domenica 29 maggio 2016
Recuperata la lettera sulla scoperta dell'America
Per la coesione culturale dell’Europa
giovedì 19 maggio 2016
100 anni dopo Kiental - Uscire dai confini
Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra.
di Felice Besostri
Alla vigilia della Prima guerra mondiale le masse che si erano opposte alla guerra si trovarono a combattere su fronti opposti. Lo stesso movimento operaio e socialista passò dall’internazionalismo alla logica della ragion di Stato e nella sua maggioranza votò i crediti di guerra. Quella scelta rappresentò la fine dell’Internazionale socialista, un’organizzazione già percorsa da divisioni ideologiche provocate dal revisionismo da un lato e dalle tendenze rivoluzionarie dall’altro: una sfida all’ortodossia socialdemocratica e al suo marxismo minimo.
Una crisi politica, che significava crisi morale e rinuncia ai valori tradizionali di solidarietà di classe per adeguarsi al nazionalismo patriottardo.
Come allora la crisi fu più acuta in Europa, la culla del movimento operaio e socialista, anche oggi è in crisi la sinistra in tutte le sue espressioni a cominciare da quella una volta dominante ed egemonica o, comunque, maggioritaria nella parte occidentale: il socialismo democratico. La caduta dei regimi comunisti non ha rafforzato la sinistra, ma l’ha indebolita complessivamente, basta fare un confronto tra la UE a 15 negli anni novanta del XIX e quella a 28 del secondo decennio del XX secolo.
Certamente le insufficienze sono datate da tempo: inesistenza di una politica economica alternativa a quella imposta a livello planetario dal capitalismo finanziario e dalle multinazionali, quando con la crisi economica e finanziaria ha reso impossibile il mantenimento dello stato sociale. Tuttavia è ancora una volta nel tradimento dei principi di umanità e solidarietà sociale, come 100 anni fa del pacifismo e dell’internazionalismo, che segnano la crisi della sinistra e che la travolge in tutte le sue espressioni, comprese quelle più radicali.
E’ un dato non contestabile che la perdita di consenso elettorale dei Partiti del PSE, soltanto in minima parte è andato a beneficio di formazioni alla loro sinistra, piuttosto ha alimentato l’astensione e/o il populismo xenofobo ed identitario o i partiti conservatori al limite reazionari come in Ungheria o in Polonia. Dove l’ignavia del PSE ha colpito in primo luogo il suo partito membro, come il Pasok in Grecia, l’alternativa di sinistra non ha raggiunto mai la maggioranza assoluta e ha dovuto accettare compromessi che ne hanno minato l’unità e costretta ad alleanze con formazioni di centro-destra.
La più solida e consistente anche temporalmente, come la Linke in Germania, non è mai uscita dai Länder della ex DDR, ad eccezione della Saar, e comunque i governi che si basavano su un’intesa SPD- Linke, meno di quelli numericamente possibili, non hanno quasi mai trovato una conferma elettorale democratica alla scadenza. Soltanto in Spagna si era profilata una possibile intesa tra sinistra tradizionale PSOE e nuova (Podemos e sue varianti), fallita e rimandata ad una prova d’appello, molto più difficile, se non vengono sconfitti l’autosufficienza socialista andalusa e il secessionismo a egemonia borghese della Catalogna. A differenza di 100 anni fa alle frontiere non si scavano trincee dalle quali spararsi reciprocamente, ma si erigono muri verso masse di disperati e si stipulano accordi di contenimento, come con la Turchia, con costi economici, per non parlare di quelli umani, superiori a quelli di un’integrazione programmata e una politica di corridoi umanitari. Su questo l’Europa si gioca il suo futuro, ma il fallimento di quest’Europa, che l’ha cercato e meritato, non aprirà nuovi spazi alla sinistra, ma alla destra come dimostrato dai successi della FPÖ al primo turno delle presidenziali austriache.
La sinistra aveva un progetto federalista europeo, che trova il suo fondamento, nel Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, da adeguare alle sfide epocali e planetarie dei cambiamenti climatici e alle migrazioni di massa, ma non riscoprire il nazionalismo ammantato da sovranità democratica e monetaria. L’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis indica una strada di riforma dell’Europa senza tentazioni nazionaliste, continua una tradizione di federalismo socialista, la cui massima utopia di era espressa con la parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa nell’immediato secondo dopoguerra mondiale.
Soltanto l’immaginazione romanzesca di Guido Morselli in Contro-passato prossimo aveva legato la vittoria dell’Austria-Ungheria nella Prima Guerra mondiale ad una rivoluzione che avrebbe trasformato la doppia monarchia nella prima Federazione Socialista Europea, centro della trasformazione socialista mondiale al posto dell’arretrata Federazione Russa: un trionfo dell’austro-marxismo sullo stalinismo. Quelle utopie non hanno più rapporto con la realtà quando e impossibile distinguere i socialdemocratici austriaci e slovacchi da un fascistoide come Orban, leader di un partito del PPE.
