giovedì 26 settembre 2013

ESSERE SOCIALISTI, SEMPRE

Per il reinsediamento  

OCCORRE UNA EPINAY ITALIANA - APPELLO PER LA RINASCITA DEL SOCIALISMO IN ITALIA

La scomparsa del socialismo organizzato non ha cancellato la presenza dei socialisti nella vita italiana.

    Oggi troviamo compagni che militano in formazioni dello schieramento di centro-sinistra, in circoli socialisti indipendenti, in associazioni politico-culturali; talora le varie presenze si raccolgono in coordinamenti presenti sul territorio, modello di cui il Gruppo di Volpedo è stato antesignano,  ma sono nettamente prevalenti i compagni senza tessera alcuna che continuano a rivendicare le ragioni del socialismo e lamentano la mancanza di una sinistra italiana capace di promuovere autonomamente rappresentanza e iniziativa.

    Si registra, in questa vasta galassia, molta trasversalità e pure l’intrecciarsi di un dialogo che, purtroppo, fino ad oggi non ha maturato la comune esigenza di ricostruire una soggettività politica, che non significa la riesumazione del vecchio partito socialista, ma un’esigenza profonda di essere come tali nella lotta politica italiana in un momento di grave e aspra crisi della democrazia repubblicana, rappresentando una identità propria che, tramite il farsi della politica democratica, reimmetta con la dignità che gli compete il socialismo nella storia italiana.

    L’Italia ha bisogno di giustizia, di democrazia e di ripresa di una lotta mirata a salvaguardia dei meno abbienti, affinché non ricada sui meno garantiti il peso di una crisi dovuta al globalismo finanziario, che sinora ha dato risposte atte solo a tutelare le classi ricche ed un inadeguato sistema bancario; occorre rilanciare invece una cultura del lavoro che prefiguri garanzie concrete per le giovani generazioni di avere un futuro di vita degno di essere vissuto.

    Gli interessi sociali di rappresentanza del socialismo non sono oggi rappresentati da nessuno.

    La nostra democrazia distrutta dall’inadeguatezza della classe politica del post-tangentopoli, ferita nel profondo da vent’anni di berlusconismo cui sono state contrapposte risposte deboli, nuoviste, improvvisate e destrutturanti le basi stesse della cosiddetta “cultura del movimento operaio”, ossia del lavoro salariato.

    Siamo consapevoli che l’idea che il movimento operaio sia “classe generale “ è un concetto superato, la disgregazione della struttura produttiva basata sulle Grandi Industrie ha modificato, come ci insegnò Paolo Sylos Labini, in profondità la struttura sociale, ma un Movimento Socialista non può non farsi carico esplicitamente degli interessi di “coloro che fanno del lavoro la propria ragione di vita”.

    Le soluzioni tecniche non possono dare un futuro, degno dei nostri principi costituzionali, ai bisogni dei cittadini, ma possono solo offrire assurdi sacrifici pagati da lavoratori e pensionati, ed anche soluzioni governative come quelle in atto che, per quanto sembrano imporsi di necessità, non presentano nessuno dei requisiti necessari per un’opera di ricostruzione vera, anche al fine di riconferire alla democrazia repubblicana quel concetto di “ solidarietà sociale” che le è insito.

    Il socialismo, disperso e diffuso, di fronte a questo quadro drammatico deve battere un colpo;  divenire un pensiero autonomo ed alternativo al pensiero dominante e reimpostare una scommessa sui tempi medi della nostra storia nazionale.

    La Questione Socialista non può essere affrontata, né tantomeno risolta, da altri soggetti, proprio perché essi sono “altro”;

    anche una soluzione indotta dall’esterno del suo proprio luogo storico non è in grado di ridare prospettiva e concretezza alla domanda che il socialismo, e la sinistra italiana, hanno oggi all’ordine del giorno;

    difficilmente può risolversi se altre forze aderiscono al partito del socialismo europeo, riferimento più di connotazione che non di reale iniziativa politica;

    né è sufficiente sperare che le forze di centro-sinistra, in occasione delle elezioni europee dell’anno prossimo, possano mettersi unitariamente insieme sotto il vessillo del PSE.

    Il passaggio tecnico, non certo disdicevole, non è sufficiente ad affrontare la questione di fondo: reimmettere il socialismo, con i suoi storici ideali e precise proposte politiche per muoversi nella crisi del presente, sui binari ricostruttivi di un percorso lungo, difficile, sicuramente incerto, ma l’unico che possa essere percorso.

    L’Italia, in ciò, deve prendere forza e modello dall’esperienza francese: occorre una Epinay italiana che chiami a raccolta, in forma libera, autonoma, con pari dignità, ma precisa ed organizzativamente identificabile, tutte le energie socialiste che  sentono la necessità, la bellezza, e pure il sacrificio, di lanciare questa sfida; in primo luogo a se stessi per una nuova militanza che, nel nome del socialismo, agisca quale fattore propulsivo per tutta la sinistra, anch’essa da ricomporre e riorganizzare: culturalmente, socialmente e politicamente.

    Noi oggi, lanciamo un appello accorato a tutti quei compagni che, dispersi, a disagio in altre organizzazioni, disillusi dalle esperienze passate, dovunque essi siano, perché scendano di nuovo in campo in un tentativo che renda onore, ruolo e soggettività al socialismo italiano.

    Per questo motivi lanciamo la proposta di costituire tra i vari coordinamenti territoriali dei circoli socialisti, che in questi anni, con passione e dignità, hanno tenuto accesa la speranza per una rinascita del socialismo democratico in Italia, una nuova organizzazione nazionale: la RETE SOCIALISTA, che richiama, aggiornandolo ai tempi, il nome della formazione politica di Filippo Turati, che poi dette origine al Congresso di Genova 1892: la Lega Socialista.

    Questo appello non è però una chiamata reducistica, l’essere socialisti oggi non significa esserlo stato ieri è, quindi, rivolto soprattutto ai giovani, e a chi, per ragioni anagrafiche o altri motivi, socialista non è potuto essere oppure non lo è stato, affinché si riapra la stagione della speranza, l’esigenza della lotta dei cittadini per tornare protagonisti del proprio futuro. 

    Ai giovani, oggi annichiliti da una crisi che appare senza speranza, facciamo appello perché tornino a credere che, nel nome della giustizia sociale, della libertà, dei diritti, le cose si possono cambiare per rendere il mondo migliore e per costruire un avvenire di uomini e donne liberi ed eguali.

 

Paolo BAGNOLI, Patrizia VIVIANI, Stefano ORSI, Giovanni REBECHI (Coordinamento Socialisti Centro Italia); Dario ALLAMANO (TO); Giorgio D’AMICO (PE); Peppe GIUDICE (PZ); Giampaolo MERCANZIN (PD).

 

Tutto cambia… Nulla cambia… Cosa cambia?

ROMA, XX SETTEMBRE 2013

  

Francesco, pontefice "rivoluzionario", ha aperto una seconda

Porta Pia nel rapporto della Chiesa con l'omosessualità?

I laici di fronte alle "parole nuove" di papa Bergoglio.

