo, ossia come luogo di uso comune anteriore e più originario rispetto a qualsivoglia appropriazione privata.

    Luogo che é un bene , ossia non è in funzione di altro, di un valore di scambio, ma è un bene come tale e di per se stesso. E’ questo bene è un pascolo, un luogo di crescita, essenzialmente un luogo di uso comune, una terra collettiva la cui partecipazione è retta dalla logica della condivisione e della comunità.

    Lo spazio come pascolo è una figura di quell’altro modo di possedere, altro rispetto alla proprietà privata, con il quale l’umanità può, e forse ancora potrebbe, organizzarsi. Oggi in particolare: la questione ambientale non deve forse necessariamente intrecciarsi con una nuova relativizzazione dei diritti di proprietà?

    Non dobbiamo infatti limitarci ad intendere in termini solo retorico-formali il principio di responsabilità. In questo senso idee da riprendere con coraggio sono state elaborate nel contesto della stessa tradizione architettonica del moderno, ad esempio allorquando un personaggio come Gropius si faceva militante promotore di "una campagna propagandistica volta a riconquistare al pedone il diritto di transito".

    Quello che desidererei sollecitare non vorrei fosse insomma soltanto la memoria passiva di quelle "tradizioni di genti più antiche, le quali avanti l’ era romana , usufruttavano la terra in vaste comunanze, comunanze estese a intere valli e catene di monti " nelle cui tracce si imbatté ancora Carlo Cattaneo analizzando il Piano di Magadino.

    Come riattualizzare questa memoria ? Come riattualizzare la memoria del comune anteriore da un punto di vista giuridico, logico e ontologico al privato ? Come e con chi decolonizzare lo spazio –il bene comune-dalla sua mercificazione, dalla sua riduzione proprietaria ?

    Domande difficili, forse del tutto inattuali. Ma onestamente non credo ci sia possibilità di eluderle e di evitarle- altrimenti il Junkspace avanza anche dentro di noi, dentro lo spazio interiore,e con esso si compie non solo il declino dell’ ambiente ma anche il declino dell’ uomo fisico e psichico come tale. Permettere che la psiche individuale escluda la psiche collettiva costituisce del resto un grave errore anche dentro di noi, e ha un esito patologico.

    Come ci insegna la miseria della cronaca. . Analogamente a quanto avviene quando analizziamo lo spazio fuori di noi, anche quando analizziamo lo spazio dentro di noi, lo spazio della persona possiamo "staccare la maschera e scoprire che ciò che pareva individuale è in fondo collettivo". Anche la personalità cosciente deve riconoscere "che essa è un segmento della psiche collettiva", una sua successiva individuazione che individuandosi deve pertanto restare solidale, rapportarsi bene, con lo sfondo comune. Come aveva già detto Platone, l’ anima e la città hanno infatti, dovrebbero avere, la stessa forma. Sta a noi decidere che tipo di spazio e di soggettività vogliamo, cercando in primo luogo , molto concretamente, di non far crescere forme di appropriazioni deliranti, violentemente allergiche davanti a vitali ‘ diritti di transito’.

    Lo spazio contemporaneo una sorta di immensa discarica dove ci si può chiedere quale possibilità abbia ancora l’ architettura intesa come la possibilità di disegnare e govererare lo spazio di vita.

    Osservando che nel 2015 L’ africe nera AVRÀ 332 MILIONI DI ABITANTI NEGLI SLUM, e che questa cifra è destinata a raddoppiare ogni 15 anni , uno studioso americano scrive :

    Le città del futuro , lungi dall’ essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano vero il cielo , gran parte del mondo urbano del Ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Il miliardo di cittadini che abiterà gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’ alba dela vita urbana, ottomila anni fa"( Davis , Pianeta degli Slum, 24)

    Chiediamoci davanti a queste contraddizione e all’ episodio di quotidiana violenza di Roma, se lo spazio è una merce , qualcosa che si può possedere vuoi scambiandola con dei soldi vuoi con l’arroganza, oppure se è qualcosa d’ altro .

    La sua natura non è piuttosto quella di un bene , ossia di qualcosa che ha valore di per sé, e del quale l’ uomo non può fare a meno, perché costituisce la condizione stessa per la sua crescita fisica e psichica non patologica. Se lo spazio è una merce , sarà economia che potrà gestirlo fra le sue contraddizione : se esso è invece un bene dovranno piuttosto essere gli abitanti , i cittadini , i membri della comunità politica, gkli architetti con progetti intelligenti a a garantire la costruzione di spazi come beni comuni: spazio della socializzazione come piazze, scuole, biblioteche, luoghi di abitazione socialmente accessibili

    Quie luoghi che oggi vanno scomparendo sostituiti da centri commerciali e luoghi di socializzazione che in realtà sono luoghi della merce, dominati dalle merci e organizzati fisicamente in sua funzione.

    Se questo problema è il problema contemporaneo anche degli architetti, vediamo di vedere che cosà può dire in proposito la filosofia.

*) Docente all’Accademia di architettura a Mendrisio (Ticino)