Cento anni fa i socialisti che avevano rifiutato la guerra seppero tentare almeno un riscatto morale e politico organizzando a Zimmerwald nel 1915 e a Kiental nel 1916 due conferenze internazionali, grazie a compagni come gli svizzeri Robert Grimm, e Ernest Paul Graber o gli italiani Oddino Morgari, Giuseppe Emanuele Modigliani, Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, ma guidati dall’ebrea ucraina, naturalizzata italiana, Angelica Balabanoff.
Ebbene il centenario di quell’evento è stato ricordato dall’associazione degli storici svizzeri dell’Università di Berna e da una Conferenza lo scorso 30 aprile del Partito del Lavoro svizzero. Vogliamo tentare, uscendo dai nostri confini identitari, di ricostruire una sinistra cui debbono concorrere tutti i suoi filoni ideali storici, socialista, comunista e libertario, arricchiti dal pensiero ambientalista, femminista e dei diritti umani. Filoni ideali, perché se scendiamo sulle realizzazioni storiche dobbiamo constatare che sono fallite o esaurite. Pura utopia? Ma c’è un’alternativa?
Cominciamo da dove viviamo, dalle nostre città, a cominciare dalle metropoli come Milano, Roma, Napoli, Torino e Bologna, facendo delle differenze una ricchezza. La difesa della democrazia dalle leggi elettorali come l’Italicum e dalla deforma costituzionali sono un collante forte di una sinistra capace di coniugare libertà, lavoro, democrazia e giustizia sociale. E chiediamo dal basso una conferenza internazionale come quella di cent’anni fa.
martedì 10 maggio 2016
Ieri e oggi il Giorno del Ricordo
Da Avanti! online - www.avantionline.it/
Il Giorno del Ricordo ricorre nei giorni della rivolta del Ghetto di Varsavia. L’immagine-simbolo scelta dalle Comunità Ebraiche è un percorso di fili spinati a forma d’impronta digitale umana.
Da ieri sera fino alla giornata di oggi, in tutte le comunità ebraiche del mondo si ricorda il “Giorno del Ricordo della Shoah e del Coraggio” (Yom HaZikaron laShoah ve-laGvura) dedicata alle vittime e agli eroi che combatterono con tutti i mezzi a loro disposizione contro i nazisti. La data è quella della la rivolta del ghetto di Varsavia
L’immagine del Giorno del Ricordo è un percorso di fili spinati a forma d’impronta digitale che rappresentano simbolicamente il segno indelebile del popolo ebraico del passato, del presente e del futuro.
Questo il motto della Giornata: “Non dimenticheremo e faremo in modo che i nostri figli facciano lo stesso nella speranza che questo terribile ricordo appartenga alla memoria condivisa per rafforzare l’unione con il popolo ebraico nella lotta incessante e senza quartiere contro l’antisemitismo e contro ogni forma di odio di natura religiosa, etnica, di genere”.
martedì 3 maggio 2016
Migranti, dietro la paura
FONDAZIONE NENNI
http://fondazionenenni.wordpress.com/
C’è un diritto a emigrare come si evince da diverse convenzioni sull’argomento. L’emigrazione come fattore di liberazione e di emancipazione.
di Enzo Russo
Da anni l’Ocse e le organizzazioni delle Nazioni Unite raccomandano la ripresa dell’Emigrazione per compensare l’invecchiamento della popolazione nei paesi ricchi della Unione Europea – uno dei paesi con la popolazione più vecchia del mondo. A tal fine serve non solo l’inserimento nel mercato del lavoro ma anche la piena integrazione.
Ricordo il discorso che la direttrice della sezione demografia dell’Istat, una ventina di anni fa, pronunciò alla Società degli economisti pubblici (Siep) a Pavia: ci disse che il fabbisogno di forze nuove per ottenere l’equilibrio demografico era stimato in circa 500 mila persone all’anno.
Dopo le dichiarazioni della Merkel del settembre 2015 uno dei 5 saggi che consigliano il governo tedesco in una intervista al Sole 24 Ore ha detto che l’analogo fabbisogno della Germania è pari a 700 mila persone all’anno. Dal lato della domanda, per citare solo due casi, ci sarebbe in teoria ampio spazio per assorbire gli attuali flussi emigratori.
Il problema più grave è dal lato dell’offerta, e la situazione dell’offerta si è aggravata con la crisi del 2008-09 che in Europa si trascina ancora sino ad oggi. La crisi ha prodotto secondo i calcoli dell’ILO (Ufficio internazionale del lavoro) 61 milioni di disoccupati in più rispetto alla situazione del 2008, colpendo in modo grave le aree del Sud dell’Asia e l’Africa a Sud del Sahara. E nei prossimi cinque anni la disoccupazione è vista peggiorare portando i disoccupati a 212 milioni nel 2019. Durante la sessione primaverile del G20 la direttrice del FMI, Christine Lagarde, ha confermato la gravità della situazione. Emma Bonino la settimana scorsa ha detto che 60 milioni di persone potrebbero emigrare dall’Africa.