 

di Ludovica Eugenio

www.adistaonline.it

 

Le parole pronunciate da papa Francesco sull'aereo che lo riportava in Italia dopo la Giornata mondiale della gioventù, hanno avuto rilievo quanto quelle dette nel corso dell'evento. In particolare, hanno fatto il giro del mondo le affermazioni sui gay: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?», aveva dichiarato il papa rispondendo a una domanda sulla presunta lobby gay in Vaticano. «Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo spiega in modo tanto bello: "Non si devono emarginare queste persone. Devono essere integrate nella società". Il problema non è avere questa tendenza, no, dobbiamo essere fratelli».

    Niente cambia - Le parole del papa non hanno mancato di suscitare reazioni di diversa natura e, in alcuni casi, hanno innescato già dei cambiamenti di rotta nei confronti del popolo "lgbt". Negli Stati Uniti, in particolare, sono state molto commentate: per alcuni, però, esse non aggiungono nulla di nuovo o di diverso a quanto affermato dalla Chiesa.

    Mons. Robert Vasa, della diocesi di Santa Rosa, California, tende a minimizzare: le affermazioni del papa, ha detto secondo quanto riporta The Press Democrat (29/7), non contraddicono quelle del suo predecessore (Benedetto XVI nel 2005 aveva affermato che la condizione gay non consentiva di accedere al sacerdozio): «Non sono più concilianti di quanto lo siano i documenti della Chiesa»; «nulla di ciò che ha detto suggerisce l'accettazione di preti gay o dediti a atti omosessuali». Risposta analoga dalla diocesi di Providence: «Il papa non ha detto nulla di nuovo», ha affermato un responsabile diocesano (The Providence Journal, 29/7).

    Per il portavoce di St. Petersburg, Florida, la Chiesa parla invece di "peccato", a proposito dell'omosessualità, e il papa, sotto questo profilo, «sta solo vedendo la questione da un altro punto di vista» (The Tampa Tribune, 30/7). Stessa linea del card. Francis George di Chicago («Il papa ha riaffermato l'insegnamento della Chiesa che ogni uomo e ogni donna deve essere accettato con amore, anche chi ha orientamenti omosessuali», National Catholic Reporter) e della diocesi di St. Louis («La Chiesa cattolica non condanna chi ha tendenze omosessuali. Il Catechismo afferma chiaramente che gli omosessuali "devono essere accettati con compassione, rispetto e sensibilità"» e che l'obiezione riguarda l'attività omosessuale).

    Ancora più esplicito il vescovo di Detroit, mons. Allen Vigneron (Free Press, 3/8): «Nessun cambiamento», ha detto. Se qualcuno ha visto un tono nuovo nelle parole del papa, in realtà questi non ha fatto che reiterare ciò che è già contenuto nella dottrina cattolica, che oppone omosessualità e matrimonio gay; inoltre, il papa – afferma sempre Vigneron – ha fatto capire che «i gay devono cercare di "pentirsi e mettere in ordine la loro vita"».

    Qualcosa, forse, cambia - Per qualcuno, invece, un cambiamento c'è, anche se solo nel tono. Così la pensa mons. Michael Jackels di Dubuque, Iowa (RadioIowa.com, 30/8): se le parole del papa non sono state «terribilmente sorprendenti», sono state però pronunciate «in una maniera più sua, personale, diretta».

    Opinione condivisa anche nella diocesi di Erie, Pennsylvania (ErieTvnews.com): «Papa Francesco ancora una volta ci ha sfidati con il suo stile fresco e unico a ricordare ciò che è al cuore dell'insegnamento della Chiesa, cioè che ogni uomo e ogni donna è creato a immagine di Dio», ha detto un portavoce della diocesi. Mons. Salvatore Cordileone di San Francisco ha apprezzato la sottolineatura, da parte di Bergoglio, dell'amore e dell'accoglienza della Chiesa per tutti (The San Francisco Chronicle, 30/7), ma «se la Chiesa non giudica gli individui, giudica le azioni», e quindi «qualsiasi atto sessuale al di fuori del matrimonio eterosessuale è peccato».

    Stessa linea e quasi identiche parole per il presidente della Conferenza episcopale Usa, il card. Timothy Dolan di New York: «C'è un insegnamento molto chiaro della Chiesa basato sulle parole di Gesù per cui non possiamo giudicare le persone ma le azioni sì», ha detto (today.com).

    Tutto cambia - C'è poi chi ha valutato del tutto positivamente le affermazioni del papa. Mons. Michael Sheridan di Colorado Springs ha affermato (Fox21news) che esse «segnano un cambiamento netto nel tono» e che purtroppo non tutti nella Chiesa, agiscono nel modo che la stessa Chiesa prescrive, cioè con rispetto e amore per tutti».Più netto il vescovo di Grand Rapids, Michigan, mons. David Walkowiak (Mlive.com): «Speriamo che il tono del papa comunichi la speranza e la convinzione che se ci si rivolge alla Chiesa si verrà rispettati, accolti, si potrà ricevere l'aiuto costituito dai sacramenti».

    Un tono, quello di Bergoglio, che esprime un approccio «più pastorale sui gay in generale, se non addirittura un cambiamento nella dottrina sull'omosessualità» che, tuttavia, non ci aspetta possa avvenire durante un volo transoceanico o una conferenza stampa. Sul tono più pastorale sono intervenuti anche mons. Howard Hubbard di Albany, New York (Times Union) e mons. David Zubik di Pittsburgh (Post Gazette): «Sta dicendo cose che la Chiesa ha già detto, ma le sta dicendo in modo che la gente possa capire. Giovanni Paolo II era un filosofo, Benedetto XVI un teologo. Lui è un pastore: ci dice che dobbiamo conoscere il nostro popolo e i suoi conflitti».

    Fuori dalla gerarchia ecclesiastica, i commenti, con qualche eccezione, sono generalmente positivi. Il gesuita p. James Martin, dalla sua rubrica sul Washington Post, individua in 5 punti i motivi per cui le parole del papa hanno fatto tanto rumore. Primo: l'uso del termine "gay" al posto di "omosessuale": una novità, per un papa, gradita soprattutto al mondo gay. Secondo: l'accento sulla negatività delle lobby in sé, non necessariamente solo gay, con il rifiuto di giudicare le persone. Terzo: il passaggio spontaneo dalla questione delle lobby all'individuo gay. Quarto: non ha usato la citazione del Catechismo secondo cui le persone omosessuali sono «intrinsecamente disordinate», né, dopo aver detto che i gay non devono essere emarginati, si è espresso contro l'attività omosessuale, come ci si sarebbe potuti aspettare. Il tono, afferma Martin è prettamente pastorale, la sua voce, quella di un «pastore gentile»: «Diversi amici gay e lesbiche hanno detto che il video li ha commossi fino alle lacrime».

    Ugualmente positivo un altro gesuita, p. Thomas Reese, già direttore della rivista America e ora columnist del National Catholic Reporter. Il papa non ha cambiato nulla, ha detto in un'intervista a un quotidiano di Detroit (Free Press), ma ha «mostrato un volto nuovo» rispetto ai suoi predecessori. Ha sottolineato la compassione, l'amore, il rispetto, il fatto che i gay non vadano demonizzati». E nella Chiesa cattolica, conclude, lo stile è sostanza, e quindi il tono di papa Francesco, con le sue parole, fa un'enorme differenza».

    Parole parole parole - Più perplessa Jamie Manson, teologa femminista ed esperta di etica sessuale. Sul National Catholic Reporter (31/7) esprime i suoi dubbi: «Dopo aver lanciato il suo ormai leggendario "Chi sono io per giudicare?", ha immediatamente riaffermato la dottrina del Catechismo. Certo, non ha usato l'espressione "intrinsecamente disordinati", ma ha detto chiaramente che "il problema non è la tendenza (omosessuale)". È ovvio, il problema sono gli atti omosessuali e il matrimonio gay. Penso che la vera domanda che ha posto fosse: "Chi sono io per giudicare un gay celibe di buona volontà che cerca Dio?"».

    «Voglio credere che delle vere riforme siano prossime», afferma la Manson. «Il mio cuore cerca questo: vorrei avere la possibilità di sposare la mia partner nella Chiesa della mia infanzia, la Chiesa con una "visione sacramentale del mondo" e con i migliori dettami sulla giustizia sociale nei suoi libri. Voglio che tutte le coppie lgbtq abbiano la possibilità di sposarsi nella Chiesa con cui il loro cuore si identifica. Ma non c'è nulla che Francesco abbia detto su quell'aereo – è l'amara conclusione – che mi porti a pensare che siamo più vicini a qualcuna di queste possibilità. Mi resta la speranza che un giorno la giustizia verrà, ma penso che sia importante accettare la realtà che gli effetti residuali di una formazione patriarcale, omofobica e clericale possano continuare ad agire in un uomo che, peraltro, è impegnato per la giustizia e ha un orientamento profondamente pastorale».

    Grazie, grazie, grazie - Nel mondo dei cattolici gay, tuttavia, c'è anche chi è stato positivamente impressionato dalle parole del papa: lo dimostra una petizione, lanciata sul sito change.org, da un cattolico gay di Washington, Allen Rose, con la quale ringrazia papa Francesco per i suoi accenti incoraggianti nei confronti del mondo lgbtq e annuncia che consegnerà la petizione al nunzio pontificio, perché la trasmetta a Bergoglio.

(c) Adista notizie 29, 31 agosto 2013

 

martedì 24 settembre 2013

Storia controfattualee dissoluzioni politiche

Le idee  

Era l’epoca dell’Ungheria, quando i carri armati sovietici puntarono su Budapest per soffocare il nuovo corso politico che operai e studenti volevano dare al proprio paese sottraendolo al ruolo di satellite dell’Unione sovietica. . .

di Fulvio Papi *)             

In una storia controfattuale del nostro paese – storia controfattuale che poi è il solo modo per provare un giudizio sui fatti  “oggettivi” – credo che l’autunno del 1956 sia un tempo cruciale. Era l’epoca dell’Ungheria quando i carri armati sovietici puntarono su Budapest per soffocare il nuovo corso politico che operai e studenti volevano dare al proprio paese sottraendolo al ruolo di satellite dell’Unione sovietica. Nell’allora partito socialista non fu particolarmente difficile prendere la posizione corretta che vedeva nell’azione militare sovietica la decisione di una potenza che, negli equilibri internazionali, voleva mantenere il proprio ruolo impedendo qualsiasi mutamento di questa prospettiva. La liberazione degli ungheresi da una dittatura criminale, mimetica degli anni più celebri di Stalin prima della guerra mondiale, in questo contesto, per il PCI era un nulla storico, un inciampo, una difficoltà. Basta ricordare il lessico di Togliatti sino alla uccisione di Nagy. Nell’area socialista cui appartenevo socialismo e libertà erano inscindibili, e, finalmente, l’antica menzogna (cosa che capita quando la prassi immagina di volere e potere tradurre i libri nel mondo) secondo cui una ferrea dittatura era la strada obbligata per la costruzione di una vera libertà sociale, si mostrava per quello che era. Perché poi la rivoluzione dei soldati e degli operai del 1917 fosse divenuta l’occasione per uno stato burocratico e poliziesco, è una storia ormai troppo nota per doverne parlare ancora. Per quanto riguarda la nostra storia i “fatti di Ungheria” furono molto importanti. Il partito comunista che dal ’48 esercitava a sinistra una funzione egemone, prese una posizione del tutto favorevole all’intervento sovietico, quindi vergognosa e infame per tutto il gruppo dirigente, nutrita di menzogne, posizione che, come si sa, gli costò una certa emorragia di iscritti e di intellettuali, ma che, nel complesso fu ampiamente maggioritaria tra gli iscritti al partito e i suoi simpatizzanti. Una controstoria si domanda: quale sarebbe stata la condizione politica e culturale di tutta la sinistra italiana se il partito comunista avesse capito gli eventi per quello che erano? Domanda in fondo futile, poiché si può comprendere solo se la comprensione è possibile nel nostro modo di essere.

    E la dirigenza comunista, quella storica a cui apparteneva Togliatti con la sua ossequienza ai dirigenti sovietici e quella formatasi tra il 1943 e il dopoguerra, avevano la loro identità in una storia ideologica molto semplice che vedeva nell’Unione Sovietica la guida ideale e politica (le posizioni originali di Gramsci imprigionato dai fascisti sono elementi che appartengono alla nostra “conoscenza”, a sua volta resa possibile da una radicalmente mutata condizione storica).

    E non è però da credere che questa storia comunista fosse solo un sapere di vertici, omogenei e intossicati politicamente, essa costituiva una autentica mitologia popolare che aveva la forza di costituire una relazione tra  un “noi” e un “loro”. Ogni notizia che fosse contraria alla volgata era ritenuta aggressiva propaganda capitalista, non meno di quanto i capitalisti americani, nella crisi degli anni Trenta, chiamavano “propaganda russa” i disastri economici e sociali del loro paese. Il problema per il partito comunista era comprendere se stesso, la propria storia, l’apparato mitologico diffuso e quindi la simbologia della propria stessa forza sociale. Devo dire, privo oggi di qualsiasi poco decente aggressività, che quando veementi personaggi della storia comunista dicono “avevo sbagliato”,  questa autocritica conta molto poco, o quasi niente perché traduce il senso storico in una narrazione personale. Quello che conta è piuttosto la condizione storica e ideologica che il partito comunista, del tutto al di là delle sue pratiche positive, riformistiche o solo civili nel territorio del paese, proiettava come propria identità e quindi come luogo di fedeltà e di impegno personale. Non era cosa da poco dire a milioni di uomini “sei in una storia”, “adesso devi la tua abnegazione”. Non vorrei proprio dimenticare due  punti importanti:  1) il clima pericoloso della guerra fredda di cui l’Italia è stata vittima storica; 2) la più che modesta elaborazione della critica radicale a Stalin che era  nata nel partito sovietico come necessaria conoscenza della verità. Il partito comunista, per usare un’espressione un poco ridondante, era prigioniero della sua autobiografia che, a essere schietti, si poteva leggere con facilità nello stesso lessico delle sue forme di comunicazione. E, caso minore, ma interessante: non diceva niente il fatto che i “filosofi marxisti” erano per lo più diligenti storici della filosofia che avevano poco da spartire con i marxisti “privi di cattedra” che trovavano la loro elaborazione intellettuale a fianco del loro lavoro politico? La verità era la comune credenza che aveva la sua sostanzializzazione nel partito, il resto era una più che onesta e operosa – e anche un poco cieca – attività storiografica (la contemporaneità del mito degli intellettuali).