C’è la globalizzazione che velocizza i meccanismi di trasmissione e, come noto, c’è una flessione della crescita mondiale. E la ripresa in Europa è vista molto debole se non proprio di stagnazione complessiva. C’è anche l’accresciuta debolezza del movimento sindacale a livello mondiale. C’è l’inadeguatezza strutturale delle istituzioni sovranazionali che si occupano di questi problemi: Onu, Fmi, Banca mondiale e del sistema delle banche regionali che si occupano dei problemi della crescita e dello sviluppo, G7, G8, G20 – ora abbiamo anche il G5…
All’assemblea generale dell’Onu prevalgono paesi dittature, nei paesi europei prevalgono governi di centro-destra. Ci sono alti tassi di disoccupazione nella UE: la crescita langue. Persino negli USA si teme la stagnazione secolare. Il Rapporto dell’ILO denuncia l’aumento delle diseguaglianze, calcola che al 10% più alto della popolazione va il 30-40% del reddito totale mentre al 10% più povero solo qualcosa tra il 2 e il 7%. Ovunque cala la fiducia nei governi ed è aumentato fortemente il disagio sociale dall’inizio della crisi globale.
In questo scenario si acuiscono i problemi della emigrazione per motivi politici, per scappare dalla fame, dalle persecuzioni, dai conflitti interni….
Dopo 40 anni di neo-liberismo nei paesi ricchi è fortemente aumentato l’egoismo e si è ridotta la solidarietà supposto che ce ne sia stata a sufficienza prima.
Ricordo che la solidarietà non funziona in contesti di aree regionali molto larghe (continenti), figuriamoci a livello globale.
Come economista preferisco ragionare in termini di reciprocità, di interesse comune ma, come sappiamo dall’esperienza, molti soggetti non riconoscono l’interesse comune neanche nel contesto ristretto locale.
Cosa non funziona? Non funziona la governance mondiale, non funzionano i governi di centro-destra e, non di rado, neanche quelli di centro-sinistra. A livello globale, in un modo o nell’altro, prevale un consenso contrario all’intervento diretto della Stato nell’economia per cui non si adottano le politiche economiche più adatte a promuovere crescita del reddito, della occupazione e lo sviluppo sostenibile.
Come sappiamo non c’è una tendenza spontanea del mercato alla piena occupazione. Al contrario, agli imprenditori fa comodo avere un esercito industriale di riserva – anche in Cina.
Gli immigrati dicono alcuni rubano posti di lavoro ai locali. Ma il vero problema è che se c’è disoccupazione e c’è anche uno squilibrio demografico grave, i governi responsabili dovrebbero perseguire una politica economica in grado di creare posti di lavoro a sufficienza per i residenti e per gli immigrati.
Se non si fa questo, si alimenta la nascita e crescita dei movimenti populistici e xenofobi. È quello che avviene un po’ dappertutto anche in Europa e in Italia. Ma da noi abbiamo l’apparente paradosso delle regioni del Nord che chiedono deroghe per consentire l’ingresso di immigrati perché questi, in pratica, non hanno diritti o sono costretti a non rivendicarli perché rischiano di essere rimandati indietro.
Con alta disoccupazione e molti immigrati anche i lavoratori locali debbono accettare la riduzione dei loro diritti se vogliono continuare a lavorare.
Lo ripeto: il problema è globale. Manca una politica economica idonea a produrre la crescita del PIL e dell’occupazione. Non funziona la governance mondiale? Oppure le sue istituzioni sovranazionali e i governi e/o i poteri forti che le egemonizzano non vogliono farla funzionare nell’interesse della stragrande maggioranza dei lavoratori per favorire la minoranza dei ricchi e dei potenti?
Un’ altra riflessione riguarda il lancio da parte del governo italiano di un Patto per l’emigrazione con emissione di eurobond per il finanziamento di programmi di sviluppo nei Paesi africani. Secondo me, si tratta solo di una proposta che la Germania vede come provocatoria o come grimaldello per introdurre uno strumento che ha sempre avversato. Come si fa a pensare che l’UE possa emettere eurobond per finanziare lo sviluppo di Paesi africani quando non l’ha voluto fare per la Grecia o altri paesi cosiddetti periferici della stessa UE?
Se riteniamo che il problema della crescita e dello sviluppo sostenibile è problema di carattere globale che interessa, in primo luogo, l’Africa ma anche altri paesi del mondo, perché l’UE non spinge per mobilitare le organizzazioni specializzate delle NU a partire dalla Banca Mondiale e dalle banche regionali di sviluppo? Queste hanno una lunga esperienza in materia e si finanziano con l’emissione di obbligazioni nei mercati finanziari. Con il QE (l’allentamento monetario) in America e in Europa ci sono “oceani di liquidità” ma questa non viene utilizzata per gli obiettivi più importanti. Perché l’UE non spinge per incrementare le risorse della Banca Mondiale, dell’African development Bank e dell’Asian Development Bank – senza dimenticare il Banco interamericano di sviluppo ? Per questo motivo ritengo che la proposta del governo italiano è solo fumo negli occhi degli altri partner europei.