    La nostra controstoria si trova dunque sbarrata: è solo pura immaginazione pensare a un PCI autocritico (l’unico modo per capire l’Ungheria) che mettesse in questione la propria identità dal 1921, la propria dipendenza internazionalista dal gruppo dirigente sovietico, la condivisione delle decisioni più nefaste e infine, la propria positiva identità di massa, nel rispetto della costituzione e, sotto questo profilo, il proprio peso nell’opinione di sinistra. Certo  se con l’Ungheria fosse stato possibile un ripensamento complessivo di tutta questa, in un certo senso, straordinaria vicenda, sarebbe possibile parlare di una occasione storica perduta. Ma “così va il mondo”, diceva il sommo filosofo che notava come necessità e libertà nell’effettualità coincidevano. Il che può condurre all’insegnamento alla concretezza, ma anche all’accettazione di inaudite violenze.

    Dunque lascio perdere “l’occasione storica mancata” dal 1956, e inseguo invece un vizio robusto e con poche possibilità di essere sconfitto che è rimasto nella esperienza identitaria dei “comunisti”, a qualsiasi diaspora possano appartenere, da quella – raffinata ed elegante – della opposizione, un poco onirica, di sinistra, sino alle frange – non poche – che di fronte a una realtà che prosciugava l’antico fiume ideologico, si reincarnava, senza capire quasi niente, nel neo-liberismo, nelle privatizzazioni, in un clima di una assoluta povertà teorica che pareva, emotivamente, una resurrezione da un peccato originale. Il vizio comune, specie a livello della memoria dei più anziani politici e del pubblicismo corrente, é il considerare la storia della sinistra storica in Italia come se fosse pienamente identificabile con la storia del partito comunista, come fosse a sua volta una storia simile a una “generazione spontanea”. Si potrebbe dire che in questo caso ci troviamo di fronte a quell’idealismo privo di autoriflessione che appartiene a tutte le storie che devono incarnare il passato per qualche strategia che interessa fuori misura il presente. Ma qui, secondo il mio parere siamo di fronte  a una vera occasione mancata dal partito comunista. Siamo all’inizio degli anni Sessanta: la società italiana mostra i primi effetti di una espansione economica, e veniva coniato (adesso è inutile discutere la cosa in teoria) il termine “neocapitalismo”.

    Il problema visto da una sinistra non paralizzata dal proprio specchio tradizionale, voleva dire che non si poteva più guardare alla classe operaia come a un corpo sociale estraneo alle trasformazioni che in qualche misura toccavano l’insieme della vita collettiva, i desideri, le aspirazioni, e contemporaneamente, le relazioni, con il rischio della “omologazione” del potenziale politico del movimento operaio al nuovo costume sociale in ascesa. Questa considerazione apriva uno spazio politico all’interno della ritrovata autonomia politica del partito socialista. Era necessario valorizzare l’insieme delle istituzioni democratiche come veicolo per quelle riforme economiche e sociali che, alla fine, costituivano il concreto obiettivo anche del partito comunista, al di là degli echi (che ancora erano udibili) delle più antiche letture di “Stato e rivoluzione” di Lenin. A livello politico il quadro mostrava la possibilità di una convergenza tra il partito socialista e una parte (fieramente contestata da suoi oppositori interni) della democrazia cristiana. Fu il tempo, nel 1962 delle due grandi riforme – la nazionalizzazione della produzione dell’energia elettrica (per la verità con un notevolissimo esborso ai privati) e la riforma della scuola media, da anni eguale da come l’aveva designata  Bottai. Erano proprio queste realizzazioni che aprivano l’orizzonte “riformistico” del centro-sinistra politico. All’interno del partito socialista fu la componente di Riccardo Lombardi a interpretare questa possibilità di grandi riforme democratiche come l’obiettivo del partito socialista. Fu una prospettiva  che rivitalizzò il partito e la sua area di consenso intellettuale. Giovanni Pieraccini, che fu un non grandioso direttore dell’Avanti! in tempi precedenti, ha sostenuto in un suo libro recente che i “lombardiani” che erano una minoranza in un partito che toccava a stento il 14% del consenso elettorale, volevano abbattere il capitalismo in Italia. E’ solo una battuta di chi, al tempo, fece la sua scelta. Il fatto storico fu invece tutt’altro: le forze sociali che da sempre condizionavano in modo conservatore la democrazia cristiana si schierarono radicalmente contro questa nascente prospettiva, contro cui si mobilitava addirittura il pericolo di un colpo di stato. Non desidero entrare qui in particolari interpretativi della famosa estate del ’64, ma nell’essenziale la situazione si presentò così: la democrazia cristiana era favorevole alla prosecuzione del rapporto di governo con il partito socialista a patto che venisse accantonata, rinviata e elusa la prospettiva delle riforme democratiche che due anni avanti si erano positivamente presentate. Le riforme furono infatti accantonate, e in un drammatico comitato centrale, Riccardo Lombardi in modo comprensibilmente melodrammatico, disse che il partito consegnava su un vassoio d’argento alla democrazia cristiana la testa del direttore dell’Avanti!. Ovviamente, se pure di una ben minuscola proporzione, saltava anche la mia che avevo lasciato (provvisoriamente) la cura universitaria e filosofica, per assumere, con Lombardi, la vice-direzione del giornale, affascinato dalle nuove possibilità politiche che si erano aperte nell’aurora del centro sinistra. La realtà storica è che “noi” eravamo soli.  Quale fosse l’umore per lo meno prevalente nel partito lo capii subito quando tornando al giornale dopo la conclusione del famoso comitato centrale, non trovai che un paio di redattori, mentre tutti gli altri erano andati a festeggiare la “governabilità” del paese in una alleanza senza riforme del partito con la democrazia cristiana. Era la strada delle speranze personali per  un futuro soprattutto economico che avrebbe dato prospettive più facili: spuntava il sole donativo del sottogoverno. Non so ovviamente se questo fosse il disegno di tutti, tanto più che il prestigio di Nenni nel partito era molto rilevante, e quindi un poco ovvia la condivisione delle sue decisioni. Ma non mi dispiace ricordare che molti anni dopo, e poco prima della sua scomparsa Nenni disse, in un discorso a Milano, che il partito si stava trasformando in un partito di assessori. Il tempo tra questa orazione di Nenni e quello dell’estate del ’64 mostrò una progressiva trasformazione del partito socialista che ebbe il suo ciclo purtroppo definitivo nel 1976 quando, come ha scritto Giunio Luzzatto, il partito fu considerato un fine di per se stesso e non un mezzo di azione politica. Ero già lontano da tutto questo, e non ho l’informazione storica sufficiente per un giudizio maturo che tenga conto non solo della vita dei partiti, ma dell’insieme delle trasformazioni dell’economia e della società italiana.

    Vorrei tornare invece al ’62-’64 e al mio sintagma “eravamo una minoranza e siamo stati lasciati soli”- Credo che il partito comunista avrebbe dovuto appoggiare senza riserva quella che era allora la vera e possibile prospettiva riformista della società italiana. Se lo avesse fatto senza riserve, nello spazio della sinistra saremmo stati una fortissima maggioranza. Nessuno sa che cosa sarebbe successo. Quello che si può sapere è che il partito comunista avrebbe potuto cogliere un’occasione storica per prendere a livello nazionale una linea apertamente riformista con il prestigio e la forza che ancora manteneva nel tessuto sociale italiano. Non dico che avremmo fatto le riforme che avevamo in mente, ma il PCI avrebbe creato un equilibrio politico nazionale molto differente da quello che è stato, e probabilmente ciò non  avvenuto a causa di una ostinata visione autoreferenziale dei comunisti che aveva il solo vantaggio di giocare una posizione egemonica a sinistra. Per fare che cosa? La sterilità di questa posizione andò malauguratamente a pari passo a quella visione scotomizzata per cui tutta la storia della sinistra italiana è la storia del partito comunista. E credo sia stata proprio questa distorsione a portare il partito a una progressiva serie di metamorfosi nominalistiche sostanzialmente succube, come a scontare una colpa originaria, del famoso “pensiero unico” come rivelazione concreta dopo la lunga notte ideologica. Al contrario vi erano probabilmente le condizioni teoriche, etiche e storiche per mantenere il meglio della propria opera in una nuova identità politica (di cui il modello europeo non è mai venuto meno) che tenesse conto delle prospettive che la politica del partito, a suo tempo, aveva ignorato, messo in ombra o anche combattuto.

    L’apertura all’”altro” sarebbe stata più importante dell’autogenesi nominalistica priva di un proprio orizzonte culturale, e destinata all’importazione di saperi estranei senza un qualsiasi filtro critico (che pure esisteva nella nostra cultura, positivo ed estraneo a qualsiasi sognante radicalismo).

    Questa è certamente storia controfattuale, è quindi giudizio. Che vale solo se favorisce qualche riflessione, anche se è difficile, nella attuale condizione del ceto politico che tuttavia ha tutt’altre regole di conduzione.

 

*) Fulvio Papi (1930), professore emerito dell’Università di Pavia, insignito dell'Ambrogino d'oro della Città di Milano, è stato vicedirettore dell’Avanti! (1963-1964). Con Vegetti, Alessio e Fabietti, ha curato per Zanichelli “Filosofie e società”, manuale di filosofia per i licei. Tra le pubblicazioni più recenti: Capire la filosofia (Ibis 2008), Figure del tempo (Mimesis 2002), Filosofia e architettura – Kant, Hegel, Valéry, Heidegger, Derrida – Per una riflessione filosofica sulle forme architettoniche (Ibis 2000).

 

SESTO FORUM DEI CIRCOLI SOCIALISTI

GRUPPO DI VOLPEDO

  

Sabato 28 settembre 2013*

 

15,30 Inizio lavori

INCONTRO DEI CIRCOLI SOCIALISTI / PER LA RETE SOCIALISTA

 

Il Gruppo di Volpedo (GdV), ha invitato all’incontro:

Coordinamento dei circoli del centro Italia; Democrazia Socialista (NA), Domani Socialista, Lega dei Socialisti, Gruppo dei circoli del nord est, Movimento d’azione laburista, Network per il socialismo europeo,  Socialismo e Democrazia (FG).

Presiede: Giorgio BRERO Coord. GdV

 

Relazioni di:

Francesco SOMAINI Esecutivo GdV

Paolo BAGNOLI Coord. Circoli centro Italia

 

18,30 presentazione documenti

19,30 cena

 

Domenica 29 settembre 2013*

 

09,30 Inizio lavori

Presiede: Dario ALLAMANO Coord. GdV

 

Marina LOMBARDI,

Sindaco di Stella, ci racconta il pensiero di Sandro PERTINI sul LAVORO

 

DIBATTITO:

10,15 Una Piattaforma per il nord ovest

 

Relazioni di

Valerio CASTRONOVO Presid. Ist. Salvemini

Nerio NESI Presid. Circ. Lombardi

Lorenzo FORCIERI Pres. Autor Porto SP

Segue discussione aperta

 

12,45 La Fiumana 2013

13,00 pranzo

 

Domenica 29 settembre 2013*

 

14,30 Ripresa lavori

 

Federico FORNARO, Storico e Senatore,

ci racconta il pensiero di Giuseppe SARAGAT sulla DEMOCRAZIA

 

TAVOLA ROTONDA:

Democrazia fragile, maneggiare con cura

 

15.00

Introduce

Felice BESOSTRI Esecutivo GdV

 

Ne discutono

Andrea GIORGIS PD - Deputato

Ugo INTINI PSI – Dir. Naz.

Gennaro MIGLIORE SEL - Deputato

 

Modera:

Marco BRUNAZZI Ist. Salvemini TO

Segue discussione aperta

 

18.00 conclude i lavori

Marilena ARANCIO Portavoce GdV

 

18.30 presentazione documenti

 

*In caso di maltempo la manifestazione si terrà presso il mercato coperto

 

lunedì 16 settembre 2013

Le Strade degli ugonotti e dei valdesi

Ora sono Itinerario culturale europeo. La consegna dell'attestato del Consiglio d'Europa è avvenuta a Neu Isenburg (Germania)


Roma (NEV), 11 settembre 2013 - Il percorso storico-culturale di 1800 chilometri che traccia la lunga fuga attraverso le Alpi da parte di ugonotti e valdesi nel XVII secolo, ha ottenuto il riconoscimento "Itinerario culturale europeo" del Consiglio d'Europa. La consegna della pergamena è avvenuta lo scorso 10 settembre presso il museo cittadino di Neu Isenburg vicino a Francoforte sul Meno (Germania), alla presenza dei rappresentanti italiani, francesi, svizzeri e tedeschi de "Le strade degli ugonotti e dei valdesi".

La revoca dell'Editto di Nantes da parte del re di Francia nel 1685, e gli editti emanati dal duca di Savoia l'anno successivo, significarono per 200.000 ugonotti e circa 3000 valdesi l'inizio delle persecuzioni. Partirono dalla Francia e dall'Italia verso il nord Europa, attraversando la Svizzera raggiungendo la Germania e i Paesi Bassi. "Una storia che a 300 anni di distanza si riferisce a temi oggi strettamente attuali, come i diritti negati, la lotta per la libertà, l'incontro fra culture e religioni differenti, e l'intolleranza", ha dichiarato Davide Rosso, direttore del Centro culturale valdese (CCV) di Torre Pellice (TO), presente per l'occasione, aggiungendo: "è una tragedia frutto delle persecuzioni, ma allo stesso tempo una storia di accoglienza e di solidarietà europea".

"Questo progetto aiuta a ricordarci come i temi della fuga, dell'esilio, della tolleranza e dell'integrazione siano ancora oggi di ampia portata sociale e politica per l'Europa" ha invece sottolineato Penelope Denu, direttrice dell'Istituto Europeo Itinerari Culturali del Consiglio d'Europa che ha consegnato nella cittadina di Neu Isenburg, fondata nel 1699 dai rifugiati ugonotti, il prestigioso riconoscimento.

"Le strade degli ugonotti e dei valdesi" si possono oggi percorrere a piedi o in bicicletta alla scoperta del territorio dal punto di vista ambientale e storico. Il percorso segue gli antichi itinerari dell'esilio degli ugonotti e dei superstiti degli 8500 valdesi imprigionati nelle carceri sabaude, con l'unica colpa di essere protestanti (http://www.lestradedeivaldesi.it/).

giovedì 12 settembre 2013

Centenario di Ettore Cella-Dezza

 di Andrea Ermano

 La Federazione Socialista Italiana in Svizzera – proprietaria di questa testata dalla sua fondazione – ha dedicato la Tessera 2013 al centenario di Ettore Cella-Dezza, già presidente dell'organizzazione, nato a Zurigo il 12 settembre 1913 e morto presso Winterthur il 1° luglio del 2004.

    Ettore è stato un grande regista e attore, teatrale e cinematografico, nonché un personaggio radio-televisivo assai celebre nel mondo di lingua tedesca per le sue indimenticabili fatiche e anche per i suoi meriti culturali, tra cui ricordiamo qui "solo" l'introduzione di Pirandello in Germania e di Brecht in Italia. Fu Ettore, tanto per dire, a promuovere l'alleanza artistica tra Bertolt Brecht e Giorgio Strehler.

    Ettore è stato anche un importante esponente dell'emigrazione socialista, fino all'ultimo, fino alle lunghe e travagliate operazioni di salvataggio del Centro estero di Zurigo, dopo il crollo del Psi craxiano in Italia.

    Sempre incredibilmente attivo, anche da novantenne, aveva però dovuto farsi operare al femore in seguito a una brutta caduta; e gli strascichi dell'intervento lo costrinsero a una degenza abbastanza lunga, che lo andava rapidamente consumando.

    Negli ultimi mesi era ricoverato in un'ampia e linda camera dell'ospedale di Winthertur. Mi chiamava spesso al telefono. Voleva che andassi a trovarlo, cosa che facevo volentieri, compatibilmente con i vari impegni. Era sempre in uno stato di straordinaria lucidità, ma anche biblicamente "stanco di giorni" e non lo nascondeva: "La forza fisica è finita", ripeteva con sorriso velato. "Io posso pensare quel che mi pare, ma è come se il corpo non rispondesse più ai comandi".

    Allora io gli manifestavo la mia ammirazione per una vita così stracolma di soddisfazioni.

    Ci accomunava la ferma volontà a impedire che la nostra vecchia e gloriosa istituzione socialista democratica venisse messa a ferro e a fuoco dal nemico, nuovamente scatenato. Il "Centro estero" doveva continuare a stare lì, sfidando il tempo e l'arroganza del potere, per altri cent'anni. Nella musicalità della nostra bella lingua italiana, parole come "socialista" o "socialdemocratico" erano tornate a fungere da insulto. E noi buttavamo dunque il sangue in una battaglia del tutto inutile, ai fini convenzionali del tornaconto e del prestigio.

    Perché?! "Pe' tigna", riassunse una volta, con formula magnificamente antieroica, Giuseppe Tamburrano.

    Dal 1997 era toccato a chi scrive di assumere la guida dell'organizzazione socialista d'emigrazione, in uno dei momenti neri, come tanti altri ne erano capitati prima. Tra i miei predecessori il padre di Ettore, Enrico Dezza, l'aveva avuta ben più difficile, trovandosi per esempio a traghettare l'organizzazione attraverso due guerre mondiali, e ciò mentre un decreto di espulsione gli stava sospeso sopra la testa, come una spada di Damocle. Rischiava ogni momento di venire estradato in una galera fascista.

    Forse Ettore mi voleva al suo capezzale perché gli rappresentavo il padre approdato a Zurigo quand'era giovane, in fuga dall'asfissia dell'Italietta feroce e militar-clericale di Bava Beccaris. Io ero scappato, più modestamente, dallo smog metropolitano e dai furori degli ultimi anni Settanta. Ma, nonostante che un secolo o quasi separasse la mia generazione da quella di suo padre, c'era aria di famiglia.

    Ettore mi parlava di tutto: del suo apprendistato politico e intellettuale presso Silone prima della guerra; delle missioni speciali di guerra partigiana, travestito da novizio, nell'Emilia o nella Val d'Ossola. Poi il dopoguerra, la fondazione della tv, la vibrante personalità di Maria Callas che lui aveva diretto a Monaco in un memorabile allestimento dell'Aida, e i compagni: Brecht e Ragaz, Modigliani e la Balabanoff, Gorni e Canevascini. Ma anche le infinite diatribe interne, iniziate a Parigi, tra nenniani e saragattiani.

    Una volta mi raccontò di quando, negli anni Trenta, aveva introdotto il dialetto alla radio svizzera, per rompere con il purismo nazista. Fu un successo straordinario.

    Un altro giorno risalì con il ricordo fin sulla cima dell'epoca in cui era quasi ancora un ragazzino. Accennò ai suoi tentativi di intercettare una carriera piccolo-borghese, "normale".

    Dopo il noviziato domenicano, era rientrato a casa intraprendendo diversi lavori tra cui il soffiatore di cristalli. Gli piaceva, ma dovette abbandonare per un rischio di silicosi.

    A un certo punto confessò a suo padre la propria omosessualità, nonché la decisione di diventare attore drammatico.

    L'omosessualità – mi spiegava guardingo – era in quell'epoca lontana un partito diviso in due fazioni contrapposte: la fazione del "piacer mio" e quella della "amicizia". Disse "piacer mio" con rabbia e "amicizia" con un tono di voce che si appellava all'intellezione di un ideale. Ideale che si manifestava anzitutto e soprattutto nell'impegnarsi seriamente per offrire al proprio compagno occasioni di crescita culturale e umana.

    Quel vegliardo, che aveva convissuto cinquantatré anni con il suo partner, Richard Lenggenhager, mi disse cose riecheggianti passi di dialoghi platonici, filosofemi che fino ad allora si rubricavano per me sotto la voce dotta di "amor greco" con annessa nozione che di esso coltivava l'alta aristocrazia ateniese del quarto secolo avanti Cristo.

    Ma nella bruciante esperienza novecentesca quell'etica platonica riemergeva con ben altre valenze di significato esistenziale.

    Ettore Cella-Dezza aveva rischiato di finire ad Auschwitz per via di un'inclinazione sessuale diversa da quella di noi cosiddetti normali. Me ne rendevo conto?

    Una volta, mentre enumeravo a scopo terapeutico le ragioni di bellezza e di ricchezza della sua vita straripante soddisfazioni, lui m'interruppe per dirmi che però aveva due grandi rimpianti.

    "Il primo rimpianto" – disse – "è che non abbiamo potuto aiutare di più quegli Ebrei che erano arrivati nel nostro quartiere con quei loro grandi colbacchi".

    Perché aveva posto l'accento sui vistosi copricapi degli israeliti ortodossi? Considerai inopportuno domandargliene senza aver prima riflettuto sul punto. Gli chiesi qual era il secondo rimpianto.

    E lui: "Non aver mollato due cazzotti in più a qualche fascista che so io".

    Alcuni mesi dopo si spense. Da allora sono trascorsi quasi dieci anni, ma la memoria di quei colloqui è costantemente rimasta ben viva nella mia mente e mi ha aiutato non poco nei miei tentativi di comprensione delle umane vicende.

    Ed eccoci dunque al centenario dalla nascita di Ettore Cella-Dezza. Mi sono chiesto quale testo pubblicare sull'ADL per l'occasione. Da mesi stiamo lavorando alla riedizione bilingue di Nonna Adele, ma su ciò torneremo a lavoro concluso, quando pubblicheremo.

    Oggi mi torna alla mente l'ultimo suo discorso pubblico, che tenne nella città di Frauenfeld, nel Canton Turgovia, sede dell'ormai tradizionale Pink Apple Film Festival, un'importante rassegna internazionale del cinema gay. Per l'edizione del 2002 l'indirizzo di saluto inaugurale venne affidato a Ettore Cella-Dezza. Qui sotto ne riportiamo il testo integrale in versione italiana.

 

 

CON LA FORZA DELLA RAGIONE CON LE ARMI DELL’ONESTÀ

 

Ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve. Lottare per la libertà e l’emancipazione con i mezzi pacifici della ragione e dell’onestà non è inutile.

 di Ettore Cella-Dezza (1913-2004)

 (Frauenfeld 25.4.2002) - Se oggi prendo la parola, qui a Frauenfeld, di fronte a voi, inaugurando il Pink Apple Film Festival 2002, penso che l’indubbio onore riservatomi consegua da quattro ragioni che proverò a enumerare. La prima deriva, credo, dal prestigioso Premio cinematografico assegnatomi dalla Città di Zurigo pochi mesi fa. Zurigo è vicina e nelle sue sale verrà replicato il nostro programma odierno. La seconda ragione sta, forse, nell’esperienza e nel vissuto di un’ottantottenne al quale l’età tuttavia non ha ancora tolto per nulla la passione del proprio lavoro. E qui permettetemi senz’altro di aggiungere, in terzo luogo, che non si finisce mai d’imparare. In quarto e ultimo luogo vi sono, direi, le mie opinioni sulla sessualità e sull’amore: binomio tutt’oggi controverso, spesso avvolto da dubbie forme d’interesse morboso, e quasi universalmente considerato un tabù.

    Diciamo subito che a causa di questo tabù l’umanità, o almeno una “minoranza” in essa, vuoi di sesso femminile che di sesso maschile, soffre dai tempi mosaici. Nell’Antico Testamento, e segnatamente nel Levitico, si legge il seguente precetto:

 

Non giacerai con un ragazzo come con una donna,

ché è cosa abominevole. (Lev. 18:22)

 

E certamente un siffatto giacere è abominevole: circonvenzione e violenza, comportamenti entrambi che, e a buon diritto, vengono tutt’oggi sanzionati dalla legge. Ma amare esclude ogni circonvenzione e ogni violenza. L’amore è tutt’altra cosa. Sì, io credo che amare sia tutt’altra cosa e credo che nessuno, amando senza circonvenzioni e violenze, possa compiere – o anche solo percepirsi nell’atto di compiere – qualcosa di abominevole. No, davvero, non penso che si possa parlare di abominio quando due persone adulte si amano. E, anzi, se mai qualcuno di voi, care amiche e cari amici, percepisse come abominio l’espressione del proprio amore, sarebbe bene per lei o per lui cercare qualche ausilio terapeutico.

    Nondimeno, fin dai tempi arcaici la storia ci racconta di leggi che vietano e di sanzioni che puniscono l’amore, soprattutto il nostro amore, fino all’estremo supplizio. Occorre attendere la venuta di un popolo intelligente e straordinario come fu quello greco affinché uno spirito di maggiore libertà incominci a soffiare tra gli esseri umani.

    Di questa libertà i grandi padri e le grandi madri della cultura greca, nonché del pensiero e della letteratura universali – da Saffo a Socrate, da Platone ad Aristofane a tanti altri – ci hanno lasciato per altro  testimonianze perenni. Parlo di capolavori eterni, che però vennero originariamente concepiti e recepiti nella cornice quotidiana di splendide città e anfiteatri. E permettetemi di sottolineare, con tutto l’orgoglio di un vecchio uomo di spettacolo, che un tratto caratteristico della cultura greca fu proprio la sua dimensione pubblica, simboleggiata dal teatro.

    Non a caso fu per effetto dell’onda culturale ellenistica che – dalla Persia alla Tunisia da Epidauro ad Atene a Siracusa – nacquero teatri grandiosi, che potevano ospitare fino a sedicimila spettatori. Nasce di qui la robusta civiltà teatrale dell’Occidente, nasce di qui la capacità del teatro di motivare anche dopo il tramonto delle poleis greche ulteriori generazioni di artisti, e non tra i peggiori, che seppero proseguire su questa via. Di qui nacquero l’entusiasmo e la passione che condussero a edificare altri grandi anfiteatri – a Taormina e a Verona, a Pompei e ad Avenches – dove venivano rappresentate le commedie di un Plauto e di un Terenzio, e dove avevano luogo anche dispute su argomenti di pubblico interesse, agoni di poesia, vere e proprie olimpiadi dello spirito e dell’intelletto.

    Nelle egloghe di Virgilio, nelle liriche di Saffo, nei metri e nelle rime di non pochi letterati antichi ci restano testimonianze altissime tanto del sentimento amoroso quanto di invidiabile autonomia intellettuale.

    E poi? Cos’è successo, poi? Poi, fino a ieri o all’altro ieri, è successo che tanto l’uno quanto l’altra, tanto il sentimento quanto l’intelletto, ci sono stati interdetti per lunghi secoli: sia nell’ambito della vita quotidiana, sia in quello della letteratura e del teatro. Lo stesso si potrebbe affermare, in tempi più recenti, della radio, della televisione e del cinema, giacché – lasciatemelo dire a chiare lettere – è soprattutto di silenzio censorio, non d’altro, che sono fatti a tutt’oggi i nostri media.

    Parlo di un silenzio censorio che viene da lontano; che inizia con la traduzione biblica, la cosiddetta “Itala”, del 195 d.C. e poi, ancor di più, con la versione approntata da Girolamo nel 392; parlo di una attitudine censoria e repressiva che inizia insomma con la “cristianizzazione” dell’Occidente; parlo di un processo storico che sicuramente non ebbe luogo all’insegna del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma che tutt’altrimenti recò in sé il segno curiale e romano di una chiesa ormai totalmente dominata dalla propria sete di potere.

    Durante tutta l’epoca tardo-antica e durante tutto il medioevo la chiesa ha letteralmente messo a ferro e a fuoco ogni libertà sessuale. Né, va detto, la pratica della tortura e del rogo cessarono con l’avvento della cosiddetta età umanistica o della cosiddetta età dei lumi. No, care amiche e cari amici, interdizione e persecuzione sempre: dal passato remoto fino al tempo presente.

    La chiesa oggi moltiplica ovunque i suoi appelli affinché tutte le persone di buona volontà servano la pace tramite lo strumento del perdono: “perdona il tuo nemico!” Il che mi pare un’istanza in sé condivisibile. Ma alla chiesa stessa in duemila anni non sembra esser mai riuscito di dare seguito a questa sua istanza. Sicché si grida “pace pace”, ma la guerra continua. Perché? Forse perché la chiesa non osa mettere in questione alcuni pseudo-fondamenti sociali della propria dottrina. Ma anche per una certa incoerenza tra il piano delle parole e quello dei fatti.

     “Ama il prossimo tuo come te stesso” – il comandamento evangelico vale sì per tutti, ma, care amiche e cari amici, la chiesa sembra dimenticarsene quando si tratta di certe “minoranze” rispetto alle quali si rimane fermi alle giaculatorie di condanna: “Orsù, figliolo, tu devi... è proibito... è peccato grave!”

    Insieme al dito alzato, vagamente minaccioso, della morale tradizionale, resta in vigore il monito a non mai turbare il comune senso del pudore. Tanto più che ciò diffonderebbe solo insicurezza... Meglio, dunque, non parlarne, meglio imbavagliare, stroncare e sopire... Insomma, ecco a voi il tabù.

    Fortunatamente, anche all’interno della chiesa, aumenta il novero di religiose e religiosi – non necessariamente coinvolti nel nostro tema per vicende o travagli personali – cha hanno il coraggio e l’onestà di sostenere in santa coscienza una posizione diversa da quella ufficiale, anche al prezzo di venire a loro volta “silenziati”.

    La ragione di questo breve excursus storico è presto detta: ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve, che lottare non è affatto una cosa inutile. Se così non fosse, pensiamo a noi per un istante, che ce ne siamo oggi qui riuniti in questa bella sala della città di Frauenfeld per celebrare un festival del cinema gay. Lo possiamo fare in quanto oggi noi rappresentiamo una minoranza combattiva e aggregante, capace di evolversi e di indurre all’evoluzione anche i nostri media. Noi oggi rappresentiamo una minoranza che non intende, né deve più, accettare qualunque prepotenza.

    Tutto questo è oggi possibile qui, nel Paese che ospita questo festival, la Svizzera – e ciò sia detto senz’ombra di vanità o boria nazionale – perché in questo Paese  durante lo scorso secolo e anche in quello precedente hanno vissuto persone – cito tra tutti Hösli, Meyer e von Knonau –  che seppero spendere la loro intelligenza nella lotta. E che, così facendo, seppero imprimere un impulso all’intera società, pur tra mille sofferenze e al prezzo di sacrifici pagati in prima persona: sofferenze e sacrifici di cui noi, care amiche e cari amici, oggi profittiamo.

    Da tutto ciò dobbiamo trarre motivo per proseguire – con mezzi pacifici – la nostra lotta. Con mezzi pacifici: perché non è con le battaglie campali o con le operazioni di guerra che si risolvono i problemi dell’umanità. Ogni giorno sperimentiamo questa semplice verità, sebbene l’orda militarista non intenda prenderne nota. Eppure, le conseguenze della guerra sono – oltre agli immani cumuli di macerie sotto gli occhi di tutti – immani cumuli di menzogne e paure, di squallori e miserie, immani cumuli di tormenti per la morte di persone care. E furiosi desideri di vendetta. Come non vedere che tutto ciò rischia di alimentare nuove spirali di odio, innescando, prima o poi, il tragico circolo vizioso di nuove guerre?

    A chi vorrebbe tacitarci dicendo che, però, le guerre ci sono sempre state, io rispondo: non lasciatevi incantare da queste parole, non lasciatevi chiudere la bocca, fate che la pace non sia un tabù!

    Ecco, bisogna lottare con la forza della ragione, impiegando le armi dell’onestà, della rettitudine e dell’intelligenza. E in tal senso le possibilità offerteci dai mezzi di comunicazione sembrano oggi varie e numerose quanto basta. Ricordiamoci che nella storia non sono mai mancati donne e uomini capaci di raccogliere la sfida della lotta per la libertà e l’emancipazione, anche quando ciò comportava il prezzo di incomparabili sacrifici.

    Quanti di loro sono andati incontro alla discriminazione sul lavoro? o alla disoccupazione? o al licenziamento? Quanti sono finiti in carcere? Quanti i morti in campo di concentramento? O i costretti alla fuga onde evitare la morte? Quanti vennero indotti alla disperazione e al suicidio? E quanti ancor oggi cercano riparo nella folla anonima delle grandi metropoli, abbandonando il paese in cui sono nati, essendo loro impossibile condurvi liberamente una esistenza minimamente serena?

    Vorrei ricordare Magnus Hischfeld, che fu autore di uno studio scientifico su questo speciale aspetto dell’urbanesimo e che fondò a Berlino un centro di accoglienza. Dovette riparare in Svizzera per evitare la camera a gas.

    Vorrei ricordare, in quegli stessi anni, l’attore e scrittore turgoviese Karl Meier, noto anche come “Rolf”, che portava avanti assieme al lavoro una coerente militanza antifascista nel cabaret Cornichon, e che fondò la rivista Kreis come pure l’omonimo centro di cultura, con vasta risonanza presso l’opinione pubblica di tutto il mondo libero.

    Rivoluzionarie e paradigmatiche furono, nel secondo dopoguerra, Rosa von Praunheim, regista di pellicole sfrontate e sconcertanti, il sempre malfamatissimo Rainer Fassbinder e un Pier Paolo Pasolini continuamente bersagliato da querele a causa dei suoi film sessuo-politici che avevano conquistato un vastissimo pubblico, seppure a mio avviso su un piano talvolta meramente voyeuristico.

    Per ciò che concerne la letteratura non tento nemmeno di fare un elenco di tutti quelli che, dopo Whitman e Wilde – da Gide a Cocteau, da Genet a Sartre a White e Baldini e Vidal e Monicelli e cento altri –, hanno contribuito a combattere il pregiudizio.

    Ma giunti sin qui, quel che mi preme è sottolineare un punto a mio avviso essenziale: care amiche e cari amici, nella vita non si hanno soltanto dei diritti. Ci sono anche i doveri. Sì, doveri, che chiedono di essere osservati con coscienziosità, verità e amore.

    In molti paesi del mondo il nostro festival non potrebbe avere luogo. In 35 nazioni vige la pena di morte. E durante l’anno 2001 le agenzie di stampa hanno dato notizia di ottantuno tra decapitazioni e lapidazioni di persone accusate di: “omosessualità”.

   Il cammino da compiere, come si vede, è ancor lungo. Perciò, se un festival cinematografico ci può ben apparire una goccia su una pietra rovente, non di meno lasciateci sperare che prima o poi, perseverando, anche questa goccia peserà, conterà, contribuirà ad alimentare una pianta fertile che porterà i suoi frutti.

    Per noi qui i frutti iniziano anzitutto dalla ricchezza emozionale che il cinema sa regalarci: nel pianto, nel riso e nella riflessione.

    Perciò, un grazie a tutti coloro che hanno dedicato le loro energie  all’organizzazione di questo Pink Apple Film Festival di Frauenfeld e che meritano di raccogliere pieno successo.

    Vi auguro di non mollare mai e di continuare sempre a combattere con intelligenza e con onestà.

    Grazie della vostra attenzione.

 

 

Un’iniziativa della “Fabbrica” 

Che Ettore sia con noi !!!

 Centenario di Cella-Dezza: appuntamento cinematografico a Zurigo, giovedì 12.9.2013, ore 20, al “Punto d’Incontro”, Josefstrasse 102

 di Mattia Lento

 A 100 anni dalla nascita di Ettore Cella-Dezza la “Fabbrica” di Zurigo ha deciso di ricordarlo e rendergli omaggio con due proiezioni presso il Punto d’Incontro (Josefstrasse 102).

    Il 12 settembre, giorno dell’anniversario, e il 9 dicembre verranno mostrati infatti Bäckerei Zürrer e Hinter den sieben Gleisen, due film del grande regista elvetico Kurt Früh, in cui Ettore interpreta i due personaggi ormai leggendari di papà Pizzani e del venditore di banane Colonna.

    La visione dei due film sarà l’occasione per vedere le immagini dell'Aussersihl alla fine degli anni ‘50, quell’“Ettores Chreis” che ha segnato la storia di una città e dei suoi migranti.

    Questa breve retrospettiva, inoltre, rendendo omaggio a uno dei più illustri simboli dell’integrazione straniera a Zurigo, vuole essere di buon auspicio per l’iniziativa cantonale del 22 settembre per il diritto di voto straniero a livello locale. Che Ettore sia con noi !!!